«A Sanremo, dico no!»

Emis Killa annuncia il ritiro dal Festival

«Dopo quindici anni di carriera ero pronto ad affrontare la rassegna canora italiana più popolare. Preferisco fare un passo indietro e non partecipare. A me è stato notificato esclusivamente il daspo, un atto amministrativo e non penale». «Sarà importante – conclude il giovane artista brianzolo – che l’indagine faccia il suo corso e la magistratura possa lavorare in serenità senza polemiche o pressioni»

 

Questione di ore, poi sarà Sanremo a tutto tondo. Già le reti Rai, che in questi giorni fagociteranno di tutto, hanno iniziato a pompare i nomi dei concorrenti che prenderanno parte alla settantacinquesima edizione del Festival della canzone italiana.

Una volta era la meta più ambita per chiunque di mestiere facesse il cantante. C’è stato un periodo che, di fatto, fece abbassare dolorosamente gli ascolti, quello nel quale i partecipanti si esibivano in playback. Avete presente: un cantante che si doppia da solo, la registrazione del brano va in onda e l’artista che muove, possibilmente a tempo, la bocca. Vasco Rossi spiazzò tutti, ai tempi di “Vita spericolata”: all’ultimo ritornello, invece di cantare mise in tasca il microfono che poi gli cadde per terra. Giusto per mettere un po’ di pepe a quell’edizione: come a dire “qui è tutto fasullo”.

Insomma, quella è stata un’edizione da dimenticare. Poi arrivò Baudo e mise le cose in chiaro. In realtà, lo anticipò Adriano Aragozzini sul quale nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Invece, ribaltò tutto, mise sottosopra i precedenti rituali, introdusse daccapo l’orchestra e portò fior di cantanti stranieri a cominciare dalla superstar, Ray Charles, proseguendo per Dee Dee Bridgewater, gli America, Miriam Makeba e Toquinho. Bel colpo. Ma di questo parleremo al prossimo giro.

 

 

PASSO INDIETRO

Stavolta parliamo di un fatto di cronaca che ha anticipato l’annuncio dell’intero cast da parte di Carlo Conti, presentatore e direttore artistico del Festival di Sanremo. Insomma, prima che tutto accada, Emis Killa, cantante, rapper, comunque un personaggio in vista in ambito musicale, fa sapere di aver rinunciato alla partecipazione alla popolare kermesse canora. Lo fa non senza un certo rammarico, su Instagram. «Dopo quindici anni di carriera – spiega – ero felice di affrontare il mio primo Sanremo; ringrazio Carlo Conti per avermi voluto, ma preferisco fare un passo indietro e non partecipare». Tanto di cappello. Sia chiaro, c’è una ragione che ha indotto il giovane artista a rinunciare. Magari qualcuno gli avrà consigliato che, forse, sarebbe stato meglio rinunciare per non “intossicare” un’edizione che si preannuncia molto chiacchierata, fatto sta che è andata così. Con un breve post, sempre su Instagram, Carlo Conti ha così commentato il ritiro del rapper brianzolo: «Prendo atto con rammarico della decisione di Emis Killa di ritirarsi da Sanremo; comprendo il suo stato d’animo che non gli consente di vivere al meglio e con serenità la settimana di musica al festival».

Emis Killa è finito nel registro degli indagati all’interno dell’inchiesta “Doppia Curva”, svolta dalla direzione distrettuale antimafia, sulla presunta presenza di criminalità organizzata nel contesto delle curve “ultrà” di Milan e Inter.

 

 

ACCUSA PESANTE

L’accusa indirizzata al rapper di Vimercate è quella di “associazione a delinquere”, con particolare riferimento alle sue amicizie con i fratelli Lucci e Fabiano Capuzzo, con cui gestisce una barberia a Monza. Lucci, che gli inquirenti definiscono come “un ambizioso uomo imprenditoriale”, sarebbe il capo ultrà della curva milanista. Buona parte dei guadagni dell’uomo sarebbe dipeso proprio dai contatti personali con il mondo dell’industria musicale italiana, tra cui quelli di Emis Killa e Fedez. Due fra le amicizie più importanti, che stando sempre a quanto indicato dagli inquirenti, gli avrebbero permesso di ottenere accordi per la gestione di concerti a livello nazionale e internazionale. Detto in soldoni, secondo le indagini: un’amicizia che sarebbe stata considerata scomoda per Killa. Per giunta, non l’unica. Sui diversi del popolare artista sarebbero state postate immagini coniugate a cosche calabresi.

Già lo scorso settembre l’abitazione del cantante era stata perquisita. Nel suo appartamento erano state rinvenute armi bianche (coltelli, tirapugni e un taser, una sorta di storditore elettrico).

Al cantante, e di questo la commissione del Festival era al corrente, era stato anche dato un daspo di tre anni, cioè un divieto all’ingresso degli stadi. Tifoso milanista, Killa era stato individuato tra le persone che avevano assistito al pestaggio di uno steward prima della partita Milan-Roma. Il malcapitato aveva commesso l’errore di non chiudere un occhio su un tifoso che non aveva il biglietto, impedendogli di entrare. L’artista che ha rinunciato a Sanremo non aveva altro a suo carico, ma tutto questo sbucato nuovamente alla vigilia della rassegna, è bastato a fargli compiere questo passo indietro: ve lo immaginate assediato, introdotto e tartassato per una intera settimana sempre dalla stessa domanda? A quel punto, meglio chiarire la sua posizione e poi ripresentarsi. Così, dopo aver appreso dai giornali di essere indagato, il cantante ha assunto la dolorosa decisione di non partecipare alla gara canora.

 

 

RINGRAZIO CARLO CONTI

«Dopo quindici anni di carriera – il suo messaggio – ero pronto ad affrontare il mio primo Sanremo; ringrazio Carlo Conti per avermi voluto, ma preferisco fare un passo indietro e non partecipare; apprendo oggi dai giornali che sono indagato – puntualizzo: a me è stato notificato esclusivamente il daspo, che è un atto amministrativo e non penale – e se questo corrisponderà al vero sarà importante che l’indagine faccia il suo corso e la magistratura possa lavorare in serenità senza polemiche o pressioni e circhi mediatici».

«Confido che tutto si risolva al più presto per il meglio – ha aggiunto l’artista – e spero di poter affrontare in futuro un Festival in cui ad essere centrale sia la musica, poter portare la mia canzone, parlare solo di quella e divertirmi, come avrebbe dovuto essere quest’anno e come è giusto che sia per tutti gli artisti che decidono di mettersi in gioco e partecipare alla gara». Detto del daspo, che sconterà nei prossimi tre anni (tre anni senza assistere alle gare del suo Milan), c’è una presunzione di innocenza. Molti avrebbero fatto carte false, figuriamoci; qualcuno avrebbe potuto cavalcare la notizia, farsi pubblicità, non del tutto positiva, sia chiaro, Killa ci ha pensato e ripensato. Poi ha deciso chiamandosi fuori, di rinunciare all’occasione della sua vita. Non è da tutti, così il primo applauso a Sanremo, che molti siano d’accordo o no, forse è proprio per lui.

