La scomparsa di David Sassoli, presidente dell’Unione europea

Addio al volto del’Accoglienza

Deluso dai Paesi dell’UE nei confronti dei profughi alla ricerca di riparo da guerre civili, persecuzioni politiche e fame. «Non una sola nazione si è fatta avanti per offrire accoglienza ai richiedenti asilo». Vicedirettore del Tg1, era ricoverato nel reparto di Oncoematologia dell’Istituto di Aviano. Colpito da un tumore del sangue si era sottoposto a un trapianto di midollo

Deluso. Non c’è aggettivo così elegante che lo stesso avrebbe utilizzato, rispettoso della correttezza dialettica, a proposito del totale disinteresse dei Paesi dell’Unione europea nei confronti dei profughi (con particolare riferimento a quelli afrghani) che cercavano e cercano riparo da guerre civili, persecuzioni politiche e fame. Purtroppo in questi giorni abbiamo dovuto dire addio al volto dell’accoglienza, quello di David Sassoli, giornalista e, nel momento in cui è venuto a mancare, presidente del Parmaneto europeo.

«Per avere una vera politica di sicurezza e di difesa comune – aveva ripetuto – dobbiamo anche fare un passo avanti ambizioso e prendere in considerazione il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio ogni volta che sia possibile». Una posizione netta, senza “se” e senza “ma”, alla faccia dei cerchiobottisti che spesso trattano con le opposizioni. La posizione di Sassoli, già vicedirettore del TG1, era stata netta. Deluso dalle conclusioni del Consiglio Affari interni, l’organo deputato alle politiche comuni e di cooperazione dell’Unione Europea, aveva segnalato una imbarazzante anomalia, come il vedere Paesi fuori dall’Unione europea farsi avanti per offrire accoglienza ai richiedenti asilo afghani, senza assistere ad un solo Paese membro fare altrettanto. Nessuno, aveva indicato Sassoli senza prenderla larga, ha avuto il coraggio di offrire rifugio a coloro ancora in pericolo di vita. Aveva invitato a non far finta che la questione afghana non ci riguardasse, in quanto avevamo condiviso obiettivi e finalità.

Sassoli era ricoverato nel reparto di Oncoematologia dell’Istituto Tumori Friulano ad Aviano. Era stato colpito da un tumore del sangue e sottoposto a un trapianto di midollo. Per questo motivo lo scorso 26 dicembre era stato trasferito proprio ad Aviano: le sue condizioni si erano aggravate dopo un’ultima ricaduta durante il periodo di Natale («sono stato colpito da una brutta polmonite da legionella», confessò a novembre).

Molti “no vax” hanno compiuto speculazioni hanno speculato persino sulla sua morte. Lo staff di Sassoli aveva anche risposto indignato al solito sciacallaggio a proposito di deliranti malevolenze su Covid e altro diffuse in rete, ma rispettando la volontà dello stesso Sassoli a non replicare, inasprire i toni. Era intervenuto seccamente, però, Enrico Mentana, direttore del Tg La7, che senza mezze misure aveva definito questi leoni da tastiera e social, fabbricatori di fake news «ignobili esseri, vigliacchi» che attribuivano la scomparsa di Sassoli alla terza dose di vaccino.

Del giornalista dal grande spessore umano, ci restano le sue parole. «Una voce europea – diceva – forte e comune sulla scena internazionale è più che mai necessaria: l’Europa deve prendere il suo posto, far sentire la sua voce, definire i propri interessi strategici anche nel quadro dell’Alleanza Transatlantica, per poter svolgere un’azione di stabilizzazione, di pace e di sviluppo insieme ai nostri partner in un quadro multilaterale».

Una priorità che per il presidente «va di pari passo con la necessità di avanzare insieme verso una vera politica di sicurezza e di difesa comune, senza la quale rimarremo dipendenti dalla buona volontà delle grandi potenze e ci esporremo alle minacce dei regimi autoritari».

