«Vogliamo chiarezza»

Attori contro Netflix, non fornirebbe informazioni sui compensi maturati

«Compensi totalmente inadeguati rispetto ai film e alle fiction che trasmette», dicono gli artisti. «C’è difficoltà nel misurare l’effettiva rappresentatività delle diverse società che fanno gli interessi degli assistiti e individuare il repertorio che tutelano»

 

Pensavamo che fra Netflix e il cinema realizzato per la tv fosse amore, invece era un calesse. O comunque una zona grigia che in molti, adesso, vogliono schiarire. Tanto che molti attori che vogliono finalmente vederci chiaro minacciano di far saltare il banco.

«Netfilx è la nuova frontiera, le sale cinematografiche sembrano superate: ci sono gli incassi, ma le produzuoni hanno costi sempre più alti: dunque, Netflix e piattaforme simili rappresentano per mlti che fanno questo lavoro il futuro». Carlo Verdone, in una intervista di qualche mese fa. Poi parte la sua produzione, “Vita da Carlo”, una fiction tra realtà e fantasia. Fa numeri importanti e resta in attesa. Riprende, intanto, la nuova stagione. Ma Verdone è uno degli artisti e registi che garantiscono ascolti. E allora? Può lavorare solo l’artista romano?

«Ormai la maggior parte di noi, sta conun piede qua e uno là, cioè fa il cinema, arriva nelle sale, sempre meno a favore anche delle multisala se vuoi, ma poi quando fai produzione con Netflix e firmi contratti legati agli ascolti, dunque a gratifiche in seguito al gradimento del pubblico? Ti fanno ok con il pollice, cioè che tutto va bene, ma tacciono sugli ascolti». Pietro Sermonti, scherzando in un salotto fra youtube e podcast, “Tintoria”, oltre mezzo milione di contatti.

 

 

DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

Due facce della stessa medaglia, perché anche Verdone vorrà vederci chiaro nel contratto che lo lega alla nuova piattaforma che fa abbonamenti e ascolti, ma che non si pronuncia sul gradimento del pubblico. La storia è semplice: tempi complicati, non circolano molti soldi come un tempo e, allora, proviamo con Netflix. Contratto basico, legato però agli ascolti. Più gente vede un programma, un telefilm, una produzione – vendibile anche all’estero, perché no – e più guadagnano tutti. E qui nasce il malinteso. Perché attori, registi, maestranze accettano, scommettono sui progetti, ma quando c’è da tracciare una linea e fare due conti, nessuno di Netflix si pronuncia. C’è la consegna del silenzio. Ma passa il tempo, qualcuno chiede spiegazioni, gli rispondono che lui e i colleghi le spiegazioni (e i conteggi) le avranno e, nel frattempo, passano tre, quattro, cinque mesi, anche sei. E, adesso, basta.

Dopo mesi di richieste e trattative per compensi «equi e proporzionati», registra Fanpage.it, gli attori italiani hanno deciso di passare alle maniere forti e di fare causa nei confronti di Netflix depositando la denuncia al Tribunale di Roma. Solo alcuni dei nomi della squadra di attori decisi a farsi rispettare, perché il tempo dell’attesa è finito: Neri Marcoré, Alberto Molinari, Carmen Giardina Elio Germano, Michele Riondino e Claudio Santamaria, attaccano il colosso della televisione in streaming. Protestano. «Compensi totalmente inadeguati rispetto ai film e alle fiction che trasmette». Artisti 7607, l’agenzia che cura gli interessi degli attori e registi appena menzionati e tanti altri ancora, pensa che Netflix perda tempo, «butti la palla in tribuna» come si dice nel calcio. Al centro della discussione la scarsa trasparenza da parte della società sulle informazioni riguardo a quante persone seguano un film, una serie o una fiction, tanto in Italia quanto all’estero. E, dunque, quali sarebbero le cifre che guadagna su ciascuno dei progetti condivisi con attori e registi.

 

 

«PERCEPIAMO CIFRE RIDICOLE»

«Una mancanza di informazioni che permetterebbe a di versare ad attrici e attori cifre del tutto risibili», spiega Artisti 7607 e Fanpage.it riprende. Cinzia Mascoli, presidente dell’agenzia entra nel dettaglio. «La causa – dice – è l’inevitabile conseguenza di lunghe trattative nel corso delle quali la piattaforma non ha ottemperato agli obblighi di legge; non ha fornito dati completi sulle visualizzazioni; e i ricavi conseguiti in diverse annualità. Parliamo di opere di grande successo, casi in cui gli artisti si vedono corrispondere cifre insignificanti e totalmente slegate dai reali ricavi.

Già il fatto di disattendere richieste e chiudersi in una sterile difesa è motivo di tensione. «Per questo motivo – riprende la Mascoli – attendiamo sostegno e vigilanza da parte delle istituzioni per tutelare i nostri diritti: e norme oggi ci sono e bisogna farle rispettare».

Invitata a dare spiegazioni sulla vicenda, Netflix conferma «Gli accordi ufficiali firmati con diverse società che rappresentano gli attori: accordi che hanno preso forma sia in Italia che all’estero. Un’intesa è stata raggiunta con il Nuovo Imaie, che pure rappresenta tanti artisti, addirittura il 75-80% degli attori. L’Italia attualmente ha tre società che rappresentano attori e creativi. Circostanza secondo la piattaforma che non avrebbe favorito il dialogo, anche per la difficoltà di misurare l’effettiva rappresentatività delle diverse società e di individuare il repertorio che tutelano». Ecco, come dicevano alcuni attori, «palla in tribuna». E la prossima settimana si ricomincia. Anzi, non si è mai smesso.

«Viaggiare in aereo? Magari…»

L’Europa non autorizza i voli a chi non è in possesso del visto

Barconi, scelta obbligata. «C’è chi muore perché non sa nuotare, scappa dalla fame e dalle persecuzioni».  «I nostri passaporti servono solo per viaggiare in Africa e nemmeno in tutti i Paesi…». «Ho visto morire una bambina di due anni, risucchiata dal mare, davanti ai miei occhi e quelli della madre…»

 

«Venire in aereo in Italia ci costerebbe molto meno, ma c’è un motivo perché non lo facciamo: non possiamo farlo, ecco perché: avere il visto con il quale salire su un aereo è impossibile, così ci tocca viaggiare sui barconi, rischiare la vita, e pagare duemila euro».