«Taranto, quanti incroci…»

Red Canzian, i ricordi e il fascino subito come musicista e turista

Mercoledì scorso il bassista dei Pooh ha presentato al teatro Orfeo il suo ultimo libro. “Centoparole”, il titolo che in breve ha scalato le classifiche diventando uno dei più letti del momento. «Adoro la gente di qui, il sorriso, la loro generosità: non fosse stato per l’inquinamento industriale, questa sarebbe una delle città più belle al mondo, garantito». Più di trecento pagine. «Scelte con molta attenzione, con i miei lettori condivido parole ed emozioni…»

 

«Se non avesse avuto una industria inquinante, Taranto oggi, a pieno titolo, sarebbe una delle città più belle al mondo». Non lo dice per piaggeria Red Canzian, bassista dei Pooh, autore di canzoni, di un musical, “Casanova”, sbarcato in Cina, e di un libro, “Centoparole” (Sperling e Kupfer), diventato a passo spedito uno dei titoli più venduti del momento.

Canzian ha presentato la sua quinta opera letteraria al teatro Orfeo, invitato dai fratelli Di Giorgio, Adriano e Luciano, e da Carmine Fucci, direttore della libreria Mondadori di Taranto. «Penso che possa dire più di qualcosa su questa città – ha ripreso l’autore – che sento anche mia; ho girato l’Italia in lungo e largo, ma qui non ricordo più nemmeno quanti concerti ho fatto: teatro Alfieri, Mazzola, Maridipart, Iacovone, Palamazzola, perfino uno spettacolo accanto alla Concattedrale».

Taranto, una città per cantare. Ma anche per restarci da turista. «Amo questo angolo d’Italia, quando io e mia moglie Bea vogliamo rilassarci, non ci pensiamo due volte: Puglia». C’è un perché. «Non voglio passare per ruffiano, ma la gente qui è solare, generosa: dicono non sia una delle regioni più ricche d’Italia, ma sicuramente è la più bella, ti regala tutto quello che ha: il sorriso, la bellezza, la bontà dei prodotti della sua terra, perché la Puglia a tavola, non lo dico io, non si batte». Ogni volta che torna, non va mai via mani vuote. «Generosa, ecco: mi caricherebbero l’auto presa a noleggio di qualsiasi cosa, ma non ho spazio: regali, ninnoli dei quali faccio collezione, ceramiche, poi olio, vino, perfino pane; a malincuore ho dovuto rinunciare a più di qualcosa, non posso portarmi tutta questa roba in aereo».

 

 

«CANZONI, DONI DEL CIELO»

Al teatro Orfeo parla del suo libro e non solo. Non vorrebbe, ma viene tirato per la giacchetta: le canzoni. «Sono doni del cielo, noi che riusciamo ad intercettarle dobbiamo ritenerci fortunati: è come se usassimo una retina per catturare farfalle, stendiamo un braccio e ne catturiamo una, quando meno te lo aspetti».

Centoparole. «In un primo momento avevo pensato perfino a duecento parole, poi ho compiuto una dolorosa sottrazione: ho fatto tutto da solo, amici mi suggerivano ogni giorno uno, due temi, io invece avevo nella mente già il percorso che non era il racconto della mia vita artistica, ma una ricognizione nelle emozioni, una riflessione alla quale ho invitato i miei amici, quanti si sono avvicinati a questo mio libro». Parte con “Abbracci”, finisce con “Zante”. «Gli abbracci trasmettono passione, affetto, calore, penso sia il modo migliore per manifestare un sentimento; Zante, invece, è stato il nostro cane per quattordici anni, finì sotto la nostra auto, io e Bea, mia moglie, lo salvammo da una iniezione letale, lo sottoponemmo a tre interventi: un intellettuale, molto noto, che ha letto il mio libro si è complimentato per l’intero lavoro; unico, amichevole appunto: lui non avrebbe chiuso  il libro raccontando di una “bestia”: da lì ho capito che non aveva mai avuto a che fare con animali domestici; gli ho spiegato, tanto per essere chiaro: Zante non era una bestia, ma uno di famiglia».

 

 

«NON FARTI MANCARE I SOGNI»

L’amore, l’affetto dei genitori, gli inizi. «Più che del successo, parlo dei miei genitori che mi hanno sempre incoraggiato: eravamo poveri, ma non mi hanno fatto mai pesare un sogno che inseguivo fin da ragazzo che si iscrisse ad un concorso canoro, vincendolo». Divertente quando spiega il suo primo look alla Beatles. «Capelli lunghi, pantaloni attillati, scarpe col tacco, che in un primo momento il ciabattino del mio paese si era rifiutato di farmi: trovammo una quadra; certo per quei tempi, parliamo della metà degli Anni 60, l’immagine era eccentrica; trovammo un primo nome: i Prototipi; Pino Massara, musicista già noto, autore di successi, non era del tutto convinto di quel nome, così cambiammo: Capsicum Red lo convinse, lui ci mise del suo: siete stati in Inghilterra, venite dal rock britannico, tu sei il leader, Red Canzian! ». In effetti, cosa puoi dire ad un produttore che ti offre un contratto. «“Ocean”, il debutto, fu una sigla televisiva di un programma di Enza Sampò: papà e mamma telefonarono a mezza Treviso, fu la loro rivincita; poi arrivarono i Pooh, ma quella è una stoia un tantino più nota…»

Red Canzian: «Finalmente Taranto»

Mercoledì 29 gennaio alle 20.00, Teatro Orfeo

Il popolare artista torna in città, presenta il suo nuovo libro. «Non è un’autobiografia: faccio tesoro della mia vita, spiego momenti essenziali del mio percorso, non solo come musicista; accompagno il lettore a confrontarsi e riflettere sulle sue personali esperienze». I concerti all’Alfieri e al Mazzola, il rapporto con i suoi “amici per sempre”, Roby, Dodi e l’indimenticato Stefano

 

Red Canzian, grande artista, conosciuto “appena” cinquant’anni fa. Da allora non abbiamo più smesso di vederci, sentirci, frequentarci, anche per lavoro. Di cose ce ne sarebbero da raccontare. Lui stesso ha voluto che la presentazione del suo nuovo libro, “Centoparole  – Per raccontare una vita”, in programma mercoledì 29 gennaio alle 20.00 al Teatro Orfeo di Taranto, fosse una conversazione fra amici.

«Vorrei che nell’incontro specificassi – testuale il bassista dei Pooh, autore anche di un fortunatissimo musical, “Casanova” – che siamo amici da cinquant’anni e che la nostra chiacchierata andrà più in profondità grazie, appunto, a questa nostra profonda conoscenza…». I concerti dei Pooh al Teatro Alfieri, al Mazzola, allo Iacovone e in altre sedi, da Maricentro al Palamazzola, sempre pienone. Red e i Pooh, i suoi-miei “amici per sempre”, Roby, Dodi, l’indimenticato Stefano. Il privilegio di conoscerli non solo dal punto di vista artistico, ma anche dal punto di vista umano. Quando si dice “brave persone”. Ecco, i Pooh, sono davvero brave persone, impegnate nel loro lavoro come in altre attività, il sociale, per esempio. Fra queste, la beneficenza, avendo messo a disposizione di associazioni umanitarie anche il loro brand, una garanzia.