«Una vera Europa geopolitica – sosteneva l’ex presidente dell’Unione europea – dovrebbe iniziare alle nostre frontiere, con i nostri partner, con i nostri amici più vicini: penso in particolare ai paesi dei Balcani occidentali, verso i quali abbiamo una responsabilità storica. Qualsiasi ritardo ed esitazione rischia di fare il gioco di altre potenze. Avere un continente stabile, pacifico, democratico e prospero porterebbe immensi benefici a tutti i cittadini europei».

Ecco il primo Piano nazionale per l’integrazione

È stato presentato nella sede del Ministero degli Interni il primo Piano Nazionale sull’Integrazione, un documento di indirizzo, scritto e sottoscritto da più Ministeri, che pare finalmente uno strumento che guarda oltre le politiche e le pratiche di accoglienza, ponendo l’accento sulla convivenza.
Ai doveri assunti dallo Stato italiano devono, parimenti, corrispondere impegni da parte di chi beneficia di protezione internazionale al fine di costruire quella auspicata coesione sociale utile a superare la barriera dell’indefinito che, per troppo tempo, ha caratterizzato l’accoglienza nel nostro Paese.
Sostenere il dialogo religioso attuando il Patto per l’Islam a livello locale, rendere obbligatoria la partecipazione ai corsi di lingua organizzati dai Centri di Accoglienza, frequenza di tirocini di formazione e orientamento all’apprendistato, potenziamento dei percorsi di socializzazione in favore dei minori e potenziamento della rete di difesa e protezione delle donne vittime di tratta sono i capisaldi del Piano.
All’attuazione del Piano sono chiamati tutti i soggetti istituzionali con la collaborazione attiva del Terzo Settore.
La platea di persone coinvolte dal Piano non riguardo solo i titolari di permesso di soggiorno, ma le quasi 250 mila persone richiedenti asilo e minori non accompagnati.
Invitiamo alla lettura del Piano per l’Integrazione

A cosa serve la guerra

Se non fosse tutto vero, fin troppo reale, potremmo pensare di assistere alla lite fra due bambini prepotenti e capricciosi che, travolti da un impeto di bullismo, si scatenano in una gara di insulti e provocazioni reciproche.

Il problema è che non è la lite fra due ragazzini quella alla quale stiamo assistendo, ma uno sconcertante scenario che vede come attori principali due Capi di Stato e come spettatore quasi inerme il resto del Mondo fino ad oggi incapace di imporre una mediazione ragionevole.

Se qualche anno fa avessimo domandato il nome del Presidente della Corea del Nord sono certo che la gran parte della popolazione mondiale non avrebbe saputo rispondere.

Oggi Kim Jong-un è un volto familiare, è entrato con prepotenza in tutte le case e suscita un interesse generato da una profonda preoccupazione: quando appare seduto in poltrona a godersi, circondato da fedelissimi plaudenti, il lancio di un missile non sta giocando alla Play Station. Sono missili veri con un potenziale distruttivo intriso del concetto di devastazione.

Dall’altra parte, il Presidente degli Stati Uniti d’America Trump, più impegnato a proferire minacce che a cercare una via d’uscita diplomatica, mostra anch’egli la propensione a mostrare i muscoli, a tratti quasi la spasmodica voglia di spingere quel bottone rosso chiuso nella valigetta che lo segue ovunque.

E’ sconcertante assistere ad una diplomazia internazionale ridotta a dichiarazioni quali “Trump è un vecchio rimbambito!” (Kim) o “Kim è chiaramente pazzo. Siamo pronti alla distruzione totale della Corea del Nord” (Trump).

In tutto questo le persone, le donne, i bambini non hanno alcun ruolo, nemmeno marginale, nei pensieri dei due passionari della guerra.

Quando con disarmante leggerezza si parla di bombe all’idrogeno, la famigerata bomba H, mi vengono in mente una affermazione piena di verità (Quando i grandi giocano alla guerra, i bambini non giocano più!) ed una canzone di Edoardo Bennato di cui vi propongo la lettura del testo e l’ascolto.

 

A cosa serve la guerra.