Nei giorni scorsi il Corriere della sera ha posto l’accento su storie a lieto fine di extracomunitari che sono arrivati nel nostro Paese. Ragazzi che si sono industriati, messi sul mercato per fare lavori umili, assunzioni a spizzichi e bocconi, comunque attività che permettono di poter dividere le spese di un appartamento e poter mandare soldi a casa. In particolare hanno polarizzato la nostra attenzione due storie, quella di un senegalese e di un ghanese. Ragazzi, come molti dei quali sono passati dalla nostra cooperativa e che ci hanno raccontato storie terrificanti.

Anche due extracomunitari intervistati da Jacopo Storni, autore di un servizio molto interessante pubblicato dal Corriere della sera, hanno attraversato il Mediterraneo su un barcone. Esperienze con tanto di sciagure annesse, come vedere connazionali inghiottiti dal mare o, comunque, emigranti come loro che non hanno avuto la stessa sorte. Picchiati, ricattati, ammazzati.

 

 

CORSERA, IL RACCONTO

Uno di loro racconta di aver lasciato il Senegal perché nel suo Paese stava male, come la maggior parte dei suoi connazionali. Miseria, futuro incerto, genitori con salute cagionevole, male assistiti e, soprattutto assenza di lavoro, dunque nessuna risorsa economica. Il primo dei due aveva pensato anche di prendere l’aereo. Facile a dirsi, impossibile da mettere in pratica. Salire su un aereo e venire in Europa. «Sarebbe costato meno, poche centinaia di euro, di sicuro non i duemila euro come per il grande viaggio, quello al quale si sono sottoposti a milioni in questi anni: prima via terra e poi sul barcone. «Non ho nemmeno provato a bussare a una delle ambasciate europee – ha spiegato – per ottenere un visto, magari soltanto turistico, perché già sapevo, come tutti del resto, che le ambasciate europee, quei visti li negano a prescindere».

Viaggiare è impossibile – ricorda il Corsera – se non sei nato nel Paese giusto. Il Senegal, in questo senso, non è certo un Paese giusto. L’Italia invece sì. Esistono passaporti di serie A e passaporti di serie B, come riporta capillarmente la classifica di Passport Index. Con il passaporto italiano si possono visitare 174 Paesi. Con il passaporto senegalese soltanto 66, con il passaporto somalo 44 Paesi. Se sei nato in Africa, non si scappa, puoi viaggiare solo in Africa. Con il passaporto siriano e afghano si possono visitare 38 Paesi. Sono in molti, in Siria e Afghanistan a voler scappare dalla guerra e dai talebani ma non possono farlo. Possono arrivare in Europa solo per vie illegali e poi, una volta qui, chiedere un visto umanitario. Ma, attenzione, prima devono rischiare la vita superando frontiere, muri, mari e spendere migliaia di euro. E’ così si moltiplicano i trafficanti di uomini. Per dare un filo di speranza alla disperazione di questi ragazzi, si fanno dare soldi, tanti soldi, promettendo viaggi sicuri e nei quali, invece, come abbiamo visto di recente, si rischia la vita. E’ quanto accaduto ai migranti naufragati a Cutro, al largo di Crotone.

 

«ERAVAMO 120, SALVI IN 60!»

«Il barcone sul quale sono arrivato si è rotto: eravamo in centoventi, se ne sono salvati solo la metà. Una bambina di due anni è morta affogata di fronte alla mamma, ho visto la scena con i miei occhi. Un mio connazionale inghiottito dal mare: prima di morire mi aveva lasciato il numero di telefono di sua mamma e quello di suo babbo, per avvertirli nel caso fosse morto».

Storie che conosciamo, che abbiamo raccontato tante di quelle volte e che non sempre hanno intercettato la sensibilità dei politici. La tragedia sulle Coste calabresi, costata la vita a decine e decine di poveri ragazzi, donne e bambini, forse – e sottolineiamo forse con il dolore nel cuore – potrà avere insegnato qualcosa a quella gente che liquida vicende come questa e tante altre come una sciagura prevedibile. Provate a pensare anche per pochi istanti di stare dall’altra parte del Mediterraneo, in Africa: sotto le bombe, vittime di persecuzioni religiose o politiche, sottoposti a torture, alla mancanza di cibo e lavoro. Poi ne riparliamo.

E non per pochi istanti, ma per giorni e giorni, come quei giorni che in molti trascorrono fra onde del mare alte dieci piani, senza saper nuotare e, dunque, a stringersi all’imbarcazione per paura che sia arrivato il loro momento. E’ triste, vero? Diciamo, invece, che è una sciagura, una grave sciagura in una società nella quale si parla di libertà e di rispetto, mentre più di qualcuno ignora appelli e si gira dall’altra parte.

«Prendo i francesi per la gola, io…»

Martino Ruggieri, grande chef, da Martina a Parigi

Premiato dalla Guida Michelin francese. Il suo ristorante in pochi mesi è diventato uno dei più “prenotati”. Pochi tavoli, venticinque coperti, non di più. «La gente deve sentirsi come a casa, seguita e rispettata», dice il cuoco stellato

La Guida Michelin francese si tinge di tricolore. A portare in alto il buon nome del nostro Paese, uno chef pugliese: Martino Ruggieri. Ci inorgoglisce ancora di più sapere che Martino è di Martina Franca, ha una solida esperienza fra i fornelli di mezza Europa e qualche anno fa decide di aprire un ristorante in Francia. Non in una delle tante belle città d’Oltralpe, ma “la città”, la Ville Lumiere: Parigi.

Così un interessante reportage di Repubblica dà notizia del successo di un altro cuoco italiano che è riuscito a prendere i francesi per la gola. Fra i cuochi italiani più conosciuti in Francia, è notizia di questi giorni, Martino ha conquistato la stella Michelin solo dopo appena cinque mesi dall’apertura di “Maison Ruggeri”, il suo nuovo ristorante.