 

 

ALL’ORFEO, CENTOPAROLE

Dunque, “Centoparole” al Teatro Orfeo. Nasce da una telefonata e una promessa. «Ho l’agenda piena di impegni fino a dicembre – giustifica Canzian – quando partirò per Pechino, dove porterò in scena il mio “Casanova”: è la prima volta che un musical sbarca in Cina, incrocio le dita. Di Taranto ne parlo con la mia casa editrice, Sperling e Kupfler, troveremo una soluzione: non possono dirmi no, il libro con le sole prenotazioni è già primo in classifica».

«Questo libro – spiega Red, descrivendo “Centoparole” – non è un’autobiografia per raccontare la mia attività artistica, anche se spesso le parole inevitabilmente si incrociano con tutto quello fatto fin qui con i Pooh, e non solo: in questi cento brevi capitoli faccio tesoro della mia vita, della mia esperienza, spiegando parole essenziali nel mio percorso accompagnando il lettore a confrontarsi con le sue esperienze di vita; nonostante sia uscito da poco, alle presentazioni incontro gente che ha già letto il libro e mi confessa di essersi riconosciuto in diverse parole che poi diventano oggetto di riflessione: questo è lo scopo di “Centoparole”».

«Ho scritto “Centoparole” – prosegue Canzian, a proposito del suo libro – avvertendo intorno gente “dispersa”, senza sogni; il sogno, invece, è la molla che ha fatto scattare la voglia, mia e dei miei “amici per sempre”, nel fare questo mestiere; la nostra generazione, in realtà, ha qualche peccato da farsi perdonare: in alcuni casi quella voglia di sognare, ai ragazzi, non volendo gliel’abbiamo spenta proprio noi; credo, però, che sia necessario che i nostri giovani debbano provare ad affrontare la vita con positività, con il sorriso, senza considerare un fallimento come fosse un disastro: una delusione è solo un incidente di percorso dal quale ripartire con più voglia; del resto, lo racconto io, uno partito da zero, senza aiuti, senza quelle spinte oggi tanto invocate: ringrazio i miei genitori che mi hanno sostenuto nell’inseguire un sogno avuto fin da ragazzo, tutto il resto devono mettercelo loro…».

 

 

DALLA CINA CON SUCCESSO

Canzian, quando assume un impegno ci mette tutto se stesso: la registrazione di una canzone, i dettagli di un tour, che sia il suo o quello dei Pooh, il suo “Casanova”, messo in piedi con l’aiuto di Beatrice, sua moglie, Chiara e Phil, i suoi ragazzi. Il debutto in Cina. Legittima tensione prima della “prima”. Va tutto bene, anzi di più.

«E’ stato incredibile – racconta poche ore dopo l’esordio – al di là del teatro pieno e dalle dimensioni eccezionali: un successo strepitoso con una partecipazione incredibile da parte del pubblico; lo stesso direttore del teatro mi diceva che non aveva mai assistito a qualcosa di simile: le risate, gli applausi, cose che di solito qui, in Cina, non avvengono durante gli spettacoli: rispettosi delle rappresentazioni, non interrompono, ma applaudono solo alla fine: insomma, per una volta gli spettatori si sono lasciati andare e di questo sono felice». “Centoparole”.

E pensare che Red, il senso della vita, lo aveva espresso non con cento, ma con una ventina di parole. Poche, toccanti, all’uscita da una curva pericolosa della vita. «Mai come in questo momento – scrisse – sono affamato di vita e ho voglia, anzi, bisogno di voi, di incontrarvi e condividere con tutti emozioni lontane nel tempo e vicine nel cuore». 

Ebe, offeso e “condannato”

Akinsanmiro, calciatore, vittima di cori razzisti domenica scorsa a Brescia

Centrocampista della Sampdoria, ha risposto al pubblico che lo aveva offeso con la “danza della scimmia”. Ammonito per provocazione, sostituito dal suo tecnico per evitare scontri. “Non doveva rispondere in quel modo ai nostri tifosi”, dice l’allenatore dei padroni di casa. Sanzioni previste: solita ammenda e tiratina d’orecchie
 
Altro che calcio al razzismo. Gli episodi contro calciatori extracomunitari nel nostro calcio professionistico non accennano a diminuire. Nonostante le iniziative anche a livello internazionale promosse dalle istituzioni.
Ultimo episodio della serie, domenica, a Brescia, dove la squadra di casa ha affrontato la Sampdoria. Durante la gara, cori razzisti, “buuu” all’indirizzo di un calciatore ospite preso costantemente di mira, Ebenezer Akinsanmiro, venti anni, nigeriano. A “Ebe”, saltano i nervi, alza le braccia, non ne può più, si rivolge all’arbitro della gara, che fino a quel momento aveva lasciato proseguire l’incontro.
Interruzione del gioco e invito del direttore di gara a invitare dagli altoparlanti dello stadio quella parte di pubblico scorretto. La vendetta, dicono, è un piatto che si gusta freddo. E così per il calciatore africano arriva il momento di scaricare tutta la tensione accumulata fino a quel momento. 
 
 

 

“ORA BASTA!”

Per Ebe ecco la reazione. Magari in modo sproporzionato, ma a tratti, comprensibile. Visto che la Lega calcio anni fa aveva introdotto nel regolamento, mai applicato, sospensione della gara in corso e sconfitta d’ufficio per la società macchiatasi di “atti di razzismo” mediante il comportamento antisportivo dei propri tifosi.
Ebenezer, calciatore sampdoriano, stizzito per gli insulti e gli ululati razzisti ricevuti da una parte dei tifosi lombardi – scrive Fanpage.it – festeggia il gol dei liguri esibendosi in un balletto particolare, imitando una scimmia, mimandone la postura e il verso, battendosi che il petto. 
“Non puoi provocare così il pubblico – le parole dell’allenatore del Brescia, Pierpaolo Bisoli – non avevo sentito niente prima, ma a prescindere, è giusto avere rispetto”. Non sappiamo se le intenzioni dell’allenatore fossero quelle di ribaltare le colpe fino a coloevolizzre l’avversario, ma ci sembra un intervento incompleto. Mancano, comunque, le scuse a “Ebe”.
 
 

 

EBE, AMMONITO

Quel suo gesto impulsivo viene sanzionato con un’ammonizione. Considerata, inoltre, la tensione, l’allenatore dei blucerchiati ha deciso di sostituirlo così da evitargli conseguenze peggiori. 
Sul campo finisce 1-1, ma quanto accaduto a Brescia mette da parte l’esito sportivo e riaccende i riflettori sugli episodi di intolleranza che avvengono all’interno degli stadi.
“Sull’episodio e sull’arbitraggio non aggiungo altro, perché potrei risultare inopportuno…”, le ultime dichiarazioni rese al Giornale di Brescia da Bisoli. Cosa rischierebbe la società lombarda? Niente di particolarmente grave, che non sia scontabile con un’ammenda. Al solito. E… indietro così.
Nato in Nigeria il 25 novembre del 2004. La vita di “Ebe” cambia nel 2023, quando il 31 gennaio firma un contratto quadriennale con l’Inter, che per averlo batte la concorrenza di Liverpool e Real Madrid, per mandarlo in prestito alla Samp.

