QUANDO I GRANDI GIOCANO ALLA GUERRA, I BAMBINI NON GIOCANO PIU’!

Ore 01,42 in Italia: si rompono tutti gli equilibri. Sessanta missili lanciati dagli americani “rispondono” ad Al Assad distruggendo la base militare dalla quale è partito il raid con gas tossici che ha ammazzato donne e bambini in Siria facendo strage fra le poche persone rimaste. 

Ore 15,00 in Italia: a Stoccolma, in Svezia, uno dei Paesi europei che ha accolto il maggior numero di profughi, si registra un altro attacco terroristico. Stessa strategia, ormai nota: un tir piomba sulla gente in un centro commerciale e fa ancora morti e feriti.

 

Ore 15,00 in Italia: una nave militare russa entra nel Mediterraneo e si posiziona di fronte alla nave americana dalla quale sono partiti i missili.

 

Capi di Stato mondiali, quasi stessero governando un condominio, litigano con la differenza che non volano solo parole grosse, a volare sono bombe che non fanno solo rumore ma lasciano a terra cadaveri, persone quasi sempre indifese.

La lite fra Trump e Putin, fino a ieri amici, non lascia lividi sul viso di nessuno dei due.

Certo, le immagini dei bambini intossicati e soffocati dalle bombe chimiche di Al Assad sono un pugno allo stomaco di tutta quella umanità che ancora si reputa civile e si interroga: se la risposta sono le bombe in risposta alle bombe, la diplomazia, la politica o semplicemente il buon senso sono scomparsi?

Si parla di “Linea Rossa” superata da Al Assad come se ammazzare con una pistola o un fucile abbia un valore diverso.

La Siria è il cuore del medio oriente ne quale si sta combattendo una battaglia nella quale tutti sono contro tutti a difesa dei propri particolari interessi. Dimenticata e archiviata la caduta del muro di Berlino (che aveva dato l’illusione che certe dinamiche fossero state consegnate al passato), l’ONU ha perso il suo ruolo pagando il prezzo alle nuove dittature in un mondo diviso, ormai, in quattro zone di influenza: USA, Europa, Russia e Cina.

E, forse, non è un caso se i potenti del mondo giocano a “braccio di ferro” e lo fanno nel pieno della visita ufficiale negli USA del Presidente della Repubblica Cinese: nel bel mezzo di una cena di stato, Trump spinge il bottone per far partire i missili sulla Siria.

Con il problema della Corea sul tavolo è stato come dare uno schiaffo in piena faccia al Presidente cinese lanciando un messaggio preciso su quale sarà la reazione americana di fronte al prossimo esperimento nucleare.

Resta il fatto che spingere un bottone è più facile: pare che per i nuovi “governanti” tenere in mano una penna, parlare al telefono o semplicemente parlare è diventato difficile, faticoso.

Al Assad rimarrà al suo posto una volta che saranno definiti i margini dell’accordo fra USA e Russia sul futuro della Siria e di tutto il Medioriente.

E’ un dittatore fantoccio ma comodo: non è padrone in casa sua!

Con sessanta missili gli americani avrebbero potuto distruggere il Palazzo Presidenziale e ammazzare Al Assad: hanno scelto una base militare per affermare che l’interlocutore non è solo Putin. A decidere del futuro della Siria o, meglio, della sua spartizione deve sedersi anche Trump.

L’ISIS, al di là delle azioni isolate, pare essere diventato un problema marginale.

Si gioca a Risiko!

E quando i grandi giocano, i bambini non giocano più!

In una guerra che non vincerà nessuno

Badjie e il sogno di riabbracciare suo padre.

«Avevo un contratto e un lavoro che mi permetteva di vivere dignitosamente con la mia famiglia, poi la dittatura mi ha costretto a fuggire». Badjie Sedia è vissuto in Gambia. Ha quasi 20 anni e come suo padre ha lavorato fin da piccolo nel campo dell’edilizia. Non un semplice muratore o imbianchino: la professionalità della sua famiglia ha contribuito anche alla realizzazione di opere importanti nella capitale Bajul: «Lavoravamo tanto in Gambia. Avevamo contratti con quattro aziende importanti per la costruzione di centri direzionali e altre opere grandi. La mia famiglia ha lavorato anche alla realizzazione delle opere che oggi si trovano in piazza Tabakorot».