Si tratta di un traguardo importante per Martino, cresciuto nelle cucine di Yoel Robuchon e Yannick Alléno e diventato negli anni, l’executive chef del trestelle “PavYllon”. Dopo aver vinto al “Bocuse d’Or” (2017) ed essere entrato successivamente nella finale mondiale (2018), Ruggieri aveva condotto l’Italia per la terza volta nella storia del prestigioso premio d’alta cucina.

Fonte profilo facebook Martino Ruggieri

IL PRIMO SUCCESSO…

Un’edizione, quella, governata dai paesi nordici, anche se la carriera del cuoco martinese da quel momento stava prendendo la strada del successo, tanto da raggiungere in questi giorni  al primo “macaron”, stavolta conquistato con un suo locale.

Il ristorante di Martino, chiuso in ogni fine-settimana, è al n. 11 di Rue Treilhard. Pochi tavoli, coperti che si possono contare al massimo sulle dita di una mano. Non proprio, si parla di venticinque, non di più con una saletta riservata. Secondo Ruggieri, la cucina deve avvicinarsi il più possibile a quella di casa. Prenotare è semplice, spiega una sua pubblicità, molto sobria: tramite il sito. Una volta preso nota della prenotazione, ecco una telefonata per stabilire i dettagli. Anche quale tavolo. La cucina di Martino prende spunto dalle origini pugliesi, ma nel tempo ha allargato la sua conoscenza e i suoi segreti alla cucina italiana e non solo. Insomma, è il caso di dire che Martino sa come prendere i suoi clienti per la gola.

 

…NON SI SCORDA MAI

Ruggieri, classe 1986, si è diplomato all’Istituto Alberghiero di Castellana Grotte. Ha cominciato a cucinare seguendo l’esempio di suo fratello, una passione grazie alla quale Martino ha cominciato a girare il mondo. Ha collaborato con Heinze Beck a Roma, per poi trasferirsi a Pescara, perfino in Australia e dal 2014 a Parigi.

Nel 2018 e 2019, si diceva, ha rappresentato l’Italia alla importante competizione del “Bocuse d’or”, arrivando quindicesimo. «Una sfida – confessò lo chef pugliese – perché me lo aveva chiesto il mio chef, Yannick Allèno. Il “Bocuse d’Or” è una lezione di vita; ti consente di prendere le misure della tua personalità e del tuo carattere. Prepararsi per al “Bocuse” significa mettere da parte la propria vita, personale e professionale, per due anni. Bisogna concentrarsi, lavorare sodo per rendere meccanici dei movimenti che devono tendere alla perfezione per minimizzare gli errori; si impara a lavorare in squadra perché ogni gesto, ogni movimento deve essere calibrato in un equilibrio perfetto». Pillola di saggezza a parte, Martino da allora è cresciuto tanto da diventare un gigante nel suo campo. 

Mattarella premia Andrea Occhinegro

Il professionista tarantino sarà insignito dal Presidente con un’alta onorificenza

Per essersi distinto fra quanti si sono spesi per un’imprenditoria etica. Per l’impegno a favore dei detenuti, per la solidarietà, per il volontariato, per attività in favore dell’inclusione sociale, della legalità, del diritto alla salute e per atti di eroismo. Cerimonia al Quirinale venerdì 24 marzo

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha conferito, motu proprio, trenta onorificenze al Merito della Repubblica Italiana a cittadine e cittadini che si sono distinti per un’imprenditoria etica, per l’impegno a favore dei detenuti, per la solidarietà, per il volontariato, per attività in favore dell’inclusione sociale, della legalità, del diritto alla salute e per atti di eroismo. Tra questi, anche un tarantino, Andrea Occhinegro.

Se questo non è motivo d’orgoglio per una città, ma anche per il resto della Puglia. Talvolta, quando gli italiani si arrabbiano per mille motivi -magari la metà bastano e avanzano – nel tritatore ci mettono tutti, nessuno escluso. Basta che questo, questi, facciano parte delle istituzioni, ecco che vanno ad arricchire il numero dei nomi cordialmente mandati al diavolo.

La verità è che sulle cose occorre ragionarci, per questo – per esempio, ma è solo un esempio – non ce la siamo mai presi (ma mai, mai, mai) con il Capo dello stato. In questo caso, Sergio Mattarella. Che, intanto, nei giorni scorsi, un po’ richiamando il Governo, un po’ come è giusto che sia – l’ultima parola spetta sempre al Presidente della Repubblica – ha fatto di testa sua: ha convocato i suoi più stretti collaboratori, ha messo in moto l’intero apparato della sicurezza e si è recato a Crotone per rendere omaggio alle vittime del naufragio avvenuto ad un centinaio di metri dalla Costa calabrese (e non “a largo”).

332094683_591935972840079_6896846207351129931_n copiaMATTARELLA, MOTU PROPRIO

Dunque, oltre a questa decisione condivisa da chiunque, tranne i pochi ostinati che sostengono chi, invece, ha assunto e condiviso decisioni scellerate, di decisioni ne ha prese altre. Fra le ultime, una in particolare: ha individuato, tanto per dirne una che ci interessa più da vicino – fra i tanti esempi presenti nella società civile e nelle istituzioni – alcuni casi significativi di impegno civile, di dedizione al bene comune e di testimonianza dei valori repubblicani.  Una cerimonia che si svolgerà presso il Palazzo del Quirinale il 24 marzo 2023 alle ore 11.30.

Dicevamo di Andrea Occhinegro, tarantino. Bene, Occhinegro, per chi non lo conoscesse o avesse letto le sue note, ha cinquantadue anni e, in questi giorni, in attesa della formalizzazione con la consegna delle onorificenze da parte del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è stato insignito “Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”. La motivazione: “Per il suo contributo nell’organizzazione di iniziative di solidarietà per ridurre il disagio sociale grazie a una rete capillare e al coinvolgimento di figure professionali”. Medico oftalmologo, è il Presidente di ABFO (Associazione benefica “Fulvio Occhinegro”), organizzazione di volontariato costituita nel 2005 a Taranto.

Nata in seguito ad un lutto familiare, l’associazione persegue un nuovo modello organizzativo dove partecipazione e solidarietà rappresentano una prima risposta al disagio sociale e individuale dei più deboli. “Una vera e propria “casa” capace di esprimere il senso di accoglienza e supporto, ma anche dialogo, coinvolgimento ed educazione ai valori”. Il Centro ABFO è composto da due aree, una aperta tutto il giorno, dedicata a persone senza fissa dimora, e un’altra dove la mattina e il pomeriggio sono coordinati e organizzati gli aiuti per le famiglie bisognose della città in collaborazione con i Servizi sociali del comune.

