Che farà ora Mister Trump?

Cosa resta della visita in Italia del Presidente Trump? Segnali discordanti, rispetto a un personaggio che era stato capace di conquistare la Casa bianca con uno stile aggressivo, un mix di protezionismo e intolleranza, di “ribellione patriottica”, come qualcuno l’ha definita.

Incontrando Papa Francesco pare non abbia insistito più di tanto su questioni (Islam , migranti, muro divisorio col Messico) che lo avevano posto su posizioni lontanissime dal Pontefice. Ha affermato invece “non dimenticherò le sue parole“, regalando al Pastore della Chiesa cattolica un cofanetto di libri contenenti i discorsi di Martin Luther King, immortale mito della lotta alle discriminazioni razziali e per l’affermazione dei diritti civili!

Col Capo dello Stato Mattarella e il Presidente del Consiglio Gentiloni ha avuto parole d’elogio per l’Italia, esaltandone la bellezza e la fedeltà di Paese alleato.

Quindi il vertice del G7 a Taormina. Su migranti e clima Trump non sembra abbia fatto grandi passi indietro, mantenendo anzi gran parte delle sue posizioni intransigenti. Ha concordato invece, con i rappresentanti delle altre potenze mondiali riunitesi in Sicilia, sulla necessità di avere una strategia comune per fronteggiare e sconfiggere il terrorismo. Qualche concessione il Presidente statunitense l’ha mostrata infine sul tema del commercio internazionale.

Che bilancio trarre, dunque? L’impressione che ne ricaviamo è che Donald Trump, pur volendo  preservare la sua immagine di “uomo forte” e decisionista, cerchi di tessere relazioni internazionali più “aperte”. Una disponibilità al dialogo, sia pure parziale, un’apertura diplomatica che serva a superare le perplessità sul suo conto, una ricerca di consenso che possa conferirgli maggiore autorevolezza, anziché relegarlo nel ristretto ambito dell’autoritarismo. E la differenza non è di poco conto.

Abile stratega o uomo in difficoltà ora che ha conquistato il potere?

Il sogno della piccola Buteina: “un computer e una casa, ma sono una bambina fortunata”.

Buteina è nata in Marocco 10 anni fa ma, dopo la morte del padre, si è trasferita all’età di un anno in Libia con la madre che aveva trovato lavoro come domestica presso una famiglia benestante. Adesso è ospite del Cas di Bitonto dove l’ho incontrata per raccogliere la sua storia all’indomani della tragedia, l’ennesima, che si è consumata in mare e che ha fatto strage di bambini migranti.

“In Libia stavamo bene, la famiglia che mi dava lavoro ci voleva bene e la bambina andava a scuola” racconta la mamma. Ma io insisto per parlare con Buteina, voglio conoscere la sua storia raccontata da lei senza filtri perché ho capito subito di avere di fronte una bambina dotata di una straordinaria intelligenza e tanta voglia di dire, raccontare, parlare che traspare dai suoi grandi occhi neri e dal suo sguardo duro e tenero allo stesso tempo.

“Sono arrivata in Italia 6 mesi fa con un barcone ma, dopo due giorni di viaggio, lasciati alla deriva, siamo stati soccorsi da una nave, una dei soccorsi umanitari, e su quella nave siamo rimasti altri 4 giorni prima di raggiungere l’Italia. In mare ho avuto paura, non all’inizio, ma quando ho visto che le persone grandi che erano su quella barca avevano paura di morire”.

E continua “In Italia da quattro mesi vado a scuola. Mi piace andare a scuola anche se nei primi giorni gli altri bambini giocavano con me, ora non vogliono più giocare con me e non lo so perché”. Le chiedo se ne ha parlato con la maestra o con qualcun altro e lei mi risponde di no, che sono la prima persona a cui rivela questa cosa. Il mediatore che mi affianca, Karim, che conosce bene Buteina rimane stupito e conferma che è vero, non ha mai parlato con nessuno di questa cosa e, con lo sguardo rivolto alla mamma sembra chiederle se ne sapesse qualcosa.