Una vita tranquilla, insomma. Almeno sul lavoro. Eppure nel suo Paese il regime dittatoriale opprimeva la vita del popolo che inizia così a ribellarsi e a scioperare. «A dicembre 2016 ci fuorno una serie di incidenti molto gravi: durante uno sciopero contro la dittatura la polizia ha iniziato a sparare sui manifestanti. Chiedevano la nascita della democrazia, non c’era violenza eppure alla fine degli scontri diversi manifestanti sono rimasti uccisi».

Badjie sa che la polizia sta cercando anche lui che era tra i manifestanti. Per tre giorni ha cercato di nascondersi e poi ha capito che per salvarsi doveva fuggire. «Sono stato prima in Mauritania e ho provato a lavorare. Poi è iniziato l’avvicinamento all’Italia attraverso in Niger e la Libia. Sono stato tre mesi a Saba tre e due mesi a Tripoli. In ogni posto in cui sono stato ho sempre trovato lavoro, ma la Libia è un posto pericoloso e così con altri 130 compagni mi sono imbarcato per scappare e raggiungere l’Italia».

Dal 6 dicembre scorso è ospite a Costruiamo Insieme dove sta seguendo le lezioni di italiano: « Mi trovo bene con la gente che lavora qui. Mi accorgo davvero che si prendono cura degli ospiti. La lingua italiana non è semplice – sorride Badjie – ma so che è fondamentale e io  voglio impararla. Voglio farlo perché ho bisogno di trovare un lavoro: solo così potrò portare qui mia moglie e i miei tre splendidi figli».

Il racconto di Badje poi torna alla sua vita in Gambia: il lavoro, la politica e gli hobby. «Tante cose mi mancano: andavo spesso in palestra. Quando mi allenavo il mio corpo era libero. E anche io mi sentivo libero. Ora voglio ricominciare per raggiungere i miei sogni. Il più importante? Sono tanti e tutti importanti, ma se ora dovessi sceglierne uno direi che vorrei rivedere mio padre: è anziano e sogno di riabbracciarlo prima che sia troppo tardi».

Ancora bombe, ancora stragi: San Pietroburgo.

Altra bomba, altri morti, altri feriti. Ancora nessuna rivendicazione.

Questa volta è toccato a San Pietroburgo, in un tunnel della metropolitana, raccogliere il sangue di innocenti. Un pacco o una valigetta carica di tritolo e chiodi ha dilaniato un vagone uccidendo dieci persone e ferendone cinquanta. La pista è, come sempre, quella terroristica anche se questa volta viene esclusa la pista del kamikaze votato a qualche martirio: solo un pacco lasciato sotto un sedile per uccidere.

Un’altra bomba, posizionata in un’altra stazione della metropolitana (nel frattempo evacuata), è rimasta inesplosa e disinnescata dalla polizia. Ordigni artigianali, ma con un grande potenziale omicida soprattutto se posizionati dove non c’è via di fuga. Una strategia vigliacca per fare più male possibile fra la gente comune. Un modo, diventato ormai di moda, per dire “io ci sono!”. Putin era a San Pietroburgo, la città in cui è nato, dove aveva in programma un incontro con il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. E tante cose non succedono per caso. Soprattutto in un Paese come la Russia da anni votata alla repressione del dissenso da qualsiasi parte arrivi. Aleksey Navalny, blogger russo, è stato arrestato nel pomeriggio del 26 marzo, a Mosca in piazza Triumfalnaya. L’accusa è quella di aver manifestato contro la corruzione di Stato. Con lui sono stati fermati o arrestati, solo nella capitale russa, oltre 1000 manifestanti. 130 sono stati gli arresti a San Pietroburgo e centinaia quelli eseguiti in altre città. È stata la più grande manifestazione nel paese da 5 anni a questa parte. Nel 2012 la classe media scese in piazza contro il Cremlino per presunte frodi nel voto alla Duma. Ma lo scenario è completamente cambiato – dopo Crimea, Siria, e Trump. La crisi economica si trascina da tre anni. E stavolta anche se non mancano gli slogan politici anti-Putin, al centro della protesta c’è il disagio sociale che cresce. E il bersaglio è il premier col suo governo, poco amati per i drastici tagli al welfare.