Cecilia, finalmente… 

Liberata la giornalista italiana fermata a Teheran

Trattative serrate, alla fine fra Iran e Italia viene raggiunto l’accordo. Tre settimane prigioniera nella capitale estera. Le telefonate fra la blogger e i genitori. Governo e Ministero degli Esteri in campo

 

È finito dopo tre settimane l’incubo vissuto da Cecilia Sala, la ventinovenne giornalista italiana chiusa in una cella in Iran, nel carcere di Teheran.
Ventuno giorni di tensione per i familiari della Sala e i diplomatici del governo italiano per portare a casa nel più breve tempo possibile la giornalista del Foglio.
L’arresto di Cecilia Sala lo scorso 19 dicembre in Iran, un fermo quasi ad orologeria: il giorno prima del suo ritorno in Italia. La giornalista viene bloccata dai pasdaran, a Teheran, dove si trovava con regolare visto per raccogliere sul posto materiale da pubblicare sul suo podcast (“Stories”).
Il suo fermo e l’avvenuta detenzione nel carcere di Evin, a Teheran, vengono resi noti solo dopo Natale, il 27 dicembre. Notizie ufficiali da parte del governo iraniano parlano solo di generici “comportamenti illegali”.

 

Foto Profilo Facebook

 

I PRIMI CONTATTI

Durante i primi giorni di detenzione, Cecilia Sala parla due volte con i genitori invitando chi si sta occupando della trattativa ad essere sollecito nel condurre il dialogo per il suo rilascio. Primo incontro con Paola Amidei, ambasciatrice italiana in Iran. La conversaziine dura mezz’ora. “È in buona salute – le prime dichiarazioni ufficiali rilasciate dal ministro degli Esteri Antonio Tajani riportate dall’Ansa –  Cecilia è in una cella da sola, a differenza della giovane Alessia Piperno che, invece, nella sua detenzione era in cella con altre persone che non parlavano nessuna lingua se non la loro; adesso riceverà attraverso il Ministero degli esteri dell’Iran, su consegna della nostra ambasciata, beni di prima necessità”.
I pacchi con i beni, però, non sono ammessi e in una successiva telefonata con la famiglia, Cecilia dice che sta dormendo a terra senza materasso, con una coperta contro le fredde notti iraniane e senza gli occhiali per leggere o per ripararsi dalla luce sempre accesa.
Sono le condizioni cui è sottoposta la giornalista a fare accelerare anche interventi politici, attività social e manifestazioni di solidarietà in tutto il Paese.

 

 

ARRIVA L’ACCELERATA

Ancora un’accelerata: Tajani convoca alla Farnesina l’ambasciatore iraniano, mentre la premier, Giorgia Meloni, un vertice a Palazzo Chigi. Fino al 3 gennaio, quando l’ambasciatrice italiana, Paola Amadei, viene ricevuta al ministero degli Esteri di Teheran.
Renato Sala e Elisabetta Vernoni vengono ricevuti a Palazzo Chigi dalla premier che assicura il massimo impegno per riportare a casa la giornalista. A sorpresa, lo stesso 2 gennaio, la premier vola a Mar-a-Lago per incontrare il presidente americano Donald Trump.
Lunedì 6 gennaio, giorno dell’Epifania, la portavoce del governo di Teheran afferma che l’arresto di Sala non vuole essere una ritorsione del suo Paese per il fermo di Mohammad Abedini Najafabad.
Infine una nota di Palazzo Chigi. Annuncia la liberazione di Cecilia Sala, non appena l’aereo che riporta a casa la giornalista si alza a volo da Teheran.

Un dramma dopo l’altro

Venti migranti dispersi, un attentato e l’arresto di una giornalista italiana

Il nuovo anno non si presenta nel migliore dei modi. A largo di Lampedusa un “barchino” si inabissa, venti migranti dispersi, salvi sei persone e un bimbo. Un ex militare americano si lancia a bordo di un mezzo e compie una strage (quattordici finora le vittime accertate). Infine, in Iran una cronista è reclusa dallo scorso 19 dicembre. Si fa il possibile per ricondurla in Italia

 

Non una, ma più storie, a sfondo drammatico si intrecciano fra loro. Il 2025 si apre con una tragedia, un film già visto, come l’affondamento a largo di Lampedusa di un barcone con a bordo numerosi extracomunitari alla ricerca di una vita migliore. E poi, fine 2024, l’arresto di Cecilia Sala, la giornalista italiana fermata a Teheran lo scorso 19 dicembre per aver “violato la legge della Repubblica islamica”, secondo il governo iraniano. E, ancora, altra tragedia, fine anno, New Orleans: un uomo, ex militare americano, a bordo di un’auto si lancia sulla folla ammazzando almeno quattordici persone e ferendone decine, la matrice secondo agenzie americane sarebbe di matrice terroristica. Ci sarebbero altri fatti, ma questi, per lo spazio di cui disponiamo, bastano e avanzano.

Cecilia Sala, la giornalista italiana arrestata in Iran il mese scorso, ha rivelato alla sua famiglia le condizioni in cui è detenuta. Vive in isolamento, non vede nessuno, neppure le guardie che la terrebbero sotto controllo. Gli alimenti le vengono somministrati attraverso una fessura dalla porta d’accesso alla sua cella. Non dispone di alcun materasso, ma solo due coperte: la prima le serve da appoggiare a terra, per dormire, la seconda per ripararsi dal freddo.

 

 

LE AGENZIE DI STAMPA

Fra le ultime notizie diffuse dalle agenzie giornalistiche italiane, fra queste l’Ansa, non corrisponderebbe al vero la notizia secondo la quale la giornalista avrebbe ricevuto generi alimentari, prodotti per l’igiene e libri, che non avrebbe potuto leggere avendole sequestrato gli occhiali da vista.

I genitori di Cecilia, in costante contatto con la figlia, descrivono la figlia molto provata, che ha ripetuto loro che “occorre fare molta fretta”. Cecilia Sala è in isolamento completo da poco più di due settimane nel penitenziario di Evin, nella periferia della capitale iraniana.

Finora Cecilia ha incontrato solo l’ambasciatrice italiana in Iran, Paola Amadei, per una mezz’ora. Secondo notizie diffuse dal sito, “la cella d’isolamento è un sistema di detenzione usato per punire i detenuti: non vedere nessuno per periodi di tempo prolungati genera sofferenza, ansia e una forte sensazione di disagio. Questo tipo di detenzione, vale a dire in regime di isolamento, rappresenta da tempo immemore uno strumento di pressione psicologica sui prigionieri. Dalla vicenda si attendono sviluppi a breve, in quanto i vertici del governo in queste ore hanno convocato l’ambasciatore dell’Iran in Italia.