“Quando è tornata da scuola oggi e le ho detto che sarebbe venuta una persona per farle delle domande è stata felice e mi ha risposto che finalmente poteva parlare. Io mi aspettavo una reazione diversa, invece…”. E infatti, ho trovato Buteina che mi aspettava seduta alla postazione degli operatori. In attesa che ci raggiungesse karim, ci siamo presentati. Ed è arrivata un’altra sorpresa: Buteina parla in Italiano, certo stentato, ma comprende tutto ciò le dico. E risponde in maniera appropriata dopo solo 6 mesi dal suo arrivo in Italia.

Quando arriva Karim, Buteina era già un fiume in piena e io facevo fatica ad appuntare quale passaggio del suo racconto sul taccuino. “In Libia sparavano tutti i giorni e io tremavo sempre per la paura –racconta- e le bombe iniziavano a cadere a pochi metri dalla casa dove abitavamo. Un giorno sono entrati in casa dei soldati che ci hanno picchiate e ci hanno rubato tutto quello che avevamo e, qualche giorno dopo, una bomba ha distrutto anche la casa”. La mamma, sempre presente, racconta che grazie all’aiuto economico della famiglia presso la quale lavorava e con l’aiuto di qualche amico hanno racimolato la somma necessaria per salire su quel barcone che sembrava, ormai, l’unica via di fuga. Mille euro a testa per essere abbandonati a poche miglia dalla costa libica.

“Non conosco il Marocco che è il Paese dove sono nata, ma studio sempre sui libri il mio Paese e mi faccio raccontare da mia madre e da mia zia sempre la storia del mio Paese. Mio fratello, che ha 23 anni, è arrivato in Italia quindici giorni fa. Anche lui, finalmente, è riuscito a scappare dalla Libia”. Con uno sforzo enorme, chiedo a Buteina se aveva saputo della tragedia avvenuta in mare due giorni prima nella quale hanno perso la vita tanti bambini. “Si –ha risposto- me lo ha detto mamma quando sono tornata da scuola. Non voleva dirmelo, ma lo ha fatto perché lo stesso lo avrei saputo. E la barca che si è girata era uguale a quella sulla quale eravamo noi. Io mi sento davvero una bambina fortunata”. La mamma stringe a se la bambina e racconta che, di fronte a quelle immagini e a quella notizia ha pianto, ha pianto tanto ripensando alla loro storia e a quei bambini.

E ha continuato “Noi siamo mussulmani. Anche l’altro giorno un ragazzo si è fatto esplodere a Manchester e ha ammazzato tanti bambini. Ma questo non c’entra niente con la religione. Uccidere è un peccato, l’Islam non uccide. Noi mussulmani continuiamo a scappare da chi uccide”. Torno a parlare con Buteina per chiederle cosa fa durante il giorno dopo la scuola: “Gioco con le bambole e la favola che mi piace di più è Biancaneve perché è la prima favola che ho ascoltato a scuola da quando sono in Italia. Oggi sono triste perché dovevamo fare una gita per visitare un sito perché stiamo studiando il neolitico ma pioveva e non ci siamo andati più. Io e mia madre non usciamo spesso, stiamo quasi sempre qua in struttura e i miei compagni di classe non li vedo il pomeriggio perché, l’ho detto, non vogliono giocare con me”.

La mamma chiede a Karim di spiegarmi che evita di andare in giro perché Buteina le chiede di comprare cose che non si possono permettere di comprare. Allora, chiedo a Buteina (che ha sentito tutto!) cosa le piacerebbe avere in regalo. La risposta è pronta, quasi si aspettasse quella domanda: “Un computer e una casa. Questo è il mio sogno!”.

Buon 25 aprile

La Resistenza contro il nazifascismo non è mai finita. Perché il nazifascismo non è mai definitivamente morto. Semplicemente ha cambiato forma. I nuovi fascisti cambiano volto e modo di vestire, ma non hanno mai smesso di predicare la loro volontà di limitare le libertà tipiche di una tirannia assolutista.