La nostra cooperativa, in tempi non troppo lontani, aveva già ospitato e intervistato nei suoi studi, numerosi cittadini impegnati nel sociale. Fra questi, appunto, il dott. Andrea Occhinegro.

 

Di seguito, i link:

http://www.costruiamoinsieme.eu/stiamo-con-i-deboli/

https://youtu.be/6D7xLLiJe

 

PAROLA DI SINDACO…

Ai sensi di gratitudine di una intera città, si sono uniti quelli del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci:

«Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – ha scritto il primo cittadino – ha conferito trenta Onorificenze al Merito della Repubblica Italiana a cittadine e cittadini che si sono distinti per un’imprenditoria etica, per l’impegno a favore dei detenuti, per la solidarietà, per il volontariato, per attività in favore dell’inclusione sociale, della legalità, del diritto alla salute e per atti di eroismo.

Tra loro c’è il dottor Andrea Occhinegro, uno degli angeli custodi della nostra comunità. Tutti noi conosciamo il valore del grande lavoro del dottor Occhinegro e della sua famiglia che con l’ABFO, in collaborazione con i Servizi Sociali del Comune, garantisce ai cittadini più fragili.

Il dottoro Occhinegro ha ricevuto il riconoscimento presidenziale con la seguente motivazione: «Per il suo contributo nell’organizzazione di iniziative di solidarietà per ridurre il disagio sociale grazie a una rete capillare e al coinvolgimento di figure professionali».

Il dottor Occhinegro è il presidente di Abfo (Associazione benefica “Fulvio Occhinegro”), organizzazione di volontariato costituita nel 2005 a Taranto. Nata in seguito a un lutto familiare, l’associazione persegue un nuovo modello organizzativo dove partecipazione e solidarietà rappresentano una prima risposta al disagio sociale e individuale dei più deboli. Una vera e propria “casa” capace di esprimere il senso di accoglienza e supporto, ma anche dialogo, coinvolgimento ed educazione ai valori.

Orgogliosi di te, caro Andrea.

Rinaldo Melucci

Sindaco e presidente della Provincia di Taranto».

Puglia, c’è il cotone biologico

Pietro e Michele, imprenditori garganici, introducono la rivoluzione nella camiceria

L’idea inizialmente sembrava fuori dagli schemi. Grazie alla loro esperienza sfidano il mercato e colgono nel segno. Un incontro, duecentocinquanta operatori e “bingo!”: la Puglia e il Tavoliere diventano un esempio per l’alta moda italiana

cotone_organico-1170x650Che la Puglia fosse terra dalle mille risorse era un fatto risaputo. A molti sicuramente, tranne a chi vorrebbe staccare il Nord dal Sud, pensando di fare un affare, dimenticando che la ricchezza – prima che l’Italia diventasse una sola – abitava da queste parti prima che l’Italia diventasse una sola. Premessa tirata un po’ per la giacchetta, non diciamo di no, ma è bene non passare solo per essere geniali o, alla fine, solo una riserva di idee e neuroni al servizio dei più scaltri.

Ultimo primato tirato fuori dal cilindro e che spetta alla Puglia è la filiera del cotone biologico, un altro “Made in Italy” nato proprio nella nostra regione. Questa prima filiera di cotone biologico italiano, come riportava nei giorni scorsi “Repubblica”, parte da San Marco in Lamis (Foggia) e precisamente dal Gruppo Albini.

Partire da una cittadina del Sud Italia, presenta sempre qualche problema in più rispetto ad altre realtà. Ma quando il gioco si fa duro, si dice, i duri entrano in gioco. Non si lasciano impressionare dal gap Sud-Nord. A vantaggio del genio e del coraggio dei due protagonisti della storia, Pietro Gentile e Michele Steduto, giocano le idee e il desiderio di ribaltare certi aspetti ormai logori nei confronti del Meridione.

cotone_biologicoMICHELE E PIETRO, CORAGGIO!

Dunque, Pietro e Michele, nonostante la loro voglia di provarci si presenta come un’utopia, cominciano con il ribaltare ogni schema e, finalmente, conquistare il panorama nazionale e internazionale con una produzione biologica e tutta “Made in Italy”. Quel sogno nel cassetto che può diventare realtà.

Pietro e Michele cono due imprenditori illuminati. Provenienti da mondi diversi da quello agricolo e tessile, nel giro di qualche fortunata stagione a San Marco in Lamis hanno messo su un’intera filiera partendo insieme alla conquista della moda italiana.

Tutto nasce quattro anni fa. I due amici e imprenditori, provenienti da realtà lavorative diverse decidono di entrare nel mondo dell’abbigliamento e di produrre camicie di alta sartoria. Detta così può suonare come una bestemmia. Del resto, si tratta di un’attività assolutamente pionieristica che prenderebbe le mosse dal promontorio garganico. I due imprenditori, però, non sono sprovveduti. Sanno il fatto loro: grazie all’esperienza e alla tecnologia, cominciano a creare camicie di alta sartoria, con numerosi passaggi a mano e con tessuti pregiati. Un prodotto riuscito. Bigo, direbbe qualcuno.

CHI SI FERMA…

Invece, Pietro e Michele non hanno alcuna intenzione di sedersi sugli allori, seppure arrivano i primi successi e il gradimento delle loro produzioni. Durante la pandemia decidono di produrre per conto proprio le materie prime. Intanto, quel cotone che in Italia nessuno coltiva, ma che all’estero rappresenta una buona fonte di reddito. I due cominciano con il procurarsi i semi e avviano così una coltivazione sperimentale su tre ettari di terreno tra San Marco in Lamis e San Severo. Quanto scaturisce da questa loro idea si concretizza nel giro di una stagione: il prodotto finale è di buona qualità, le camicie GEST, questo il nome dell’azienda di Gentile e Steduto, iniziano ad attirare l’attenzione del mercato. Insomma, una linea che piace a chi vuol piacere. Adesso si può dire “Bingo!”.