Certo, il ruolo della Russia in Siria non è secondario, ma pare che Putin debba preoccuparsi più del fronte interno anche se, una buona manipolazione mediatica, in un Paese che pone censure all’informazione, forse tenterà di spostare l’attenzione sul “nemico” esterno, magari islamizzando una bomba confezionata in casa e utilizzando il solito piatto servito dal Califfato, pronto ad arruolare ex post i propri martiri pur di stare sulla scena, oppure partirà con una seria e severa campagna di criminalizzazione di chi pacificamente contesta il sistema corruttivo che governa il Paese.

Comunque sia, oggi sono rimasti dilaniati dieci corpi di persone innocenti che hanno perso la vita in un vagone della metropolitana.

Qualcosa di bello che vale la pena raccontare

In una Italia che ogni giorno si sveglia o va a dormire all’ombra di sempre più frequenti episodi di efferata violenza, di questa settimana trascorsa è bello porre l’attenzione e soffermarsi su alcuni eventi.

 

A Firenze, nel corso del G7 della Cultura, è stata sottoscritta la Dichiarazione di Firenze per la tutela dei beni culturali in qualsiasi parte del mondo siano messi in pericolo per questioni legate a calamità naturali o al terrorismo sostanziando l’idea della cultura come strumento di dialogo e rinascita dello spirito europeo. I ministri dei sette Paesi hanno sottoscritto anche un “appello a tutti gli Stati affinché adottino misure robuste ed efficaci per contrastare il saccheggio e il traffico di beni culturali dal loro luogo di origine, in particolare dai Paesi in situazione di conflitto o di lotte intestine”. Per far si che tutto non rimanga solo sulla carta e nelle buone intenzioni, durante il vertice si è parlato del coinvolgimento dei caschi blu, la task force internazionale da mettere in campo a difesa dell’arte e dei monumenti minacciati dall’uomo e dalla natura.

Il documento finale – ha spiegato il Ministro Franceschini – impegna su una serie di temi, il primo dei quali è il patrimonio culturale nel mondo minacciato dal terrorismo e dalle grandi calamità naturali; quindi c’è il sostegno all’iniziativa dei caschi blu, delle task force nazionali e anche sull’utilizzo della cultura come strumento di dialogo fra i popoli“.

 

Sempre in settimana, il Parlamento italiano ha approvato in via definitiva la Legge a tutela dei minori stranieri non accompagnati. L’Italia è il primo Paese in Europa ad adottare uno strumento legislativo che sancisce il divieto di respingimento e l’uguaglianza di diritti fra minori italiani e non garantendo il libero accesso a tutti i servizi. I minori stranieri non accompagnati, così, escono finalmente dal grande magma che circonda la gestione amministrativa delle migrazioni conferendo le competenze ai Tribunali dei Minori e rafforzando quelle dei Servizi Sociali territoriali.

Al raggiungimento della maggiore età, il Permesso di Soggiorno sarà convertito automaticamente premiando chi ha intrapreso percorsi di formazione ed integrazione. Anche se tardi, arriva una svolta di civiltà che, malgrado tutto, non ha trovato un consenso unanime fra le forze politiche.

Oumoh, la bambina ivoriana di quattro anni sbarcata a Lampedusa a novembre, una delle migliaia di minori non accompagnati che sbarcano in Italia (lo scorso anno sono stati 26.000 circa, settemila dei quali non si ha più traccia) ha riabbracciato la mamma giunta in aereo da Tunisi. Camara Zeinabou, 31 anni, scappata dalla Costa d’Avorio, aveva messo sua figlia su un gommone per sottrarla al brutale rito dell’infibulazione. In una saletta dell’aereoporto di Palermo, con in braccio la sua bimba, mostra sul telefonino tutti i messaggi di morte e di minacce che gli sono arrivati dal marito e dai familiari dopo la sua fuga. Le sue poche parole all’arrivo sono state “Grazie a tutti, grazie Italia. Avrei fatto qualsiasi cosa per ritrovare la mia bambina. E’ un miracolo.” E racconta “Sono fuggita appena ho potuto per salvare mia figlia. Dopo aver raggiunto con lei la Tunisia l’ho affidata ad una amica di mia sorella e sono tornata indietro a prendere soldi e documenti, ma quando sono tornata a Tunisi e non ho più trovato mia figlia mi è caduto il mondo addosso. Si era imbarcata per l’Italia con quella donna. Non sapevo che fine avesse fatto. Speravo che fosse viva. Allora anch’io ho cercato il primo gommone in partenza per l’Italia e sono partita. La barca si è rotta subito e io, che non so nuotare, pregavo: Dio non farmi morire! Devo andare da Oumoh! Per fortuna sono riuscita a scendere sulla spiaggia e a tornare indietro. E quando alcuni giorni dopo mi è arrivata la telefonata dall’Italia che mi diceva che mia figlia era viva non riuscivo a crederci. Per quattro mesi ho aspettato che mi rilasciassero il passaporto e parlavo via Skipe con mia figlia e la rassicuravo: “Aspettami, mamma sta venendo!” ma il documento non arrivava mai e io ero pronta a rimettermi nelle mani dei trafficanti. Ma ce l’abbiamo fatta e ora voglio solo ricominciare con lei”.