Oggi, a distanza di qualche decennio, anche la Resistenza ha cambiato forma. I nuovi partigiani hanno cambiato forma e modi di vestire, ma continuano a portare avanti ideali di libertà, autodeterminazione e solidarietà.

Sull’edizione di oggi, Repubblica racconta la storia di Livio Sandini, il 12enne torturato a Bassano del Grappa dai nazifascisti: fu calato a testa in giù in pozzo di 20 metri per rivelare il nascondiglio dei fratelli che si erano uniti ai partigiani. Livio resistette, consapevole a soli 12 anni di poter perdere la vita. Una storia fino a oggi sconosciuta, come sconosciute spesso sono le storie di tanti ragazzi che consapevoli di mettere a serio rischio la propria vita scelgono di lasciare i propri affetti e resistere alle prigionie libiche, ai trafficanti di esseri umani e alla inesorabile potenza del mare. Partono per ricostruire un futuro migliore, come i partigiani. E con loro c’è una brigata di uomini e donne che li accoglie e combatte contro i luoghi comuni e il razzismo strisciante che ancora si annida in questo Paese.

In questi mesi vi abbiamo raccontate tante storie di resistenza, oggi ve le riproponiamo tutte: scegliete la vostra.

Buon 25 aprile!

 

SANGUE E ARENA, MA NON È UN FILM

 

Alle 22,30 di lunedì, a Manchester, un kamikaze si è fatto esplodere in una arena affollatissima di giovani che si erano ritrovati per assistere al concerto della cantante Ariana Grande.

In totale le vittime sono 22. La più piccola aveva solo otto anni. Centinaia sono le persone rimaste ferite.

Un atto terroristico firmato dalla viltà e dalla crudeltà estrema perché chi ha colpito sapeva di colpire fra tante persone per ottenere il maggior danno possibile, ma sapeva anche che si trattava di un raduno di giovanissimi fans della cantante.

E così l’Inghilterra si ritrova a piangere i suoi figli dopo l’attentato del 2005 nel quale trovarono la morte 57 persone e ne furono ferite 700.

A rivendicare l’atto terroristico è stata ancora una volta l’ISIS che pare ormai aver collaudato la strategia dei “lupi solitari” e delle “cellule sparse”, spesso arruolati a posteriori e, ancor più spesso, radicalizzatisi lontano dai loro Paesi di origine o, addirittura di seconda generazione.

Secondo quanto riferito dal TelegraphSalman Abedi è nato a Manchester nel 1994 ed è il terzo di quattro figli di una coppia di rifugiati libici scappati in Gran Bretagna durante il regime di Gheddafi.

L’unica certezza è che alla base di queste azioni finalizzate a fare stragi non c’è la religione.

Vi è, al contrario, un insensato attacco al modello occidentale, prima ricercato poi indicato come il “male” da sconfiggere.

E’ indiscutibile la debolezza delle politiche inclusive dei Paesi europei così come debole è il welfare. Ma tutto questo non giustifica una strage.

Niente può giustificare una strage!

Da qualsiasi parte arrivino violenza e morte non sono giustificabili. In nessun caso! Per nessun motivo!

Il dolore provato per i bambini, le donne, gli uomini morti in ogni parte del mondo, sotto le bombe o attraversando il deserto e il mare non è diverso dal dolore che proviamo per le persone che hanno perso la vita a Manchester per mano di un folle.

Si, folle! Perché solo la mano di un folle può armarsi per spingere il bottone di una strage!

Tutta la comunità di Costruiamo Insieme, multietnica e ricca di scambi fra culture, esprime il suo profondo sentimento di condanna contro l’attentato di Manchester e contro ogni forma di violenza.

Il dialogo ed il confronto restano per noi l’unica arma possibile.

“Blue whale challenge”, 50 giorni per morire.