Nel settembre 2020 i due imprenditori registrano la svolta. I due soci decidono di organizzare un convegno a San Giovanni Rotondo dove invitano un certo numero di aziende tessili italiane. In duecentocinquanta, molti provenienti proprio dal Nord, accolgono il loro invito. I due imprenditori pugliesi hanno subito l’impressione di aver colto nel segno. Da quel momento ha inizio un producente dialogo con produttori, tessitori e impianti di tintoria. L’anno successivo la seconda produzione è entusiasmante grazie ad un prodotto totalmente biologico.

cotone-organico2022, LA SCALATA

Nel 2022 gli ettari di coltivazione aumentano e diventano cinquanta, sempre tra Gargano e alto Tavoliere. Il clima della Capitanata si rivela ideale e la fibra raccolta è ottima. È la svolta della svolta. Alla blue seed vengono affiancate varietà greche e turche, che in provincia di Foggia trovano un ambiente ideale.

Pietro e Michele sono in questi giorni prendono parte a Milano Unica, la fiera di riferimento dei tessuti e degli accessori di alta gamma per l’abbigliamento donna e uomo, per presentare la fantastica avventura dell’unico prodotto realizzato interamente con cotone italiano.

«È un’idea innovativa ma soprattutto educativa per i nostri giovani – dicono i due imprenditori pugliesi – poiché la possibilità di rimanere in provincia di Foggia senza fuggire per cercare lavoro è concreta. Certo, da una terra in cui si investe sempre meno, in cui l’industria non esiste quasi, è più facile fuggire. Noi invece ci crediamo e siamo certi che con la volontà e qualche piccolo investimento, tutto si possa fare. Il resto viene da sé».

QUANDO NAPOLI DIVENTO’…TARANTO

“Io speriamo che me la cavo”, girato trentuno anni fa in città

Protagonista Paolo Villaggio diretto da Lina Wertmuller. I vicoli della Città vecchia come quelli del capoluogo partenopeo. I bambini diventati adulti, qualcuno diventato attore professionista, qualche altro imprenditore. I ricordi di Adriano Pantaleo nel docufilm “Noi ce la siamo cavata” diretto da Giuseppe Marco Albano

spriamo-che-me-la-cavoUn pomeriggio con Paolo Villaggio, nella hall dell’Hotel Plaza di Taranto. Dalle cinque, ora del thè, alle otto di sera. Una lunga intervista, come fossimo vecchi amici, in realtà non era così. Parlammo di tutto, di Totò e Sordi, del cinema di Kurosawa e di Fantozzi. Non la finivamo più. Ma questa è davvero un’altra storia. Poi, alle otto, un responsabile della produzione chiamò un taxi e imbarcò Villaggio invitato a cena in un ristorante della Città vecchia.

Nell’Isola stavano facendo le riprese di “Io speriamo che me la cavo”. Il film era “Io speriamo che me la cavo”, ispirato al best-seller del maestro Marcello D’Orta, diretto da Lina Wertmuller. I vicoli tarantini sostituivano quelli napoletani. Nella hall c’era tutta la classe nella quale “insegnava” Villaggio. Bambini vispi, che mostravano di saperla lunga. Disinvolti, alcuni si stringevano a mamma e papà. La produzione, tassativa, assicurava ai piccoli la presenza di almeno un genitore. Parlavano ch’era una bellezza. Qualcuno di questi si è fatto strada, è diventato un volto popolare; altri hanno desistito dalla carriera cinematografica o televisiva e, dopo quella esperienza, hanno scelto di inseguire altri sogni, di fare altro.

Fra i più vivaci, un ragazzetto, dentini in disordine, orecchie a sventola, ma già sveglio: Adriano Pantaleo, che farà strada al cinema e in tv. Proprio in questi giorni, Fanpage, servizio a cura di Gennaro Marco Duello ha incontrato il popolare “Vincenzino” cinematografico per chiedergli se fosse al corrente su cosa facessero oggi quei suoi “compagni di classe” di allora. In realtà Pantaleo ha fatto di più. Nel tempo, quando è stato possibile, ha mantenuto rapporti con qualcuno di loro, tanto da aver curato un documentario dal titolo “Noi ce la siamo cavata” diretto da Giuseppe Marco Albano.

Io_speriamo_che_me_la_cavo_Pura_poesia_cinematografica_Ritorno_a_scuola«COSA FACCIAMO OGGI…»

«Che fine avessimo fatto? È una domanda che mi ha accompagnato praticamente in tutti questi anni – spiega – tutte le volte che mi riconoscevano: mi chiedevano che fine avessero fatto quei miei compagni di classe. Un giorno la stessa domanda me l’ha posta Albano, il regista del docufilm. Abbiamo annodato insieme, dove è stato possibile, i fili di alcune di quelle storie personali, ma anche di una città, di un paese, di una società cambiata nel tempo. Ci sono voluti quattro anni per realizzare un lavoro soddisfacente».

Fra le storie che Adriano racconta a Fanpage, quella di Mario Bianco, «l’ex bambino cicciottello della classe, Nicola: tutti si ricordano di lui per essere il bambino della “prima brioche”, della “seconda brioche”, tanto che da grande ha aperto cornetterie, esportando a Torino un cornetto notturno e la cucina napoletana aprendo un ristorante».

Altro ex giovanotto vispo, tanto da aver proseguito come Adriano l’attività di attore, Ciro Esposito. «Un grande amico che ho incontrato più volte artisticamente: altra storia, quella di Dario Esposito con cui sono diventato parente. Mia madre e sua madre erano diventate molto amiche negli anni di “Io speriamo che me la cavo”, tanto che lui ha finito per innamorarsi di mia cugina Alessia, che poi ha sposato: vivono a Piacenza, lui è militare, lei un’ostetrica, hanno due figli fantastici».

Io_speriamo_che_me_la_cavo_2019_film«COME, NON E’ “FANTOZZI”?»

Nel docu ci sono tratti coraggiosi, la storia di tre “compagni” che hanno scelto altre strade, tanto da aver conosciuto il carcere. Ma le storie, racconta Adriano, sono state documentate con molto tatto. Poi torna il sorriso, quando gli chiedono di Paolo Villaggio.