 

A cosa serve la guerra diciamo la verità
serve soltanto a vincer la gara dell’inutilità
A cosa serve la guerra – la guerra non serve mai
serve soltanto a trovare rimedi che sono peggiori dei mali 

Ogni soldato che parte – ogni soldato del re
vorrei raggiungerlo con questo valzer – fargli cantare con me
A cosa serve la guerra diciamo la verità
serve soltanto a vincer la gara dell’inutilità
La guerra è sempre la stessa – ognuno la perderà
e a ogni soldato che muore si perde un po’ di umanità
La guerra è sempre la stessa devi partire e non sai
se è una minaccia o se è una promessa
che è l’ultima guerra che fai
Come uno stupido valzer – la storia non cambierà
ma è sempre meglio cantarla ogni tanto – questa canzone che fa
La guerra è un caso irrisolto – perché la sua soluzione
è che il più debole ha sempre torto e il più forte ha sempre ragione
A cosa serve la guerra diciamo la verità
serve soltanto a vincer la gara dell’inutilità.

Ussumane e il primo giorno di scuola

«Sì, sarò bravo a scuola, non come te». Sorride Ussumane. Ha scoperto che non sono mai stato un genio nel rendimento e nel comportamento nei miei anni di scuola e così mi saluta prendendomi in giro. «Studierò così avrò la serenità di dedicarmi anche al calcio».

Il suo primo giorno di scuola alla Colombo inizia con entusiasmo. Non è un ragazzo esuberante Ussumane, ma il suo sorriso trasmette la positività del suo animo: « Sono un po’ spaventato ed emozionato allo stesso tempo: la scuola è importante, ma non solo per imparare la lingua che per noi è noi fondamentale, ma anche perché mi aspetto che offra l’occasione di fare anche esperienze nuove. Visitare posti nuovi, scoprire realtà che non conosco sono avventure che se vissute insieme ai compagni di classe possono essere ancora più entusiasmanti».

Ussumane ha compiuto 18 anni il 2 settembre scorso, qualche giorno prima del suo campione: Luka Modrić, il centrocampista del Real Madrid che di anni, però, il 9 settembre ne ha compiuti 27. «Anche io gioco a centrocampo e mi ispiro a lui perché il suo modo di giocare è semplice, pulito, come dovrebbe essere quello di un centrocampista. Iniesta? Sì, è un fenomeno, ma Modrić  è meglio». È arrivato in Italia il 30 settembre dello scorso anno: il suo viaggio è iniziato a Gabú qualche mese prima. «Perché sono partito? Problemi familiari. Litigavo con il mio fratellastro. Le cose sono andate avanti pertanto tempo fino a quando il 2 giugno 2016 dopo l’ennesimo scontro ho capito che era meglio andar via». Il suo viaggio lo ha portato in Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger dove ha lavorato per un mese nell’edilizia e infine in Libia: «Ci sono stato per 4 mesi e sì, prima che tu me lo chieda, sono stato in prigione, ma non pensare che ti possa descrivere quei momenti: c’ho provato altre volte, ma è troppo difficile da raccontare». In Italia è arrivato dopo il salvataggio di una nave della Marina militare: con altre 110 persone attraversava il Mediterraneo su un barca piccolissima: «il viaggio è stato terribile, ma non solo quello in barca. Tutto il viaggio è terribile. Se oggi potessi parlare con i ragazzi della mia terra direi loro di non partire. Sì, lo so che le condizioni di vita nel nostro Paese non sono facili, ma i rischi del viaggio sono troppo alti per tentare. Mi sento molto fortunato a essere qui».

Nel suo Paese ha studiato per 5 anni e poi ha iniziato a fare l’agricoltore, ma il sogno della campagna probabilmente è rimasto in Africa: Ussumane vuole studiare e giocare a calcio. Da qualche tempo si allena con la Africa United Talsano e tra poco inizierà il campionato: «non vedo l’ora – dice sorridendo – come per la scuola anche lì darò il massimo. Diventerò un grande calciatore». Si ferma sorride e poi aggiunge: «non come te». Scoppiamo a ridere entrambi. Anche Mady, l’operatore che ci aiuta a comunicare ride. Intorno a noi il sole riscalda la mattina di un settembre insolito e improvvisamente pieno di avventure da iniziare. Ussumane saluta, si allontana e continua a sorridere.