L’idea di potersi o volersi suicidare è un’esperienza emotiva assai frequente, soprattutto in certe fasi della vita segnate da importanti crisi evolutive. Tale esperienza costituisce un elemento rappresentazionale ed affettivo probabilmente connaturato ad una larga quota di esseri umani ed è connesso alla capacità di accettare l’idea dell’ineluttabilità della propria futura morte. Tale capacità costituisce un momento evolutivo importante nel corso del processo adolescenziale in quanto segnala, da un lato, l’affrancamento dalle infantili fantasie di onnipotenza e di immortalità (e quindi l’accettazione dei limiti posti dalla realtà della vita, in primo luogo quelli temporali), ma costituisce anche, dall’altro lato, l’affermazione del proprio Sé in quanto sede unica delle proprie libertà decisionali ed una genuina e attiva accettazione della vita attraverso la rappresentazione mentale della possibilità del suo contrario (Pandolfi, 2000; Senise; 1989).
Dovevano saperlo bene gli inventori di Blue Whale, il “gioco” che ti accompagna per cinquanta giorni verso la morte.

Sveglia alle 4.20 del mattino, film dell’orrore a volontà, video psichedelici, foto sui tetti dei palazzi più alti della città, balene incise su braccia e mani con dei taglierini. La Blue Whale è una missione che gli inventori del macabro gioco, detti anche curatori o tutor, danno a ragazzini tra i 9 e i 17 anni scelti sui social network. Per 50 giorni, i giovani che decidono di accettare questa sfida devono rispettare delle regole assurde senza farsi scoprire dai loro genitori.

La deprivazione del sonno, l’ascolto di musica alienante, l’esposizione a stimoli visivi macabri e spaventosi, hanno l’obiettivo di creare un umore cupo e  un senso di negatività generale (in un ragazzo che magari già presenta elementi depressivi o di disorientamento). Un clima e un umore  che, giorno dopo giorno, confondono la capacità di giudizio dei ragazzi e assorbono totalmente il loro spazio vitale. E’ proposto come un gioco, come una sfida, tematica questa molto forte per adolescenti e pre-adolescenti: superare prove sempre più complesse, li fa sentire forti, coraggiosi, potenti. Magari perché in altri ambiti si sentono vuoti, apatici, falliti. di questa forza e coraggio vi è una prova filmata, che altri vedranno. Una delle regole è proprio quella di documentare ogni passaggio attraverso la condivisione di foto e video. E, nel prepararsi a compiere un gesto così straordinariamente eclatante, vengono fatti sentire degli eroi. Gli adolescenti sono sempre pronti a misurarsi con i loro limiti senza spesso valutare le conseguenze delle loro azioni (abuso di sostanze, sfidare il pericolo, etc.). La morte, in alcuni casi è accidentale. Qui invece è ricercata. E quindi, la fama (postuma), può spiegare solo in parte una scelta così estrema” ha scritto sul caso lo psicologo Massimo Vidmar.

Perché si parla di morte? Semplice: perché l’obiettivo finale della Blue Whale è proprio la morte.

Così come le balene azzurre, per morire, decidono di suicidarsi arenandosi sulla spiaggia, così anche gli adolescenti, sobillati da veri e propri criminali presenti sui social, decidono di accettare 50 sfide, sempre più estreme, che li trasformano e li portano fino alla depressione. Se la regola generale è quella di non dire nulla ai genitori, l’ultima sfida, quella finale, è il suicidio, ovviamente facendosi riprendere in video dagli amici per poter avere una testimonianza.

In Russia i casi di suicidi tra adolescenti che avevano partecipato a questo “gioco” social hanno raggiunto picchi difficilmente immaginabili e comprensibili. Più di 150 ragazzi, in poco tempo, sono caduti in questa trappola infernale.

Il macabro gioco della balena blu si è già diffuso a macchia d’olio: dalla Russia ha raggiunto il Brasile, ma anche Francia e Inghilterra. In Italia, il caso di un ragazzino suicida a Livorno che si è lanciato nel vuoto dal 26° piano del grattacielo cittadino, fa temere che la Blue Whale sia arrivata anche qui.