 

Samsin e i sorrisi: “il balsamo alle mie ferite”.

“Non c’è solo la guerra a rendere difficile la vita in alcune parti dell’Africa, purtroppo in alcuni casi le vecchie ruggini tra le differenti etnie diventano così forti da costringere la gente a scappare. Alcune di queste questioni non vengono raccontate dai giornali e quindi non si può capire fino in fondo il perché di un viaggio come che ho dovuto affrontare io e tanti miei fratelli”. Viene dal Ghana Samsin. Ha 26 anni ed è arrivato in Italia a maggio 2016.

Quando si racconta non mostra segni di dolore: il suo è il reportage di chi ha già dato un capitolo nuovo alla sua vita. Non ha dimenticato nulla del passato, ma Samsin ha scelto di guardare avanti. È difficile immaginare di accantonare alcuni pezzi della propria vita soprattutto quando sono particolarmente duri.

“Quello che mi ha aiutato ad andare avanti è l’accoglienza che ho trovato quando sono arrivato a Costruiamo Insieme: i sorrisi e la gentilezza con cui si rivolge lo staff è stato un balsamo per tante ferite. Credo che spesso si diano per scontate tante cose semplicemente perché sono quotidiane. Il mio viaggio, con il suo carico di sofferenza, mi ha fatto rivalutare tante semplici cose e in particolare il sorriso. Guardate non so come spiegarlo, ma dopo quei momenti in mare, in cui i volti accanto erano quasi delle maschere deformate dalla paura, ritrovare un sorriso è come una rinascita. Non so se può sembrare esagerato, ma qui a Costruiamo Insieme io sono un po’ rinato”.

Quando ha lasciato il suo paese, Samsin ha raggiunto il Niger: lavorava come aiutante muratore, ma nonostante la fatica è stato pagato solo poche volte. Ha provato a ricominciare raggiungendo la Libia, ma i rischi per chi come lui arriva da altri paesi erano troppo alti. Un giorno è stato costretto a partire ancora: “non mi è piaciuto il viaggio, ma non solo per le condizioni nelle quali l’ho affrontato, ma perché quel viaggio è un taglio con tutta una vita. Lasci gli affetti, il tuo lavoro, quello che hai costruito e non sai verso cosa stai andando. Portavo con me solo la speranza e in alcuni casi non era sufficiente. Per fortuna i sorrisi mi hanno restituito forza”.

Oggi Samsin studia la lingua italiana e cerca un lavoro: “onestamente all’inizio mi andrebbe bene qualunque lavoro: tutti dobbiamo iniziare piano piano e un piccolo lavoro mi aiuterebbe anche migliorare con l’italiano. Se proprio dovessi scegliere mi piacerebbe lavorare in campagna: ho sempre amato il contatto con la natura. Non voglio sembrare uno che ripete sempre le stesse cose, ma vivere e lavorare all’aria aperta è come guardare il sorriso della natura e, come ho detto, i sorrisi sono diventati la mia salvezza e la mia forza”.