 

 

USA NEL PANICO, ATTENTATO

Fino a ieri sera, il bilancio era di quattordici morti con un numero elevato di feriti. Il presidente americano Joe Biden conferma, che Shamsud-Din Bahar Jabbar, ex militare Usa, responsabile dell’attacco in pieno centro a New Orleans, era “cittadino americano, aveva prestato servizio nell’esercito Usa ed era stato nella riserva fino a qualche anno fa”.

Biden ha inoltre aggiunto che l’autore della strage sarebbe stato “ispirato dall’Isis e che gli investigatori continueranno a cercare qualsiasi connessione o complice: le forze dell’ordine stanno indagando se l’attacco col pick-up a New Orleans è collegato in qualche modo all’esplosione di un Tesla Cybertruck davanti al Trump Hotel a Las Vegas, che ha causato la morte di una persona”.

Fra le notizie, la diffusione di un video da parte di Jabbar in cui fa riferimento al suo divorzio. Pare che inizialmente avesse pianificato di riunire la sua famiglia per una “festa” con l’intenzione di ucciderli. Questo è quanto dichiarato da due funzionari informati sulle registrazioni.

 

 

VENTI DISPERSI, CI RISIAMO

Infine, ma non minore per importanza, ma solo rispettare la cronologia degli episodi, l’incidente in mare del “barchino” che una volta inclinatosi avrebbe rovesciato in mare decine di migranti. Venti i dispersi, fra questi un bambino. Stando a un ricostruzione svolta nelle ultime ore, una ventina di persone sarebbe caduta in mare. Tutto questo, a circa 20 miglia dalle coste libiche.

Sei migranti adulti (due siriani, due sudanesi, due egiziani) hanno dato la loro versione dei fatti. Il “barchino” salpato dalla costa libica, lunedì sera, per giungere a Lampedusa con i sette migranti superstiti al naufragio (fra questi, un bimbo siriano di otto anni).

Dopo che il “barchino” di circa metri è salpato, dopo circa quattro ore di mare aperto, ha cominciato a imbarcare acqua. E’ stato in quel momento che le ventisette persone a bordo, hanno cominciato ad agitarsi. “Non abbiamo capito più niente, eravamo tutti in preda al terrore; la barca si è inclinata e molti sono caduti in acqua”. Venti le persone finite in acqua, fra queste: cinque donne e tre minori. Con aereo è stata pattugliata l’area. L’esito, purtroppo, si è rivelato negativo. I superstiti si allontanati velocemente a causa di una forte corrente del mare. E’ quanto i sei uomini superstiti e un bimbo di otto anni, hanno confermato anche una volta a bordo del traghetto di linea che li ha sbarcati a Porto Empedocle.

«Ragazzi, inseguite i sogni»

Tijjani, da ciclofattorino ad Amsterdam a stella del calcio nella capitale

Noslin, elemento di punta della Lazio, ha iniziato facendo il rider. «Volevo crescere, il mio pensiero fisso era diventare un professionista. Mi ha aiutato mia madre, poi una leggenda dell’Inter, Wesley Sneijder, cominciò a prendersi cura di me. Prima nell’Ajax, poi a Verona, infine a Roma». La tripletta al Napoli di Conte in Coppa Italia lo ha posto all’attenzione dei grandi club

 

«Lavoravo sotto la pioggia, ma anche quando nevicava; il mio compito era quello di preparare panini: facevo le consegne in scooter, in auto o in bici; ero io ad aprire e chiudere l’attività, lo facevo però pensando che non era proprio quello che avrei voluto fare nella vita; professionale ero professionale, ma avrei voluto crescere, diventare un calciatore professionista: non nascondo, però, che a volte ho avuto paura che il mio sogno non si avversasse, insomma che non ce l’avrei fatta, ma è stata la fede in Dio ad avermi aiutato nel viaggio della vita».

Tijjani Noslin, calciatore olandese nato ad Amsterdam, proveniente da una famiglia giunta in Europa dal Suriname, stato indipendente dell’America meridionale.  Così si è raccontato Tijjani prima di diventare un giocatore professionista, al Corriere della Sera. Fino a poco tempo prima si era guadagnato da vivere facendo il rider per Subway, una nota catena di fast food olandese. «So cosa significa essere dall’altra parte – riprende il venticinquenne calciatore della Lazio – lavorare duramente tutti i giorni; mi dico sempre che non voglio tornare indietro: voglio dare tutto quello che ho fino alla fine della mia carriera, infine guardare indietro e vedere che la mia è stata una bella storia».

 

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FORZA LAZIO!

Oggi Tijjani è uno degli elementi più rappresentativi della Lazio. Fino a quattro anni fa preparava panini in un fast food a pochi isolati dallo stadio dell’Ajax, la sua squadra del cuore: non è diventato calciatore per caso, forse da piccolo non era ancora il suo chiodo fisso, ma più avanti lo è diventato, tanto da martellargli la testa. Forse, a fargli cambiare decisamente idea, cioè a convincerlo che è il calcio il suo “lavoro”, la clamorosa tripletta in Coppa Italia inflitta al Napoli di Antonio Conte. Un percorso, il suo, non proprio rose e fiori. Per farcela, giungere a certi livelli, occorre sudare sodo. «Mai arrendersi – racconta – quando ero nelle giovanili dell’Ajax, a causa di un errore amministrativo, non poterono tenermi; da quel momento mia madre ha contattato letteralmente tutti i club professionistici olandesi per segnalargli il mio nome».

Le cose non andarono subito bene. «Dicevano che ero troppo gracile fisicamente; non navigavamo nell’oro, tutt’altro, per gli standard olandesi non rientravamo nella categoria benestanti: mamma ha sempre combattuto molto con quel poco che aveva». Dopo attesa e sacrifici, tanti, la svolta, nel 2020. «Nell’estate del Covid finii al DHSC, quinta serie olandese, una squadra sconosciuta; non avevo grandi aspettative, l’importante a quel punto era giocare al pallone; ben presto scoprii che era il club di Wesley Sneijder».

 

 

GRAZIE WESLEY!

Tijjani cominciò a segnare gol a raffica, facendosi notare dalla leggenda dell’Inter del Triplete che promise a sua madre di aiutare personalmente il ragazzo. Tramite la conoscenza del proprietario del Fortuna Sittard, Sneijder diede la possibilità al classe 1999 di spiccare il volo in un club professionistico. Poi, a gennaio 2024, il trasferimento al Verona di Marco Baroni con cui conquistò una salvezza sul filo di lana. Oggi i due lavorano ancora insieme, ma alla Lazio. Dalla quinta serie olandese, il sogno di Tijjani vola in Europa League.

«Voglio far vedere a tutti quello che so fare – dice oggi il giovanotto ormai più di una promessa – naturalmente quando sei nella tua città ti vengono a guardare molti amici, lo stesso parenti e conoscenti a cui vuoi mostrare sempre qualcosa in più; ovviamente darò sempre tutto e lo farò anche contro l’Ajax, ma la cosa più importante è vincere le gare, non importa come, se con i miei gol, i miei assist…». La vita è maestra, Noslin conferma. «Se hai attraversato periodi difficili fin da piccolo, questo può aiutarti; quanto impari per strada puoi trasferirlo anche nel calcio». 