I fattori di rischio ambientali nella fase adolescenziale sono determinati da bassi livelli di coesione, elevata conflittualità ed insoddisfazione all’interno della relazione genitoriadolescente.

Questi sono elementi riscontrati frequentemente nelle famiglie degli adolescenti che tentano o completano il suicidio.

La disarmonia e la disintegrazione familiare giocano un ruolo estremamente importante perché rendono l’adolescente privo di un contesto di riferimento solido e significativo che gli è ancora necessario.

Dentro un processo di progressiva perdita di valori, anche la vita perde il suo valore soprattutto se il vortice prodotto dalla distruzione dell’autostima e dalla perdita di autonomia presenta la morte come il punto di arrivo, il traguardo, il premio per aver terminato il “gioco”.

Dunque, è bene interrogarsi su come una o più menti distorte e criminali abbiano potuto immaginare di costruire una trappola per ragazzi retta sulla perversione e l’idolatria della morte e su come è possibile che tutto ciò, eludendo qualsiasi controllo, possa così facilmente raggiungerci nelle nostre case, nelle nostre famiglie, colpire i nostri figli con facilità.

Meglio sarebbe se imparassimo a costringere i nostri figli a confrontarsi col mondo reale che, per un inconscio ma radicato senso protettivo, abbiamo contribuito anche noi “adulti” a sostituire con un mondo virtuale nel quale è difficile trovare e dare un senso alle cose, è difficile abituarsi a dare un senso alle cose.

Se fossimo capaci di sostituire il giudizio con il confronto, la punizione con la discussione, forse i ragazzi parlerebbero di più con noi, condividerebbero con noi ansie e angosce proprie della loro età, anche insuccessi e delusioni, evitando di cercare un rifugio diverso e altro che spazia fra la solitudine e la materializzazione dei rapporti umani.

Omar, il giovane che sogna di raccontare l’America

«Mi piacerebbe diventare un insegnante, magari di francese. Oppure di storia: potrei raccontare la storia di Cristoforo Colombo, la mia preferita». Omar sorride, gli occhi scuri e stretti a fessura  che brilla. Porta spesso le mani al volto prima di rispondere. Forse per imbarazzo. Forse per abitudine. È nato e cresciuto a Soubre, nella Sassandra a pochissima distanza dal fiume Bandame.

È scappato dal suo Paese per motivi familiari. «Avevo problemi con la mia famiglia. Problemi gravi, ma preferirei non dire niente di più». Una ferita forse ancora aperta. Eppure quando ripensa alla sua terra, il 18enne sembra tornare sui suoi passi: «Non mi trovavo bene in Costa d’avorio. Quello che oggi mi manca di più? Lo so che potrà sembrare strano, ma mi manca la mia famiglia. Sì, è vero sono scappato per loro, ma è pur sempre la mia famiglia». Sono abissi insondabili quelli nei quali l’amore e l’odio di Omar si sono intrecciati. Come la gioia e il dolore descritti da Kahlil Gibran. Forse tutto è cominciato quel 5 giugno 2016 quando è partito da Soubre. «Quel giorno non sono andato a lavorare: non ho neppure avvisato la donna con la quale vendevo scarpe che sarei andato via».

È un viaggio relativamente breve il suo: in due mesi attraversa il Burkina Faso, il Niger e poi la Libia. «Nel primo tratto eravamo oltre 120, negli ultimi chilometri in Libia eravamo solo 30. Non ci sono stati morti, ma la maggiorparte dei compagni di viaggio rimasero feriti per un sacco di ragioni diverse. Solo due ragazzi sono morti, pochi metri prima di salire sul barcone». Ironia della sorte: hanno perso la vita a qualche metro dall’imbarcazione che li avrebbe forse portati alla libertà. «Nell’ultimo tratto ci dissero che dovevamo correre a più non posso verso la barca: quei due ragazzi caddero e nessuno si fermò per aiutarli: furono schiacciati da tutti quelli che correvano dietro di loro».