Specchia tra le parole e l’esempio

Ha ragione Oscar Iarussi che nel suo commento sulla Gazzetta dopo tragici fatti di Specchia, ha scritto che «nonostante il pudore che spingerebbe a tacere, viene il sospetto che le parole servano: pacate, riflessive, ferme». La tragica storia di Noemi lo chiede. Ma chi ha il diritto di parlare? «Quelle dei giudici, quando toccherà a loro. Quelle degli adulti, ogni giorno» aggiunge Iarussi.

Già, gli adulti: genitori, educatori e insegnanti prima degli altri hanno un «dovere di prelazione» di usare le parole, ma ancora di più l’esempio. Le parole senza una testimonianza credibile non servono.
Perché il rispetto dell’altro sesso è materia che i giovani (ma non solo) hanno bisogno di vivere, non di ascoltare. L’atrocità di quanto accaduto non può non interrogare sul livello di testimonianza che oggi i «grandi» sanno offrire: i modelli propinati dalle aberranti trasmissioni come Temptation Island, Grande Fratello, Geordie Show e altro dominano in modo incontrastato l’immaginario adolescenziale.

Quando l’autore dell’omicidio di Noemi ha rischiato il linciaggio sfoderando un atteggiamento di sfida con un saluto inquietante e una smorfia derisoria verso la folla, probabilmente ha solo cercato di (a modo suo) di apparire ciò che non è. Forse ha solo rielaborato quei modelli di cui si è imbibito. Probabilmente ha sentito la necessità di sfoggiare, sfidare, osare, non mostrare debolezza. Eppure «tenerezza e gentilezza – scrive Khalil Gibran – non sono sintomo di disperazione e debolezza, ma espressione di forza e di determinazione». Quel ragazzo ha sbagliato e deve essere punito secondo ciò che prevede la legge. Indubbiamente. Ma non servirà a nulla se tanti altri non saranno toccati dalle parole e dalla testimonianza di chi – coi fatti – è in grado di raccontare il rispetto per l’altro. Chiunque sia.

Nell’occhio del ciclone

L’uragano Trump aveva affermato nella scorsa primavera che “i cambiamenti climatici non rappresentano un problema” sfilando gli Stati Uniti d’America dal Programma Internazionale per la riduzione delle emissioni in atmosfera.

Ed ecco che la natura fa arrivare pronta la sua risposta: due uragani, questa volta veri e senza parrucchino biondo o bellissime donne al seguito, hanno devastato, e continuano a farlo, un pezzo del Continente americano e a pagare il prezzo più alto sono, come di solito accade, le fasce sociali più deboli, quelle più indifese e già poste ai margini.

La forza della natura ha cancellato interi quartieri periferici, spazzato via baraccopoli, messo in fuga centinaia di migliaia di persone che vagano, nella gran parte dei casi, senza mezzi e senza meta.

Anche quel poco che serviva a sopravvivere non c’è più.

Ma anche in questi casi emerge il doppio volto dell’America: alle immagini che arrivano dal Messico e da Cuba, si sovrappongono quelle di una Miami deserta, con un aspetto quasi spettrale, difficile da ingoiare nell’immaginario collettivo e le foto, diffuse dai media, delle ville milionarie (tra le quali una delle tante ville di Trump) che rientrano nell’area a forte rischio quasi che, di fronte ad una tragedia di tali dimensioni l’attenzione si dovesse concentrare su questo.

Il Presidente Trump si è recato nei luoghi del disastro senza neanche mostrare imbarazzo per lo strappo internazionale sulle questioni ambientali.

E, soprattutto, senza avere chiaro un piano di gestione della fase post disastro.

La promessa è fra le più facili e prevedibili: farà arrivare una pioggia di dollari che avrà l’effetto, come sempre succede nei programmi di ricostruzione, di arricchire e rafforzare le solite lobby che dalle tragedie traggono linfa vitale.