Orecchiette, Bari insorge

Le pastaie, attaccate da tv e food blogger, minacciano uno sciopero

Le accuse: opererebbero senza considerare norme igieniche. Qualcuna avrebbe spacciato prodotti industriali per “fatti a mano”. «Nessuna truffa: sono orecchiette essiccate artigianalmente, per una questione di igiene», assicura Nunzia, la star della Città vecchia. «E’ nostro preciso impegno tutelare una tradizione che risale ai nonni dei nostri nonni: le artigiane potranno essere accompagnate dall’Amministrazione comunale in un percorso virtuoso», dice Vito Leccese, sindaco del capoluogo

 

Siamo stati fra i primi a scrivere di Bari vecchia e delle orecchiette. Poi è arrivata la superstar delle “orecchiette fatte in casa”, Nunzia. Infine, alla più veloce pastaia di Bari vecchia, abbiamo dedicato un ampio servizio nel quale scrivevamo che la sua specialità “fatta rigorosamente a mano” aveva conquistato anche l’India. Infatti, uno degli uomini più ricchi al mondo, Anant Ambani, aveva invitato Nunzia a prendere parte alla cerimonia prenuziale (con la fidanzata Radhika Merchant), inserendo nel menu previsto le orecchiette “made in Puglia”. Con tanto di presenza di Nunzia, a vista, proprio nella località indiana prescelta dal miliardario per mostrare non solo la manifattura, ma anche come venissero realizzate le orecchiette.

Ma veniamo alla notizia, anzi “alle notizie” che circolano in queste ore. Perché se è vero che Nunzia sia stata oggetto di una multa, anche a seguito di una trasmissione televisiva della Rai, è anche vero che la pastaia numero uno di Bari vecchia, insieme con le colleghe, abbia minacciato una sorta di stato di agitazione. Il suo e l’altrui impegno, in buona sostanza, sarebbe quello di promuovere non solo un brand (le orecchiette), la stessa Bari e la Puglia. Insomma, Comune e Regione, detta in soldoni, dovrebbero perfino intervenire in solido a riconoscere l’aspetto pubblicitario esercitato dalle pastaie baresi.

 

 

DIFENDIAMO IL BRAND

E poi, un risvolto, che ha provocato grave disagio alle maestranze. Nei giorni scorsi sono stati trovati cartoni smaltiti nella raccolta rifiuti nei quali erano state contenute “orecchiette industriali”. Da qui il sospetto, mai concretizzatosi in denuncia, che qualche pastaia giocasse qualche brutto scherzo a baresi e turisti, che avrebbero acquistato “orecchiette fatte a mano” allo stesso prezzo delle “orecchiette industriali”. Una furbata, ai danni di chi, invece, fa questo lavoro per “guadagnarsi la giornata” (ad onore del vero non sappiamo se, più o meno, rilasciando regolare scontrino con tutto quello che ne consegue).

Le orecchiette fatte a mano e vendute nei vicoli di Bari vecchia, erano finite negli spot di noti stilisti, come riporta l’Agenzia giornalistica Ansa, continuano a far discutere. In questi anni, tanto per gradire, hanno fatto bella mostra sulla prima pagina del New York Times, ma non per giovarsi di benefici, bensì in seguito alla vendita dei “manufatti” senza scontrino, né lista degli ingredienti. Praticamente, dopo quella strapazzata internazionale, in questi ultimi giorni le famose orecchiette di Bari vecchia tornano sotto i riflettori. Ci sarebbe il sospetto che queste non siano davvero tutte fatte in casa, ma che alcune siano industriali, e cioè acquistate all’ingrosso e spacciate ai turisti per “orecchiette fatte a mano”.

 

 

BLOGGER “SCATENATI”

Fra i dubbi, quelli sollevati da “food blogger” che hanno parlato e scritto di «scarse condizioni igieniche in ristoranti improvvisati in case private». Da qui la risposta piccata e di forza promossa dalle pastaie hanno deciso di organizzare uno sciopero.

E Nunzia? E’ fra le prime ad intervenire in soccorso alla categoria. «Non c’è nessuna truffa – ha spiegato all’Ansa – sono orecchiette essiccate artigianalmente, fatte a mano: dobbiamo farle seccare per una questione di igiene; i turisti che visitano la Città vecchia e acquistano i nostri prodotti, le portano a Parigi, in America, e naturalmente hanno bisogno di quelle ben secche, perché sono resistenti e non si guastano nel trasporto». Il rischio avanzato dalle pastaie dalle è il pericolo-muffa. «Cosa dobbiamo fare – domanda alle autorità la produttrice di orecchiette più famosa al mondo – rinunciare a questo lavoro, a questa tradizione pluriennale? Dateci disposizioni, noi siamo pronte ad accoglierle perché vogliamo lavorare in maniera serena».

 

 

NUNZIA E IL SINDACO

La risposta del sindaco di Bari, Vito Leccese, non si è fatta attendere. «E’ nostro preciso impegno – ha dichiarato – tutelare una tradizione che risale ai nonni dei nostri nonni: la strada delle orecchiette esercita un richiamo turistico straordinario perché è sempre stata fino ad ora testimonianza di autenticità; tutto questo va salvaguardato, unitamente alla tutela dei consumatori e degli acquirenti: le artigiane di Bari vecchia potranno essere accompagnate dall’Amministrazione comunale in un percorso virtuoso che consenta di tenere in vita tradizione, appeal turistico e rispetto delle regole».

Per la cronaca. La protesta è durata mezza giornata. Una volta incassate rassicurazioni da parte dell’Amministrazione cittadina, le “orecchiettatrici” sono tornate al lavoro. Per la gioia dei baresi, dei turisti e del brand “Made in Bari”. 

Rayan, un altro brutto addio…

Diciassette anni, origini tunisine, stroncato da una grave patologia

Studiava al “Polo 3” di Fano, istituto frequentato da altri due studenti, deceduti all’inizio dell’anno scolastico. Francesco, venti anni, anche lui morto a causa di una patologia, e Tommaso, quattordici anni, stroncato da una crisi cardiaca. I compagni, i professori, la dirigente scolastica e i ricordi, i palloncini colorati liberati nel cielo per l’ultimo saluto

 

I ragazzi non vedranno più un compagno di scuola vivace, amabile, con quel sorriso così contagioso e quella pettinatura così moderna da farne uno dei compagni che certamente non passavano inosservati. Era l’amico degli amici, un sorriso e una parola per tutti, una pacca sulla spalla se sorriso e parole non erano state sufficienti. Anche per questo, Rayan farà sentire la sua mancanza.

«Rayan, un ragazzo sensibile, sempre pronto ad aiutare». E’ il sentimento che accomuna studenti, compagni di classe, i professori, la dirigente scolastica Eleonora Augello. E’ stata proprio lei ad esprimere il cordoglio dell’istituto nei confronti del diciassettenne di origini algerine scomparso a causa di una forma di epilessia che resisteva alla somministrazione di farmaci. Il calvario di Rayan è durato più di un mese, fino quando il ragazzo non è entrato in coma per non uscirne più.