Una volta a bordo, però, Omar capisce che il loro destino potrebbe non essere tanto diverso: «Nella cominciò da subito a entrare acqua. Qualcuno la raccoglieva, altri cercavano di tappare il buco. Pensai che era finita. Pensai che non c l’avrei fatta. Fino a quando non vidi la nave della Croce rossa e capii che la mia libertà era forse arrivata».

Omar e gli altri passeggeri vengono tratti in salvo: sbarcano prima in Sicilia e poi alcuni vengono portati a Taranto. Tra questi c’è anche lui. «Qui a Costruiamo Insieme mi sento libero: posso finalmente studiare. Per ora solo la lingua, ma te l’ho detto: vorrei essere un insegnante. Mi piacerebbe raccontare agli studenti il mio viaggio, la mia storia. E forse anche quella di Cristoforo Colombo e di quella scoperta meravigliosa che è stata l’America».  Omar sorride ancora. E alza gli occhi guardando in cielo,. Ricorda una vecchia canzone che parla di una America “lontana, dall’altra parte della luna”. Ma lui forse la intravede e continua a sorridere.

Migranti, diritti e regole da rispettare

«Penso che i migranti abbiano il diritto a essere accolti e a conoscere per rispettare le regole del Paese che li ha ospitati e quindi la sentenza della Cassazione è ottima se serve a fare chiarezza in questo senso». Nicole Sansonetti, presidente della cooperativa Costruiamo Insieme ha commentato positivamente la sentenza della Suprema Corte: «i giudici – ha spiegato Sansonetti – hanno sostanzialmente ribadito quanto nei centri di accoglienza viene spiegato ogni giorno: l’Italia è un Paese con le sue regole e vanno rispettate. Gli stranieri che in generale arrivano in Italia devono poter mantenere le proprie libertà, ma senza eccessi. Così, allo stesso modo i migranti hanno il diritto di trovare asilo e di veder rispettata la loro origine etnica, religiosa e di ogni altro tipo, ma se questa libertà incide su aspetti come la pubblica sicurezza allora è necessario che comprendano la situazione e si adeguino».
Nella sentenza emessa nelle scorse ore, la Cassazione ha stabilito che «in una società multietnica la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante».
Per la presidente di Costruiamo Insieme «i magistrati hanno evidenziato il divieto di portare con sé un kirpan, il coltello sacro per gli indiani sikh, non è il totale abbandono della propria cultura d’origine, ma semplicemente il rispetto di una regola che vige nel Paese in cui si è scelto liberamente di trasferirsi. Questo chiarisce che non ci sono violazioni dei diritti umani né religiosi o di altro tipo, ma semplicemente – ha concluso Sansonetti – la consapevolezza di aver scelto un Paese che ha regole differenti da quelle dei Paesi di provenienza e vanno rispettate»

Mamme che piangono

Oggi si festeggiano le mamme di tutto il mondo, per tutto quello che hanno dato e per tutto quello che danno. Tante, troppe mamme, hanno poco da festeggiare per tutto quello che è stato loro tolto.

Non la dignità e la bellezza dell’essere donne, non il mancato riconoscimento dei sacrifici di tutti i giorni e, neanche, le discriminazioni che ancora persistono anche nei Paesi che si autodefiniscono civilizzati.

Tante, troppe mamme non piangono per questo. Piangono per la cosa più grande che è stata strappata, derubata, brutalizzata, vituperata: la maternità, l’essere madre.

Il mio primo pensiero va a una donna che qualche giorno fa ha partorito su una spiaggia libica prima di salire su un gommone. Lo portava in pancia quel bambino e già per lui pensava ad una vita diversa dalla sua, pensava a un futuro, pensava al destino di quella vita che stava generando.

È morta su quella spiaggia. Non ha neanche visto quel figlio che ha generato e che, fra le braccia del padre, appena nato è salito su un gommone alla ricerca di una vita possibile.

Lei non può neanche piangere più!