«Eravamo quasi scioccati. Noi bambini tra i sette e i dieci anni, vedevamo “Fantozzi” in tv, il nostro personaggio preferito: insomma, pensavamo di incontrare una persona che ci avrebbe parlato come il suo grande personaggio, invece ci siamo trovati al cospetto di un grande attore, un grande uomo che ci ha spiegato la differenza che passa una cinepresa accesa e una spenta. Quando è spenta, si spegne un po’ di quella magia. Venni a sapere che era stato proprio Villaggio a chiedere al produttore Ciro Ippolito, di interpretare il ruolo del maestro elementare che per errore invece di andare a Corsano, in Liguria, viene spedito a Corzano, praticamente Napoli. Grande concentrazione sul set, poi a cinepresa spenta, se avevamo fatto i bravi ci premiava interpretando “Fantozzi” solo per noi».

Infine la regista di “Io speriamo che me la cavo”. «Lina Wertmuller è tra le persone che porto nel cuore. L’ho incontrata spesso negli anni; per me è sempre stata un punto di riferimento, tanto che è stata fra le prime a sapere che sarei diventato papà: “Vedrai, ti cambierà la vita ma soprattutto ti cambierà il modo di vedere e intendere il tuo lavoro” mi disse: aveva ragione».

«SONO AFROTARANTINO»

La storia di Ibrahima, da fuggitivo a chef

«Sono gambiano, avevo una laurea che ho dovuto riporre in un cassetto. Ho studiato nell’Istituto alberghiero, mi sono diplomato. La gente della “mia” città mi ha subito voluto bene. Ho cominciato a lavare i piatti e pelare le patate, poi Massimo Bottura…»

immigrati-1200-690x362Trentaré anni, gambiano, si sente molto italiano, anzi “afrotarantino”, come giustifica lui questo legame con la Città dei Due mari. Oggi – come ha avuto modo di raccontare in questi giorni a Repubblica, nei mesi scorsi alla Gazzetta del mezzogiorno – è un affermatissimo chef, conteso da ristoranti importanti e dalle tv: il suo colore è un attrattore. Pensate, la cucina italiana condita e servita da un africano, un nero. Succede. Meritatamente poi, considerando sacrifici e ostacoli che ha dovuto superare fra mille difficoltà.

Lui è Ibrahima Sawaneh, la città cui allude è, evidentemente, Taranto. Una laurea in tasca, che gli è servita poco, avendo dovuto compiere nuovi studi per conseguire, discutendo il suo titolo di studio, in un italiano da lasciarti di stucco, un diploma all’Istituto alberghiero. Insomma, Ibrahima, bravo, bene, bis.

Arrivato in Italia con una laurea, ha dovuto rimboccarsi le maniche, chinarsi daccapo sui libri e seguire le lezioni pratiche che impartivano i suoi professori. Ha dovuto gettarsi nello studio, leggere e studiare in italiano, la stessa lingua con la quale avrebbe poi svolto gli esami. Diplomato. Ma gli esami, e questo Ibrahima lo sa, non finiscono mai. Per inserirsi nel mercato del lavoro inizia come lavapiatti, per passare dal retrocucina alla cucina a pelare patate. Poi arriva l’occasione, uno stage all’Osteria francescana. E da lì, il percorso diventa discesa.

taranto_notteMI SENTO A CASA!

«Sono “afrotarantino”: mi sento africano, ovviamente, ma anche italiano, poi anche tarantino, se permettete, visto che a questa terra sono legatissimo. Ho fortemente voluto fare il lavoro che, oggi, svolgo con grande gioia: ho trasformato la mia grande passione per la cucina in lavoro: faccio il cuoco nelle cucine degli chef stellati e con lavoro e applicazione – mi dicono – sto scalando le vette della popolarità: fra i recenti riconoscimenti, l’“Eraclio d’oro”: titolo della mia composizione: “la mia tradizione africana in Puglia”».

Nonostante il successo, Ibrahima non perde occasione per raccontare e raccontarsi quanto accadutogli prima di approdare sulle coste italiane e nella sua città adottiva, Taranto. Partito dal suo Gambia, il viaggio in mare, dolore, pericolo, coraggio, speranza e amore, l’arrivo a Taranto, l’accoglienza.

Il primo compito di uno stagista, spiega il giovane chef, sono le preparazioni lunghe, fra brodi e piatti base. La sua attività parte dalle retrovie. Bravo com’era è stato promosso al servizio in cucina. Gli tocca preparare antipasti e primi piatti di una certa importanza. «Ero sulla buona strada, ma spesso non posso fare a meno a pensare che ho iniziato a cucinare molto tardi.

requisiti-cucina-ristoranteLA MIA CUCINA…

Gli inizi non sono nella Scuola alberghiera. Da piccolo, nel mio Paese, cucinado e imparando da solo le prime tecniche che col passare del tempo mi sono tornate utili».

«Mia madre non l’ho conosciuta, è morta che ero ancora piccolo: cucinavo e immaginavo di essere parte di quel gruppo familiare che non ho mai potuto vivere come avrei voluto». Poi la conoscenza con uno dei più grandi chef di statura internazionale: Massimo Bottura. I ragazzi del corso non hanno il coraggio di sottoporre all’attenzione dello chef stellato le proprie composizioni, Ibrahima sì. Bottura è esigente, chiede l’originalità, qualcosa che non ha mai assaggiato.

«Se mi dice che fa schifo – mi sono detto – vuol dire che devo ancora lavorare: allora, mi conviene provare!». Così, “Ibra” ha preparato un piatto tipico del suo paese, il Domodà. Mentre tutti erano lì ad assaggiare prima, a mangiare di gusto poi, ecco Bottura: «Chi ha cucinato? E’ veramente buono, questo sì che è un piatto originale, complimenti al cuoco!». «Per la prima volta ho iniziato a piangere di gioia, di felicità. Ho pianto pensando a mia mamma».

C’E’ VITA SU…“WOLF”?