Alle fasce più deboli, invece, non resta che ripartire da zero, dal nulla che è rimasto.

Ma Irma e Harvey, i due uragani, avranno la forza di convincere Trump che è urgente, non solo necessario, rivedere le politiche sul clima?

Qui ventum seminabunt et turbinem metent! (chi semina vento raccoglie tempesta) verrebbe di dire, anche se, certo, a seminare non è stato e non è chi oggi paga il prezzo più alto.

LA CONVIVENZA COME VALORIZZAZIONE DELLE DIVERSITÀ

 

Questa settimana, all’indomani della Festa del Sacrificio, ospitiamo nella rubrica Domenicale un contributo, una riflessione, inviataci dal Dr. Alessandro Catena, sociologo e educatore della riabilitazione psichiatrica oltre che essere impegnato nel lavoro di progettazione sociale collaborando con l’Assessorato al Welfare della Regione Puglia, il Centro di Servizio al Volontariato di Bari e svolgere il ruolo di Coordinatore dello staff di coordinamento dei centri territoriali per le famiglie del Comune di Bari. Inoltre, è Progettista e Project manager del Progetto “Itinerari verso Oriente” per la ricerca sulla qualità della vita degli immigrati nel quartiere San Pasquale di Bari e l’istituzione di servizi all’immigrazione, finanziato dall’Assessorato al Mediterraneo della Regione Puglia.

Dove sta andando la nostra civiltà?

Il nostro paese appare come attraversato da un vento di intolleranza che sembra rinforzarsi ogni giorno di più. Ed è un vento che raggiunge la sua massima intensità quando urla sui migranti ma che, in realtà, soffia forte su ogni diversità. Basti vedere l’episodio del cartello di Carugate, che non è da considerare un fatto isolato se si tiene conto dei tanti “cartelli” che appaiono tutti i giorni sui social. Tutte le conquiste sociali che negli ultimi decenni sembravano date per acquisite, dall’accettazione della diversità all’accoglienza alla convivenza, sembrano ora messe pericolosamente in discussione da un esaltarsi prepotente dell’intolleranza, generata o, più spesso, sollecitata dalla crisi, come ormai sentiamo dire da anni, tanto che sembra diventata una scusa buona per tutte le reazioni più negative. All’intolleranza, allora, occorre rispondere esaltando il concetto opposto di accoglienza. L’accoglienza è apertura, solidarietà, condivisione, è mettersi in gioco. Ogni volta che si leggono attacchi generati da presunti atti di favore rivolti ai migranti a dispetto degli italiani poveri, viene da chiedersi se chi attacca fa poi qualcosa per quegli italiani poveri che sui social difende con tanto ardore e tanta violenza verbale. Verso i migranti, poi, l’ospitalità è un “buon costume” ma rimane fine a se stessa se non viene superata dal rendersi partecipi e dall’aprirsi all’altro, alla sua diversità, facendola diventare ricchezza. E non si tratta di dare semplicemente conforto ma di condividere. Condividere per convivere, che è l’obiettivo finale. La convivenza come accoglienza e valorizzazione delle differenze e delle diversità, come arricchimento reciproco per giungere all’eguaglianza, quale valore imprescindibile per la democrazia. Un valore che ci riguarda da vicino, poiché la nostra rischia di diventare sempre di più la civiltà della disuguaglianza, di cui tutti noi rischiamo di essere vittime.  

Se è così, e purtroppo sembra questa l’evoluzione della realtà, è a rischio la stessa convivenza civile

(con una violenza verbale tale da portare la Presidente della Camera, ma non è la sola, alla decisione di denunciare le minacce ricevute in rete)

E le prime vittime sono i migranti.

Dr. Alessandro Catena

Jeffang, scacciato dalla sete di potere

Avidità e sete di potere. Co sì tanto da devastare una vita. La storia di Jeffang Foday è la storia di un ragazzo vittima delle ambizioni ostinate dei suoi parenti. Suo nonno era sindaco del villaggio nel cuore del Gambia, dove Jeffang è nato e cresciuto: alla sua morte la corsa alla successione ha aperto una vera e propria guerra tra suo padre e suo zio, fratello del padre. A quest’ultimo non bastava essere solo il sindaco o solo l’imam: l’uomo voleva detenere il potere in modo assoluto.