Piange, invece, la mamma delle tre bambine-ragazze morte dentro un camper dato alle fiamme sempre qualche giorno fa. Quel camper era la loro casa ed è stata divorata dalle fiamme appiccate da qualcuno. Sono morte arse per scontare la colpa di essere rom.

Piangono, in questi giorni, le mamme delle 250 persone annegate e risucchiate dal cimitero liquido che è diventato il Mediterraneo.

Questa volta, nessuna ONG ha fatto in tempo a salvarle. Come tante altre volte succede.

E quel mare che per secoli è stato la strada degli incontri e degli scambi, della crescita e dello sviluppo, oggi è diventato una bacinella nella quale si riversano le lacrime di tante, troppe mamme.

Ascoltando e leggendo le storie di tanti migranti che, almeno durante il viaggio, hanno sfidato e vinto la battaglia contro la morte, non riesco a togliere dai pensieri l’immagine di Maria, la madre di tutte le madri, l’esempio vero di quanta sofferenza sia capace di sopportare una madre per amore del proprio figlio. Lasciandolo libero al suo destino o sacrificandosi perché abbia un destino.

Quanto avrà sofferto Maria durante i giorni della Passione di suo figlio? Pur sapendo che non era suo, per il solo fatto di averlo generato ha visto il frutto del suo grembo subire e sopportare una violenza corporale che nessuna mamma avrebbe potuto sopportare pur consapevole del destino, già scritto, del proprio figlio.

Ed è il futuro, oggi, a spaventare tante potenziali mamme e a produrre sofferenza in quelle donne che, al contrario, hanno scelto di essere mamme.

Preoccupazione per i propri figli, per quello che non smetterà mai di essere sangue del proprio sangue, perché le prospettive per stare al di sopra della sopravvivenza sono offuscate, grigie.

Mamme che lavorano e che, timbrato il cartellino, tornano a lavorare e non smettono mai.

Spinte dall’amore e da un estremo senso di responsabilità che non finisce mai, neanche quando i figli hanno quasi 50 anni. E che soffrono quando i figli, a quasi 50 anni, sono costretti a vivere nell’unico posto accessibile: la casa di mamma!

Mamme separate da padri privi di qualsiasi senso di responsabilità, costrette a fare salti mortali per non far ricadere sui figli gli errori degli adulti.

Mia madre che, almeno Maria sapeva fin da subito qual’era il destino di suo figlio, e lei non sa ancora qual è quello del suo.

A tutte le madri che, in quanto madri, non hanno mai staccato il cordone ombelicale, perché è impossibile, senza negare libertà ai propri figli, va un abbraccio forte che vale più di un mazzo di fiori.

Un pensiero anche a quanti hanno la possibilità di dare un bacio alla mamma e non lo fanno e a tutte le persone che questa fortuna non ce l’hanno.

Grazie mamme, tutti i giorni dell’anno, per essere mamme, lavoratrici e nonne.

Non solo oggi: perché siete mamme, mogli e nonne che senza di voi…

Il viaggio di Viera tra fede e lavoro

«Chi mi ha salvato la vita poi mi ha mandato via». La storia di Coulibaly Hamed Viera è una storia di amore e intolleranza, raccolti in un’unica vita. Anzi due. La sua e quella di suo zio: l’uomo che lo ha accolto, accudito e cresciuto quando Viera ha perso i genitori e poi per differenze religiose lo ha allontanato costringendolo a intraprendere un viaggio che dalla Costa d’Avorio lo ha portato fino a Taranto.

«Mio padre – racconta il 17enne – non l’ho mai conosciuto. Sono nato ad Abidjan, sulle rive dell’Oceano Atlantico Meridionale. Non ricordo nulla di quella città: avevo due anni quando mia mamma è morta e ho lasciato l’oceano e sono andato a vivere a Daloa, la terza città ivoriana. Dopo la morte di mia mamma è stato mio zio a venirmi a cercare e a portarmi nella sua casa. Mi ha accudito e mi ha mandato a scuola». Era felice Viera, non immaginava quello che una volta adolescente sarebbe accaduto. «La famiglia di mio zio è musulmana e non ha mai accettato che io fossi di religione cristiana: mi è stato chiesto più volte di convertirmi, ma io non ho mai voluto abbandonare la mia fede».