La dirigente scolastica, insieme con professori e studenti, in occasione della scomparsa del diciassettenne hanno ricordato altre due tragedie accadute nello stesso Polo 3 di Fano (Ancona): Francesco, morto a venti anni, anche lui causa di una patologia, e Tommaso, quattordici anni, scomparso per un improvviso attacco cardiaco. Da non crederci. I ragazzi non facevano in tempo a riprendersi da uno choc che, dopo poco, dovevano dire addio ad un altro compagno di scuola. Una sorte che in pochi mesi si era abbattuta su quella stessa scuola.

 

 

PRIMA DI LUI FRANCESCO E TOMMASO

Rayan era stata l’ultima vittima, prematuramente scomparsa. Origini tunisine, il ragazzo era frequentava il secondo anno dell’indirizzo “Web Community”. Fino all’inizio dell’anno scolastico aveva condotto una vita normale. Conviveva con saltuari attacchi epilettici, ma nulla lasciava intendere che il povero Rayan, strappato all’affetto dei suoi cari, dei suoi compagni di classe, potesse accusare attacchi così gravi da strapparlo alla vita.  Invece, una crisi improvvisa lo ha spinto a un immediato ricovero nell’ospedale “Salesi” di Ancona. E’ lì che è stata formulata la dolorosa diagnosi: «Ryan ha una forma rara di epilessia, che purtroppo resiste ai trattamenti farmacologici cui è sottoposto». Le condizioni del ragazzo erano peggiorate, tanto che i medici dell’ospedale marchigiano avevano sollecitato il trasferimento al “Bambin Gesù” di Roma, una soluzione che rappresentava anche l’ultima speranza per il malcapitato. Nonostante gli sforzi dei medici dell’ospedale della capitale, per Rayan non c’è stato nulla da fare.

I compagni del Polo 3, dopo la notizia, si sono incontrati allo Sport Park, per ricordare un compagno che non c’è più. Il terzo in pochi mesi, come se sulla scuola in provincia di Ancora si fosse abbattuta chissà quale sciagura. Mentre qualcuno cominciava ad interrogarsi sul perché tre decessi in così breve tempo e nello stesso istituto, la drammatica spiegazione. Motivi di salute. «I ragazzi sono profondamente colpiti – aveva detto la dirigente scolastica – non è semplice metabolizzare la morte di tre compagni in così poco tempo, un destino inaccettabile, specie se maturato in giovane età».

 

 

UNO CHOC DOPO L’ALTRO

La notizia della scomparsa del ragazzo di origini tunisine l’aveva comunicata alla scuola la stessa mamma dello sfortunato studente. Un nuovo choc, si diceva, per gli studenti del “Polo 3” che dallo scorso settembre a dicembre di quest’anno hanno detto addio a tre compagni: Francesco, venti anni, all’ultimo anno scolastico, morto a settembre dopo una lunga malattia. Pochi giorni dopo, altro decesso, stavolta era toccato a un quattordicenne, Tommaso, deceduto improvvisamente a scuola per una patologia cardiaca. Infine Rayan, origini tunisine, residente in provincia insieme con la famiglia: mamma, padre pescatore e un fratello, più piccolo, anche lui studente nello stesso complesso scolastico.

«Con Rayan – ricordano i compagni – non era complicato fare amicizia, anzi era spontaneo creare un’amicizia importante».  «Eravamo convinti che si sarebbe ristabilito, nessuno si aspettava che, invece, ci lasciasse». «Alcuni di noi hanno lanciato le prime idee su come ricordare i suoi occhi, il suo sorriso, davvero: al Lido, forse, un posto bello e tranquillo, magari per portare dei palloncini da liberare nel cielo perché questi raggiungano Rayan, il nostro compagno, il nostro amico che non c’è più…».

Again, emozione Pino Daniele

Scomparso dieci anni fa, sbuca un delizioso inedito

Merito dei figli Alessandro e Sara, che concedono la “prima assoluta” al “Maradona”, una volta San Paolo. Un’emozione per cinquantamila spettatori. Non si contano gli applausi. Lo stesso gli aneddoti legati alla sua lunga storia. Grande musica, grandi emozioni, tanta educazione e tanto rispetto. Napoli Centrale, Massimo Troisi, Tullio De Piscopo, un concerto a Maricentro poi programmato per “Mister Fantasy”, trasmissione-cult di Raiuno

 

«Camminerai ed io sarò davanti al tuo respiro, insieme». E’ l’inizio di “Again”, brano inedito di Pino Daniele. E’ una domenica di calcio, a Napoli, così si suggella il fortissimo legame tra Pino Daniele e il San Paolo, come si chiamava lo stadio di Napoli ai tempi del grande cantautore scomparso dieci anni fa.

Questo brano, “Again”, ritrovato già cantato e mixato da Pino Daniele e dai figli Alessandro e Sara, è stato programmato dall’impianto audio dello stadio dove Pino si esibì in concerto per regalare una nuova emozione ai cinquantamila tifosi napoletani che sono lì per assistere a una partita casalinga della squadra allenata da Antonio Conte. La squadra azzurra gli farà onore.

Quando si parla di Pino, non è un caso che a quanti lo hanno amato tornano in mente episodi, aneddoti. La sua storia passa dalla Puglia, ma anche da queste parti, da Taranto. La sua è una storia che comincia presto, nessuno sa dove la sua passione per la musica e la chitarra potranno condurlo. Intanto macina chilometri, poi si vedrà.

 

GLI INIZI…

Va su è giù per l’Italia. Nonostante le sue prime canzoni siano scritte e cantate in napoletano. Pino, fin da giovane ama spettinare i giochi, ha scelto il dialetto per dire da che parte lui sta. Evidenti le tracce di Napoli Centrale, esperienza che più di altre, parole sue, lo formerà come artista. Quarantasette anni fa, le prime sue cose, i suoi primi dischi. “Terra mia”, il primo album, poi i concerti. Primo incontro con l’artista di “Je so’ pazzo” all’Hotel Imperiale, in via Pitagora a Taranto. Alle spalle le già popolari “Napule è” e “’Na tazzulella e’ cafè”. Gli tocca la Villa Peripato, concerto all’interno della Festa dell’Unità. Quel piccolo albergo di fronte alla location che lo ospiterà un paio di ore dopo, è l’ideale.

«Era sotto la doccia, scende subito», dice il portiere. Niente telefono in camera, solo il citofono. Pochi istanti dopo, arriva Pino, capelli ancora bagnati. Addosso un accappatoio amaranto, in una mano un asciugamano dello stesso colore. Lo sfrega forte sulla sua chioma, ancora nera, ancora bagnata.

«Scusate se sto ancora così, sono arrivato tardi, fra poco faccio le prove, devo recuperare tempo…». Gentile, mette una sottile fretta. Appunti stesi su un foglietto. Sono le domande da porgli, troppe, superiori al numero sindacale. La curiosità di accendere il primo riflettore sul carattere e la musica di questo giovane artista è tanta. Sorride Pino, ciondola il capo, accelera mano e asciugamano sui capelli, come se con quel gesto volesse accelerare. «Tutte quelle domande? Azz, e quando ci sbrighiamo? Jamme, va…». Prima cominciamo, prima finiamo.