Una medaglia con due facce

“Boom – Il tuo party liceale”. Una pagina Facebook, un social network. A leggere pensi ad una iniziativa volta ad aggregare, un luogo dei giovani per i giovani, una occasione di incontro, di scambio. Luoghi dove, dentro una metropoli come Milano, gli adolescenti possano trovare il loro spazio per stare insieme, per divertirsi, per “consumare” dentro una comunità larga la loro adolescenza uscendo dalla gabbia della solitudine, dell’isolamento, dalla dipendenza diffusa dai video giochi.
Invece scopri, in un tranquillo lunedì sera, uno dei pochi in cui torni a casa presto e il divano ti sembra il luogo meno frequentato della casa, che “Boom” è ciò che non avresti mai immaginato.
In un servizio di Striscia la notizia, nota trasmissione di Canale 5, l’inviato Max Laudadio ha documentato, con telecamere nascoste, immagini raccapriccianti: ragazzi e ragazze dai 14 ai 16 anni liberi di consumare non un momento di socializzazione – ameno come la intende la mia generazione dei padri degli attuali adolescenti – ma liberi di consumare alcool e droghe come fosse una cosa normale. Senza limiti e senza freni. Tutto all’interno e all’esterno di un locale pubblico che dovrebbe sottostare a regole precise e, anzi, dovrebbe garantire il rispetto di quelle regole. E non solo di consumarle, anche di venderle le droghe: non solo fumo ed erba, ma anche micidiali droghe sintetiche, quelle che il cervello te lo sciolgono davvero. Te lo spappolano, bruciano la dimensione di persona per portarti alla stessa consistenza del nulla.
Ancora con quelle immagini che non riesci a rimuovere dalla mente e con qualche brivido che ti percorre ancora la schiena, un po’ più tardi un telegiornale lancia la notizia di un gruppo di quindici minorenni arrestati perché devastavano esercizi commerciali gestiti da immigrati al grido: “Tornate al vostro Paese!”. Nove le azioni messe a segno. Anche in questo caso le riprese delle telecamere lasciano stupiti: una lucidità da delinquente incallito, la chiarezza rispetto all’obiettivo da colpire e, soprattutto, il gruppo, il branco (perché è facile ricondurre queste pratiche ad istinti animaleschi) che l’informazione si preoccupa di definire baby gang specificando che tutti provengono da “famiglie per bene”. Strano accostamento! Perlomeno avventato!
Mercoledì sera, un giovane nigeriano è stato aggredito e accoltellato a Rimini da un trentenne al grido “Brutto negro di merda, vattene da qui!”. Neanche il padre, che era in macchina con lui è riuscito a placare la rabbia, l’insofferenza e l’odio razziale del figlio. Il trentenne è stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio aggravato dalla matrice razziale.
Negli stessi giorni, Papa Francesco lancia sui social un appello ai giovani con un video messaggio: “La Chiesa e la società hanno bisogno di voi. Con il vostro approccio, con il coraggio che avete, con i vostri sogni e ideali, cadono i muri dell’immobilismo e si aprono strade che ci portano a un mondo migliore, più giusto, meno crudele e più umano. Però, occorre riconoscere che in questi nostri tempi c’è bisogno di recuperare la necessità di riflettere sulla propria vita e proiettarla verso il futuro”.
Riflettere sulla propria vita e proiettarla verso il futuro. O, semplicemente, riflettere sul valore della vita, senza pensare a quanto ti restituisce rispetto a quanto dai.
Soprattutto, senza bruciarla!

Londra e il rischio di cadere nella trappola

Ieri pomeriggio il cuore di Londra ha vissuto il suo momento di terrore. La strategia è quella ormai collaudata: un Suv lanciato a tutta velocità sulla folla e un solo uomo alla guida: il bilancio è di quattro morti e quaranta feriti.

Il tutto si consuma a un centinaio di metri dal Parlamento inglese, forse obiettivo dell’assassino entrato in azione con uno scopo dimostrativo, eclatante più che di sostanza. Sarebbe stato folle immaginare di poter entrare nel Parlamento.

Subito circolano le prime voci, senza alcun riscontro oggettivo, che l’assassino è un Imam di una moschea londinese.

E tutto il mondo cade nella trappola del terrorismo internazionale: non esiste emittente televisiva che non sia stata impegnata decine di ore a raccontare e commentare l’accaduto. Il risultato è quello atteso dalla rete terroristica internazionale: con un solo uomo a concentrato su di se l’attenzione del mondo intero! Con un messaggio di estrema chiarezza: potete vincere in Siria, riprendervi un pezzo di terra devastata, ma la guerra ideologica è difficile da vincere anzi, le vostre politiche discriminanti e restrittive favoriscono il processo di radicalizzazione aumentando la possibilità di colpire dentro casa vostra con quell’esercito informale sparso in ogni angolo del mondo. L’attenzione mediatica su episodi di questo tipo produce il rischio dell’emulazione, facile effetto riproduttivo che trova terreno fertile nei luoghi in cui i processi di integrazione non hanno funzionato. Una riflessione la impone il fatto che un atto violento come quello di ieri si sia consumato in una metropoli a tradizione multietnica come Londra.