Viera è stato prima in Burkina Faso e poi in Niger fino a quando ha raggiunto le coste della Libia: «da lì mi sono imbarcato per raggiungere l’Italia: eravamo oltre 130 su quella barca, sono stati momenti terrificanti».

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È giunto a Taranto qualche mese fa, ospite della cooperativa Costruiamo Insieme: «Qui sto bene, sono tutti generosi con me, ma non voglio approfittare della gentilezza: ho voglia di costruirmi il mio futuro, non voglio stare con le mani in mano». Con la cooperativa ha iniziato a frequentare un corso di formazione: «mi piace perché mi aiuta a imparare la lingua e anche un mestiere: faccio teoria e pratica di edilizia e costruzioni e sento che quel lavoro potrà permettermi di avere una mia vita».

Vorrebbe rimanere in Italia Viera: «mi trovo bene qui, ma ti ripeto che voglio impegnarmi per lavorare: voglio crescere e dimostrare che anche io posso fare qualcosa di utile a questo Paese. Magari qualcosa di piccolo, ma anche le piccole cose servono per andare avanti».

Macron, fra speranza e fiducia

Il risultato delle elezioni del Presidente francese pone l’intera Europa di fronte ad un dato indiscutibile: le forze populiste non vincono, ma crescono. E così, con Macron Presidente si è allontano il tragico scenario di una interlocuzione con il Fronte Nazionale di Le Pen che, dopo la Brexit, avrebbe rappresentato un altro duro colpo per il processo di rifondazione auspicato per l’Unione Europea.

Macron è figlio di un nuovo corso, ha sovvertito tutti gli schemi che ingabbiavano la Francia in un bipolarismo ormai superato diventando il primo Presidente eletto senza avere alle spalle un Partito, una macchina organizzativa rodata. È espressione di un movimento, ma anche garante di un establishment politico finanziario nella culla del quale è cresciuto. I dati dell’astensionismo e le tante schede bianche lasciate nelle urne lanciano al nuovo Presidente un messaggio più che chiaro: è necessaria, anche in Francia, una politica incentrata sul cambiamento rispetto ai temi centrali nella vita del quotidiano, dalle politiche sociali alle scelte economiche. Il già rinsaldato asse europeo franco-tedesco dovrà partorire risposte efficaci sul rilancio economico dell’Unione Europea che non è affatto fuori dal vortice della crisi e ancora non riesce a costruire risposte di sistema al tema delle migrazioni.

«Si apre una nuova pagina – sono state le prime parole di Macron da Presidente – voglio che sia quella della speranza e della ritrovata fiducia. Mi rivolgo a tutti voi qualunque sia stata la vostra scelta – ha continuato – Non nego le difficoltà economiche, sociali, l’abbattimento morale». Poi, la promessa di «difendere e tenere unita la Francia difendendo il destino comune dell’Europa». I francesi saranno richiamati alle urne l’11 e il 18 giugno per il voto politico e in questa tornata Macron dovrà tentare di ottenere il maggior numero di seggi possibile sperando che il declino delle forze politiche tradizionali non sia stato solo un passaggio presidenziale. Solo in questo modo sarà possibile per Macron governare mettendo in campo il suo programma politico che, per quanto ambizioso, dovrà ora entrare nel merito delle questioni dopo una campagna elettorale incentrata sui gradi temi.

Certo, il tema della sicurezza in Francia inquina, per esempio, una riflessione costruttiva sul tema delle migrazioni: quale sarà la ricetta di Macron su questo argomento estremamente ostico? «Si apre una nuova era» ha ribadito ieri in piazza alle migliaia di sostenitori in festa. Noi lo speriamo e auspichiamo che inizi presto.

Auguri di buon lavoro, Presidente!