Uno studio ha portato a risultati straordinari

La Terra avrebbe una sorta di sosia. Come la Luna questo nuovo pianeta avrebbe una zona illuminata (+13 gradi) e una buia (-23 gradi). La scoperta si deve a un gruppo di ricercatori che ha pubblicato i suoi studi sulla rivista “Astronomy & Astrophysics”. C’è un problema: dista a trentuno Anni-luce. E se un Anno-luce equivale a 9.500miliardi di chilometri…

154527726-7b28e65e-9a30-46f1-97b6-da8ab76f1240C’è vita su Marte? O, ancora, più vicino: c’è vita sulla Luna? Sembra l’ossessione dell’uomo e, in buona sostanza, degli studiosi alla costante ricerca di qualcosa che anche lontanamente somigli a una forma di vita. Anche per dare senso alle proprie ricerche e attribuire il proprio nome a una stella piuttosto che a un pianeta. Dunque, anche se non è un essere umano, oppure una Cosa – ricordate il film “La cosa da un altro mondo” del 1951? – che dia segnali di esistenza, si muova, si nutra. Insomma, un soggetto da studiare.

E’ notizia dei giorni scorsi che ci sarebbe – mai come in questo caso il condizionale è obbligatorio – qualcosa che assomigli alla Terra. Per farla breve, un sosia, come ripreso dall’agenzia Ansa e diramato a tutti i notiziari, radio, tv, siti, stampa.

Questo parente alla lontana, molto alla lontana – se pensate che un solo Anno-luce equivale a 9.500miliardi di chilometri – e definito generosamente “sosia” della Terra si chiama “Wolf 1069 b”. Dista “appena” trentuno Anni-luce di distanza dalla Terra, direzione Costellazione del Cigno. I primi risultati, non azzardati, raccontano che “Wolf” potrebbe essere abitabile. E tutto ciò, nonostante abbia una faccia costantemente illuminata ed una costantemente al buio, proprio come accade per la Luna.

Trovato-un-pianeta-simile-alla-Terra-Notizie.com-20230203WOLF, UNA “NANA ROSSA”…

“Wolf”, questo “nuovo pianeta”, in una speciale classifica riservata a corpi celesti in qualche modo “domiciliabili”, si collocherebbe al sesto posto, per lontananza dalla Terra. Anche questo, come i cinque che lo precedono, sarebbe tra quelli di massa terrestre potenzialmente abitabili.

Come si è arrivati a questo risultato comunque interessante. Merito del progetto Carmenes, attivo dal 2016, che utilizza un osservatorio spagnolo (Calar Alto) istituito proprio per cercare possibili pianeti situati nelle zone abitabili rispetto alle loro stelle di riferimento. La scoperta, come riportato dalle agenzie, si deve a un gruppo di ricercatori con a capo Diana Kossakowski dell’Istituto tedesco Max Planck per l’astronomia (Mpia) di Heidelberg, che ha pubblicato i suoi studi e quelli del suo team sulla rivista “Astronomy & Astrophysics”.

Secondo lo studio, “Wolf 1069 b”, ha “una massa appena superiore a quella terrestre ed un’orbita che dura circa 15 giorni: si trova quindi molto vicino alla sua stella, la nana rossa Wolf 1069, ma nonostante questo riceve solo il 65% circa dell’energia che la Terra ottiene dal Sole”.

wolf-1069-pianetaPIU’ FREDDA DEL NOSTRO SOLE

La “nana rossa” è molto più debole e fredda del nostro Sole: la temperatura media calcolata per il pianeta, infatti, è di circa –23 gradi, quanto suggerisce che si tratti di un corpo roccioso. Se avesse, addirittura, anche un’atmosfera – quanto è ancora allo studio – gli autori della ricerca hanno stimato che la temperatura potrebbe salire fino a +13 gradi, permettendo pertanto l’esistenza di acqua liquida in una regione nella parte evidentemente rivolta verso la stella di riferimento.

Qualche altro indizio che potrebbe far pendere a favore dell’abitabilità di “Wolf 1069 b” è la tranquillità, al momento apparente, dell’astro attorno al quale questo nuovo corpo celeste orbita. Stando sempre allo studio, le “nane rosse”, sarebbero molto attive e turbolente, attività che provocherebbe venti stellari e radiazioni così intense da rendere sterili i pianeti vicini. Ma “Wolf 1069”, a dispetto di questa presunta turbolenza, sembra invece serena. Anche se può apparire prematuro asserirlo con certezza. Ecco perché “Wolf”, parente alla lontana della Terra si candida a diventare oggetto di studio per svolgere ricerche più approfondite.

UN MURALES MOZZAFIATO

Un’opera realizzata a Taranto selezionata fra le cento più belle al mondo

Titolo: “L’amore è più forte della morte”. Realizzata dall’olandese JDL (Judith de Leeuw). E’ in bella mostra sul muro di un palazzo del quartiere Paolo VI. Ora è candidata allo Street art cities – Best street art awards 2022. Manufatti presenti in novantadue città di trenta Paesi del mondo

7196137_28093353_2aA Taranto uno dei cento murales più belli al mondo. E’ “L’amore è più forte della morte”, opera di Judith de Leeuw (JDL) realizzata per il progetto Trust su un muro laterale di un palazzo del quartiere Paolo VI. Considerata fra le migliori cento opere al mondo, ora è candidata allo Street art cities – Best street art awards 2022. Cento opere presenti in novantadue città di trenta Paesi del mondo.

La selezione è durata dodici mesi. Tanto ci è voluto perché “Street Art Cities” individuasse i cento murales più belli al mondo. Nello specifico, si chiamano “Best Street Art of 2022 Awards” e, in totale, vedono in lizza in totale ben sette opere italiane. Adesso bisogna attivarsi e sostenere l’opera realizzata nel quartiere cittadino di Taranto scaricando l’app gratuita (Street Art Cities).

“L’amore è più forte della morte” è stato realizzato all’interno del Progetto Trust. In sostanza, come scrivono i critici, tutti possono imparare qualcosa dalle persone che non sono più al mondo. In ordine di tempo, quella tarantina è la quarta parete dedicata alla mente del padre di JDL, recentemente scomparso. Artista che ha trascorso il suo ultimo anno promuovendo il messaggio più importante e stimolante al mondo: la presenza fisica che rimane intatta.

Senza titoloUNDICI ARTISTI A TARANTO

Sono stati undici, in tutto, gli artisti, provenienti da ogni parte d’Europa ad aver progettato e successivamente realizzato altrettanti graffiti realizzati sulle facciate dei palazzi dei quartieri di Taranto. Dalle periferie come al centro della città in occasione della terza edizione del progetto T.R.U.St (Taranto Regeneration Urban and Street). E’ dal 2020 che la nostra città figura sulle mappe internazionali per ciò che attiene i siti riservati all’arte pubblica.