Ma i commentatori delle interminabili dirette sono concentrati a cercare il movente dell’attentato: sarà forse la risposta alla decisione di vietare l’uso di computer e tablet sui voli provenienti da alcuni Paesi? O, piuttosto, una risposta all’accelerazione dell’impegno militare occidentale in Siria? O, ancora…

Ai giorni nostri è ancora raro incrociare qualcuno che ponga l’attenzione sul fatto che le questioni si decidono con le guerre piuttosto che con dialogo e che forse la strada giusta è quella della convivenza nel rispetto reciproco delle diversità.

L’informazione, la comunicazione, i social media, se usati male possono diventare un arma micidiale, sono un po’ come il coltello che ieri a Londra ha colpito a morte un poliziotto: perché un coltello lo puoi usare per tagliare il pane da distribuire a chi ha fame o lo puoi usare per uccidere una persona!

E ci vuole poco perché l’indignazione, seppure giusta, si trasformi in odio verso qualcuno riproducendo dinamiche conflittuali.

Non è forse questo l’obiettivo della rete terroristica internazionale?

“Impariamo l’italiano per integrarci al meglio”

“Voglio assolutamente conoscere la lingua per integrarmi al meglio”. Rispondono in modo unanime gli ospiti di Costruiamo Insieme a cui è stata rivolta la domanda sul perché partecipare ai corsi di alfabetizzazione sulla lingua italiana. Per tutti, infatti, imparare la lingua è il primo fondamentale passo per trovare un lavoro dignitoso e, più importante per loro, poter guadagnare quel che serve per inviare un aiuto economico alle famiglie. Ma non solo. Per molti di loro conoscere la lingua è il modo per creare una base il più possibile solida in Italia: per la maggiorparte, infatti, solo in un secondo momento potrà essere valutata l’ipotesi far arrivare le persone che hanno dovuto lasciare nel proprio Paese

Anche nelle strutture tarantine di Costruiamo Insieme i numeri sono significativi: grazie alla collaborazione con la scuola media “Colombo” sono i numerosi i partecipanti. Dalla struttura “Cavallotti” i frequentanti sono stati 13, di cui 10 hanno sostenuto l’esame finale. Per loro l’impegno è quotidiano: le lezioni si svolgono infatti tutti i giorni, dal lunedi al venerdi, dalle 15 alle 17. Per quanto riguarda invece la struttura “Principe Amedeo” gli iscritti sono ben 42.

“Anche durante le lezioni che svolgiamo ogni giorno in struttura – ha aggiunto Raffaella Leno – non si può non notare la passione e la dedizione che i ragazzi dedicano all’apprendimento di una lingua difficile da assimilare, specie dal punto di vista strettamente grammaticale. Hanno fatto molti progressi e adesso alcuni di loro, quando vengono in segreteria a chiedere informazioni, lo fanno in italiano. Per noi è un segnale che ci fa ben sperare e che ci spinge a proseguire su questa strada”.

Auguri papà!

San Giuseppe, padre putativo di Gesù, viene ricordato in questo giorno come archetipo della perfetta figura paterna. Era ritenuto un uomo giusto, padre di quella che la religione cattolica definisce “la sacra famiglia”.

Quell’uomo costruiva costruzioni, era un falegname e col suo lavoro, e con un figlio così, col sudore avrebbe potuto riempire vasche intere.

Ne avrà bagnati di vestiti Giuseppe!

E ne ha fatta di strada, a piedi tirando un asinello, per portare in salvo la moglie e il figlio: migrazioni, obbligate come tante altre, con la differenza che Giuseppe portava sulle spalle un fardello pesante. Gesù e Maria non erano due statue da portare in processione!

E Gesù, certo, non è stato il bambino modello, quello che ti aspetti che sta a casa e, magari, se capita aiuta la mamma. Aveva la sua missione da compiere! E lo ha fatto.

Giuseppe e Maria lo rincorrevano, era piccolo quando è andato a parlare con i saggi del tempio. Poi, un pò più grande, ha cacciato i mercanti e ne ha combinate di cose.