Le liti familiari sono col tempo degenerate fino a travolgere la vita del giovane: «Era un giorno di gennaio 2015 quando ho deciso di partire, ma ormai sapevo da tempo che sarebbe finita così».

A soli 16 anni Jeffang inizia il suo viaggio: dal Gambia raggiunge il Mali, ma si ferma solo per un giorno e poi si sposta in Burkina Faso: «durante il viaggio le condizioni erano pessime, ma come se non bastasse l’autobus sul quale viaggiavamo ebbe un incidente. Pochi giorni dopo parte nuovamente per raggiungere la Nigeria: «ho lavorato per un po’ di tempo, ma non so dirti quanto e poi sono partito di nuovo verso Libia: per 8 mesi ho fatto il muratore e ho raccolto i soldi per raggiungere l’Italia». A differenza di tanti altri Jeffang non è mai stato arrestato in Libia e fortunatamente non ha vissuto l’incub delle prigioni libiche: «sono partito da partito da Zabrata con altre 150 persone e dal 31 agosto 2016 sono a Taranto. Sì, ormai è un anno esatto: mi trovo bene qui: nessuno litiga e gli operatori sono davvero bravi».

Oggi sta imparando l’italiano, ma sogna di riprendere gli studi di informatica: «all’inizio mi andrebbe bene qualunque lavoro perché voglio restare qui, ma sinceramente mi piacerebbe trovare il modo di lavorare coi computer: è quello che so fare meglio». Jeffang sorride e torniamo a parlare del su paese e dell’inizio del suo viaggio. Quando ripensa al suo Paese è evidente che abbia nostalgia, ma stranamente non ha rancore per chi l’ha costretto ad andar via: «purtroppo è andata così, mi dispiace, ma non voglio incolpare la mia famiglia. Voglio solo pensare al mio futuro».

Yanick e il viaggio inatteso

2017-08-17-PHOTO-00001435Yanick, 22 anni, è originario del Camerun dove viveva ad Etam, un piccolo villaggio.

E’ arrivato in Italia 5 mesi fa dopo aver attraversato il Ciad e il Niger per raggiungere la Libia. Tutto il viaggio lo ha fatto da solo.

Il mio viaggio è durato un anno e quando sono andato via dal Camerun la mia meta non era l’Italia. Non avrei mai pensato di poterci arrivare perché non avevo soldi. Avevo solo fretta di lasciare il mio Paese”.

Mi incuriosisce il fatto della “fretta” e gli chiedo il perché: “Mio nonno è uno stregone, voleva farmi del male con le sue magie. Anche i suoi tre figli sono scappati per lo stesso motivo”.

Stiamo parlando di riti voodoo? “No –cerca di spiegare ad Awal, un operatore del Centro, che mi affianca per la traduzione- non so tradurre dal mio dialetto il nome, ma non è voodoo, è una pratica cattiva fatta contro le persone. Mio nonno è uno cattivo, tutti hanno paura di lui.

Io e Awal supponiamo si possa trattare di qualcosa prossima al satanismo, ma cambiamo argomento e chiedo a Yanick di parlarmi della sua vita.

Fin da piccolo, all’età di quattro anni, mia madre mi affidò ad una sua amica. Da allora non l’ho più vista e solo qualche anno dopo ho saputo che era morta. Mio padre non l’ho mai conosciuto. Ho frequentato la scuola fino al secondo ciclo poi ho iniziato a lavorare come saldatore, che è il mio vero mestiere. Poi è arrivato il momento di scappare e sono andato in Ciad dove pensavo di restare. Lì ho svolto lavori saltuari e occasionali ma ho conosciuto una persona che, ascoltata la mia storia, ha voluto aiutarmi. In Ciad non ci sono occasioni di lavoro ed è così che questo amico mi ha dato i soldi per affrontare il viaggio fino all’Italia che non avevo mai creduto di poter fare”.