 

 

SILENZIO, PARLA PINO…

Tutto sta nello spaccare subito i giochi. Parte il “Nagra”. «La mia esperienza più bella, quella con Napoli Centrale; conoscere Mario Musella e suonare con James Senese è stata proprio ‘na bella storia; poi, ma non lo dico perché sto in Puglia, mi piacciono le canzoni di Matteo Salvatore, trovo affascinante il suo mondo».

Estate ’82, sceglie la Puglia, Taranto, Maricentro. Ha già suonato e suonerà ancora in città: Villa Peripato, già detto, poi Mazzola, Iacovone, Circolo Ilva, Tursport e Ippodromo Paolo VI. Nel casermone di Maricentro registra il concerto “Bella ‘mbriana”. E’ uno special per Mister Fantasy, trasmissione-culto di Raiuno. Carlo Massarini, Luzzatto Fegiz e così via. Con lui, cappellone larghe falde e sax, c’è anche Gato Barbieri. Altro regalo all’artista napoletano nel frattempo diventato immenso. Nel pomeriggio, Pino confessa la sua fuìtina da Napoli. «Amo la mia città, i quartieri spagnoli che hanno ispirato le mie prime canzoni, ma non posso più viverci: ti cercano, ti acchiappano, ti fermano, ti invitano, ci restano male se non vai a una festa: così rischi di diventare l’icona di te stesso, non potevo più lavorare; così, non senza dispiacere, ho scelto Roma, una dimensione diversa: lì di cantanti e attori ne vedono a decine ogni giorno; sei solo la figurina di un album: esco con mia moglie, i figli, nun te caca nisciuno…».

 

«SI STA ESERCITANDO»

Quando lo incontri, che sia Lecce, piuttosto che Brindisi o Bari, la storia è sempre la stessa. «Si sta esercitando alla chitarra», anticipa uno dei suoi collaboratori. «Un po’ di pazienza, ma non appena finisce di suonare, può bussare…». Toc toc, «Chi è?». Amici. «Avanti! Scusate, mi stavo allenando in un passaggio…». Si scusa, Pino, un insegnamento per gli artisti piccoli piccoli, educazione e rispetto non si comprano. Si allenava almeno dal ’77, da quando lo incontrammo la prima volta. «Non mi accontento di essere l’unico a poter cantare le mie canzoni, voglio diventare un grande chitarrista, comunque affinare una tecnica che penso sia già a buon punto», confessò. Un perfezionista, un metodico. E un buono. Scrisse con Fabio Concato, “Canzone per Laura”. Al collega regalò una delle sue chitarre più preziose. In un altro momento, ce lo confessò lo stesso autore di “Domenica bestiale”. «Gli dissi “Ti piace? Che aspetti, pigliatélla, prenditela, se no ci ripenso”».Aveva un cuore grande così, Pino. Talmente grande da giocargli brutti scherzi. Per il suo amico Massimo Troisi non aveva solo scritto “Quando” e “Qualcosa arriverà” per farne colonne sonore di film di successo. Condivise “O’ ssaje comme fa’ ‘o core”. In quest’ultima canzone, Pino suona e canta, Troisi recita. «Con Massimo ci unisce il cuore, siamo due generosi, ma ogni tanto questo muscolo, piccolo come un pugno chiuso ci fa piglia’ paura». L’attore accusa spesso problemi cardiaci, Pino ha appena subito una delicata operazione, proprio nello stesso ospedale in cui era già stato operato Troisi. «Per un po’ devo limitarmi a fare dischi», ci raccontò Pino. Chiamava ancora così ostinandosi gli album che da tempo erano diventati cd. L’operazione gli aveva abbassato il volume della voce. «Concerti non ne posso fare, in questo momento devo stare a riposo, posso limitarmi ad entrare in studio: dalle corde della chitarra sono passato ad esercitare le corde vocali, devo tornare a lavorare sulla voce, applicarmi con pazienza per ottenere il massimo con il minimo sforzo».

 

 

PINO, IL RITORNO

Tornò ai concerti, partendo da un’atmosfera acustica, lanciato in un unpluggedromano firmato dalla sua nuova casa discografica, la CGD. Aveva da poco lasciato la Emi. C’era qualcosa che lo contrariava. «Non condivido le compilation, artifici di discografici che non rispettano il tuo lavoro: pubblicano raccolte che non hanno capo né coda, come “il meglio di…”: ma chi lo dice che quello sia il meglio, poi le raccolte d’amore, non mi ci far pensare che è meglio…».

A proposito d’amore, un’altra volta con Pino. Con lui il figlio Alessandro. Gli faceva da personal manager. “Ale”, discreto, educato all’inverosimile, niente a che fare con altri figli d’arte. «Sono un cantautore», giustificò Pino, «quando stavo a Napoli raccontavo vicoli, disagio, storie e personaggi, ora che sono innamorato scrivo canzoni d’amore». Un’astuzia, un colpo di tacco, Pino. «…Beh, quello me l’ha insegnato Maradona, un fuoriclasse!», sorrise quella volta. Certo, Diego, ma anche Pino, in quanto a classe, ne aveva da vendere.

 

«RICOMINCIO DA TRENTA»

Infine, “Ricomincio da trenta”, un triplo album dedicato fin dal titolo al suo amico Massimo Troisi. Perché, diceva, «Come fai a dimenticare Massimo, uno con un cuore grande accussì!». Un omaggio anche alla sua storia, ai musicisti che avevano suonato con lui in “Vai mo”, album spartiacque fra quello che Pino era stato e quello che sarebbe diventato: Tullio De Piscopo, James Senese, Tony Esposito, Rino Zurzolo e Joe Amoruso.

Tutta n’ata storia, invece, il concerto in piazza Plebiscito. Ancora con il supergruppo. Manifesto pronto, tutti i nomi confermati. Fra questi, Tullio De Piscopo. Uno degli organizzatori vuole sincerarsi sulla presenza del batterista, De Piscopo assicura. «Sono in ospedale a Milano, faccio un’operazione alla cistifellea e torno!». Pino non se la beve, Tullio, compagno di concerti e dischi, non avrebbe mai fatto ricorso a una simile giustificazione: un intervento alla cistifellea è una passeggiata di salute rispetto a quello che in realtà ha il batterista: un tumore. Pino, che ha fiuto, si mette in treno e va a Milano. Parla con il primario, la sua testa sbuca in corsia, si rivolge a Tullio. «’O sapevo, che nun era ‘a cistifellea! Ti puoi mettere nel taschino mille artisti, ma no Pinuccio tuo: ti conosco troppo bene!». Infine. «Rimettiti subito, senza di te non faccio niente: un leone come te piglia a pàcchere ‘sta malattia, torna presto a casa». Intervento delicato, perfettamente riuscito. E Tullio: «Grazie a Pino, al suo incoraggiamento, ho ritrovato la forza e riabbracciato la mia famiglia, i miei nipoti!».