Inoltre, da quest’anno Taranto aggiunge alla sua collezione undici nuove opere che vanno ad aggiungersi alle ventidue già presenti.

Della forza espressiva e la mission verso il racconto di temi sociali delle figure e dei volti a firma di JDL (Olanda), abbiamo detto. Queste gli altri protagonisti e le altre opere: Super A, indicato come uno dei migliori street artist al mondo, olandese anche lui, che ha disegnato un personaggio classico dei cartoni animati e della cultura pop per rivelare il suo lato più realistico e umano.

nadia_toffa_progetto_trust_taranto-1670424992530.jpg--E L’INDIMENTICATA NADIA TOFFA

C’è anche un’opera della spagnola Anna Taratiel con la sua astrazione geometrica realizzata per accendere una riflessione sull’ambiente e l’italiano Etsom con la rivisitazione del delfino, simbolo della città di Taranto. Proseguendo con l’omaggio nel quartiere Salinella a cura di Claudio Morne. Un tributo molto sentito in città, dedicato alla giornalista-conduttrice Nadia Toffa prematuramente scomparsa a causa di un male incurabile e che si era battuta fino all’ultimo per una città inquinata dall’industria.

Fra gli altri artisti: l’irlandese Aches, che ha realizzato la sua opera con le tecniche dei sub-pixel e la teoria additiva del colore; Vesod, fra gli artisti più interessanti del panorama italiano; e, ancora, le geometrie, le linee, il lavoro sul lettering e le finestre dell’italiano Joys; la delicatezza espressiva del corpo umano di IOTA, proveniente dal Belgio; l’iperrealismo dedicato ai temi del cambiamento climatico dallo spagnolo Dadospuntocero e il surrealismo, anche questo un “made in Italy”, di Alessandra Carloni. Il progetto T.R.U.St. è organizzato e coordinato dalle associazioni Rublanum e Mangrovie.

«DIECIMILA EURO AI BISOGNOSI»

Alfredo Longo, sindaco di Maruggio, rinuncia a mesi di stipendio

Con un provvedimento parte dei suoi guadagni verranno distribuiti a quanti vivono in difficoltà. «Non navigo nell’oro, ma è bene che la politica cominci a operare per il bene dei cittadini», ha scritto sui social. «Opererò per la mia città, ma tornerò a svolgere la mia attività professionale»

5420799_b7b8f9_768x481«A volte bastano poche righe per provare a fare la differenza». La differenza la fa la scelta del “da che parte stare”: da quella dei forti, privilegiati da un ruolo, un posto di lavoro che per un periodo è stato definito “da casta”; oppure, dalla parte dei più deboli, quei cittadini che già riuscivano a malapena ad arrivare alla fine del mese e che, a causa del covid, dei conflitti bellici fra Russia e Ucraina, vivono situazioni ancora più drammatiche per via del “carovita”.

E allora, Alfredo Longo, sindaco di Maruggio, cittadina in provincia di Taranto, senza pensarci due volte, prende carta e penna e riporta nero su bianco un provvedimento che da una parte scalpore – quanti politici o rappresentanti le istituzioni lo avevano fatto finora? – dall’altra grande ammirazione.

Il sindaco di Maruggio, dunque, chiama il responsabile della Ragioneria e comunica il suo proposito: decurtarsi lo stipendio di diecimila euro, denaro che poi sarà ripartito a quelle famiglie che vivono nel disagio.

Piazza-Maruggio«QUANTA SOFFERENZA»

Longo, ai suoi concittadini e quanti condividono l’amicizia sui social, comunica questo suo proposito attraverso un messaggio che posta sul suo profilo Facebook. «In quest’ultimo mese – scrive il sindaco – ho incontrato tanti concittadini che, con grande dignità, mi hanno confidato le loro difficoltà». Il riferimento, evidente, è a quelle famiglie, e non sono poche, che in un momento di grave crisi economica hanno non poche difficoltà ad onorare bollette, prestiti, mutui.

Il primo cittadino di Maruggio prosegue nella sua analisi social. «Ho provato a dare una mano fin dove ho potuto ma trovo assurdo che un Paese come l’Italia si sia ridotto in questo stato: se la politica non riesce a dare risposte allora almeno provasse a dare l’esempio».

Nella sua analisi, aggiunge un altro elemento, se non altro per sconfessare chi pensa che il sindaco abbia tanti soldi e possa permettersi perfino di rinunciare a diecimila euro, che non sono proprio bruscolini. Ammette, infatti, di non navigare nell’oro, ma che ha deciso non vivere di sola politica continuando a svolgere la propria attività professionale per sostenere la propria famiglia. «So bene che la legge mi permette di aumentare la mia indennità – ha concluso Longo – ed è giusto che un sindaco sia correttamente retribuito per tutte le responsabilità».

Alfredo-Longo-sindaco-di-Maruggio-e1591723390706MAGARI FOSSE UN ESEMPIO…

Da qui la comunicazione al responsabile del Servizio di ragioneria al quale, scrive il sindaco di Maruggio «ho chiesto, per questo 2023, una decurtazione di diecimila euro dal mio stipendio per destinarli all’emergenza carovita, al fine di contribuire alle necessità dei miei concittadini. So che non è molto ma l’importante è fare la propria parte: a volte sarà scomodo, a volte impopolare ma il mondo cambierà con il nostro esempio e non con la nostra opinione». Se ci sono buoni propositi da registrare in questo 2023 appena iniziato, quello del sindaco di Maruggio è sicuramente fra questi. E se altri politici o rappresentanti di istituzioni cominciassero a prendere esempio, non sarebbe male. Intanto, egregio sindaco, a lei va un sentito ringraziamento per quello che ha fatto in modo concreto.

Ci piacerebbe capire anche qual è stato il ragionamento, il gesto, l’episodio che in un attimo l’ha convinta che sottoscrivere la rinuncia a diecimila euro del suo stipendio, fosse la cosa giusta. Ma forse chiediamo troppo, la sensibilità fa parte della sfera del privato e, a noi, va già bene così. Accipicchia se va bene così.