Nel Centro di Accoglienza Straordinaria di Modugno dove è ospite, Yanick frequenta il corso di lingua italiana in maniera assidua.

A settembre voglio iscrivermi a scuola per continuare gli studi e imparare bene l’italiano. Ma, soprattutto, mi piacerebbe frequentare un corso di formazione per saldatori e trovare un lavoro. Voglio fruttare al massimo questa opportunità di essere in Italia che è il Paese nel quale voglio restare”.

Quando ci salutiamo e lo ringrazio per la sua disponibilità gli spiego che tutti gli operatori della struttura sono impegnati a ricercare opportunità che favoriscano l’integrazione e che sicuramente saranno attenti anche alle sue richieste soprattutto perché rientrano nel percorso che vorremmo per tutti.

Quello del saldatore è un mestiere considerato in “estinzione”.

Non sarà difficile per Yanick, che mostra una grande volontà, qualificarsi e trovare un lavoro.

«A tutti e a ciascuno».

«La nostra società fa ancora fatica a confrontarsi veramente con l’immigrazione, che, se per alcuni può essere un problema, per tutti dovrebbe essere, invece, un’opportunità. È all’immigrazione che Milano deve non poco della sua fortuna: questa città è frutto di ripetuti e successivi processi di integrazione. È una memoria da recuperare. Sicuramente occorre intervenire per regolare doverosamente il fenomeno migratorio, garantendo la legalità, attivandosi di concerto con le altre nazioni. Ed è indubitabile che anche la Chiesa debba fare la propria parte. Purtroppo, invece, spesso accade che a prevalere sia la paura dell’altro».

Con queste parole il Cardinale Dionigi Tettamanzi lasciò la diocesi di Milano, ormai già provato dalla malattia che lo aveva colpito.

Nel marzo 2013 partecipa al conclave che elegge Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco, un uomo come lui, uno che aveva già scelto da che parte stare.

Nonostante fosse stato nominato Cardinale, padre Dionigi è sempre restato un Parroco, un prete come tanti vicino alla gente e che cercava la gente, le persone per ascoltare i loro bisogni, materiali e spirituali, utili a tradurre la carità cristiana in gesti concreti.

Il prete delle provocazioni che fino alla fine, ha dimostrato la sua lontananza dall’”apparato” che discrimina: il cardinale Dionigi Tettamanzi ha accolto a casa sua venti nigeriani. Li ha ospitati nella grande e sontuosa Villa Sacro Cuore a Triuggio, in Brianza, a pochi chilometri di distanza dall’altrettanto sontuosa villa di Macherio, dimora della famiglia di Berlusconi.

“I nostri venti profughi sono quasi tutti musulmani, anche se fra loro ci sono alcuni cristiani metodisti. Tutti loro si sono adattati benissimo alla vita che facciamo qui nel centro spirituale, -ha raccontato don Luigi Bandera, direttore della Villa e stretto collaboratore del cardinale Tettamanzi – Abbiamo deciso di accoglierli dopo l’appello di Papa Francesco che si è rivolto alle parrocchie e ai centri religiosi, invitandoli ad aprire le porte ai migranti. Noi l’abbiamo fatto ormai diverse settimane fa e sta andando tutto benissimo”.

«A tutti e a ciascuno»: così, in maniera semplice, il cardinale Dionigi Tettamanzi rivolgeva il suo saluto, soprattutto quando si trattava di grandi folle. Esprimeva con questo modo il suo desiderio di arrivare a tutti, di essere vicino a ciascuno.

Era consapevole nelle sue azioni che l’altro, il diverso, lo straniero, ci fa paura se visto da lontano. Se lo guardi negli occhi, se gli dai una prospettiva, se cerchi la sua collaborazione e lo rendi responsabile cambi il corso della storia o, perlomeno, inverti una tendenza.

Ciao padre Dionigi, Cardinale rimasto in frontiera!

E grazie per tutto quello che ci hai lasciato!