Certo, essere il padre di Gesù, non sarà stato facile per Giuseppe!

Io, sicuramente, non sono Gesù, ma vi assicuro che neanche per mio padre è stato facile avermi come figlio. Non solo quando mi ha generato, anche ora!

Ma nella vita ci sono dei punti fermi dai quali non si può prescindere: il papà è uno di questi. Se il senso della genitorialità ha un senso!

Io festeggio mio padre non perché mi ha messo al mondo, ma per quello che mi dà ogni giorno, per i valori che mi ha trasmesso, per le cose che mi ha insegnato.

Se penso a cosa ho dato in cambio io di buono, non mi viene in mente niente!

Anche se non saprei immaginare la mia vita senza papà.

Auguri papà!

Auguri a tutti i papà che hanno figli come me che non sono capaci di esprimere il sentimento profondo che portano dentro, non lo sanno esprimere, ma che c’è.

Auguri a tutti i papà che sono nonni, perché senza di loro ci vorrebbe uno stato sociale diverso.

Auguri ai papà, che in ogni circostanza non dimenticano di avere dei figli.

Auguri a me, tanto so che i miei figli non me li faranno.

“Se non godi il presente, non puoi pensare al futuro”

Kemo ha 28 anni e viene dal Gambia. È arrivato in Italia il 12 giugno 2015, fuggito da un Paese dove i giovani era rapiti dai ribelli che li obbligavano ad arruolarsi, imbracciare i fucili e aprire il fuoco contro i loro fratelli. “Il mio piccolo villaggio – racconta Kemo a voce bassa – è al confine con il Senegal. Vivevamo ogni momento della giornata con il terrore che qualcuno venisse a prenderci. Ti arruolano con la forza, contro la tua volontà. Non so come spiegarvelo: si viveva senza la possibilità di costruire. Non riesci a pensare al futuro quando non puoi goderti nemmeno un minuto del tuo presente”. Viveva in un bel villaggio: prima degli scontri che hanno insanguinato il Gambia lavorava in una fattoria circondato dalla campagna. Ma poi la paura divenne compagna di tutti i giorni. E di tutte le notti.

“Vennero a prendermi a mezzanotte. Mi bloccarono e mi caricarono su un’auto. Non sapevo dove mi stavano portando: pensavo solo a come fuggire. La prima cosa che mi venne in mente fu quella di lanciarmi fuori. E così feci”. Le sue mani tremano mentre racconta. “Mi lanciai dall’auto e cadendo mi ruppi una gamba. Mi allontanai aiutandomi con le mani”. Il dolore non ferma il desiderio di libertà e la voglia di vivere. “A salvarmi fu un uomo che passava da quelle parti. Mi aiutò a salire sulla sua bici e mi portò a casa sua”. Il viaggio di Kemo iniziò quella notte. Dopo quel rapimento e la libertà conquistata con le mani. E grazie alla bontà di un uomo che dopo averlo ospitato lo aiutò a fuggire. Prima in Senegal e da lì verso la Libia. “Ho lavorato per due mesi come pittore, ma sono stato pagato pochissime volte. Eppure non era quello che mi ha spinto ad andare via: la Libia non è un posto sicuro, sentivo lo stesso pericolo che avvertivo ogni giorno nel mio villaggio. E così decisi di partire. Me la ricordo ancora quella barca di plastica su cui eravamo ammassati in tanti”.

È arrivato in Sicilia e dopo quattro giorni è partito per Modugno. Qui la sua vita ha trovato finalmente un po’ di tranquillità: “A Costruiamo Insieme ho trovato finalmente la serenità per studiare: qui ho incontrato operatori che mi hanno fatto capire l’importanza della cultura e quindi ho scelto di impegnarmi in questa strada. Non è facile per chi arriva da un altro posto e quindi, grazie al loro sostegno, ho capito che devo innanzitutto imparare la lingua: le lezioni di italiano poi sono anche divertenti”. Kemo accenna finalmente un sorriso, quasi esorcizzando ricordi tremendi. “Sto studiando italiano e lo imparerò bene. Nel frattempo sto cercando anche un piccolo lavoretto perché so che posso fare bene in questo Paese. Guardo i ragazzi che lavorano qui e penso che vorrei diventare come loro”.