Bravo, Antonello!

Un vigile del fuoco ospita a casa sua una decina di extracomunitari affamata

«In ginocchio mi hanno chiesto cibo!». Grande gesto di umanità. «Quattro giorni di viaggio, senz’acqua, senza cibo, nella massima disperazione: ho rinunciato a una cena con amici, fossi stato con loro non avrei toccato una sola posata…». Ma a Lampedusa c’è una corsa alla massima assistenza. Il ruolo della Croce Rossa italiana, brandine e generi di conforto per tutti

 

«Uno si è messo in ginocchio chiedendo da mangiare!». E così, Antonello, vigile del fuoco, come il suo mestiere impone – impegnato con i suoi colleghi a Lampedusa – senza pensarci su due volte, invita a una spaghettata a casa sua quei ragazzi appena sbarcati con addosso una fame mostruosa. Ce ne fossero di “Antonello” in circolazione. La cosa, con le debite proporzioni, ci ricorda un po’ tutti quei messaggi che arrivarono da Napoli nel momento più critico di uno dei maggiori periodi di sbarco qualche anno fa. I napoletani rassicurarono il resto d’Italia: se al Nord o in qualsiasi parte del nostro Paese fanno problemi, allora ogni famiglia ospiterà un extracomunitario. Non era una provocazione, accadde proprio questo.

Dunque, Antonello Di Malta – perché il vigile del fuoco ha anche un cognome, ma Antonello e basta ci piaceva di più – non ci ha messo molto a realizzare che quei ragazzi disperati e stanchi, provati da una traversata che il più delle volte è un’incognita (sai, forse, quando ti imbarchi, non sai quando, e se, arrivi…), andavano aiutati. E non a parole, ma in concreto. E così è stato.

 

 

SKY, PUNTUALE…

Il racconto parte da uno dei Tg più autorevoli della nostra tv, SkyTg24. «Erano stremati, ma soprattutto affamati», ha raccontato al cronista televisivo Antonello, che in men che non si dica ha accolto in casa un gruppo di ragazzi del Burkina Faso. Non c’era bisogno che qualcuno gli mostrasse tutta la disperazione del caso, ma quando il vigile del fuoco ha raccontato l’episodio, ha detto: «Uno di loro si è messo in ginocchio chiedendo da mangiare!». L’isola è al collasso per i continui sbarchi di questi giorni.

Antonello, hanno raccontato a Sky, doveva andare a cena con amici, quando si è ritrovato davanti casa una decina di giovani del Burkina Faso che chiedevano qualcosa da mangiare dopo essersi allontanati dall’hotspot, il Centro di Prima accoglienza. Una storia di umanità, mentre il Consiglio comunale proclamava lo stato di emergenza in seguito all’ondata di sbarchi di migranti che sta portando l’isola al collasso.

«Erano stremati, ma soprattutto affamati – riprende Antonello – uno di loro si è messo perfino in ginocchio chiedendo da mangiare! Vi rendete conto?». Così, il vigile del fuoco, ha rinunciato alla sua cena con gli amici. Rientrato a casa, ha preparato una spaghettata. «Li ho fatti accomodare nella veranda di casa mia – prosegue Di Malta – e ho cenato con loro: avevano una fame pazzesca. Ma questa gara di solidarietà cosa la stanno compiendo tutti i lampedusani, del resto come si fa a restare insensibili a una disperazione sotto gli occhi di tutti?».

 

 

UN VIGILE, VIGILE…

Antonello, merita un plauso. «Io andare a cenare a casa di amici sapendo che quei ragazzi erano sull’orlo – e forse anche oltre – della disperazione? E chi avrebbe toccato cibo? Lasciarli lì, digiuni, dopo giorni di viaggio in mare: mi hanno raccontato di essere originari del Burkina Faso, di essere partiti da Sfax e che hanno fatto un viaggio di quattro giorni: quattro giorni, senza acqua, senza cibo…».

Situazione complessa, fa sapere la Croce Rossa italiana. La responsabile-migrazioni della CRI, ha comunicato che sull’isola ci sono continui trasferimenti e all’hotspot di Lampedusa si contano oltre quattromila presenze. Una situazione complessa alla quale stanno cercando di dare risposte provando a portare l’intero sistema di accoglienza alla normalità, a una situazione da tenere sotto controllo. Nonostante le criticità, la Croce Rossa agli extracomunitari arrivati sull’isola ha distribuito brandine, fornito cibo a tutti assicurando ad ognuno la massima assistenza.

“Don Matteo” in Puglia

Anche l’attore Raoul Bova “sceglie” la nostra regione

Altra masseria all’interno della Penisola più accogliente d’Italia. Cinema, aggregazione, dibattito, eccellenza agroalimentare e molto altro. Peculiarità di molte delle masserie del circondario, altrettanto accoglienti e suggestive. Provare per credere

 

Anche il nuovo “Don Matteo” televisivo scopre la Puglia. Non che ci fosse bisogno di chissà quale straordinaria intuizione, ma sicuramente l’orgoglio è tanto se Raoul Bova, invece di investire le sue risorse economiche altrove, sceglie la nostra regione apre le porte alla sua Masseria San Giovanni. E lo fa, aggiungendo la sua accogliente masseria, a tante altre masserie che brillano per bellezza e accoglienza. Ovunque caschi, caschi bene: Le Torri (Polignano), Calderisi (Savelletri), Don Cataldo (Martina Franca), Muntibianchi (Giurdignano) e via discorrendo.

Investire nel turismo è il nuovo business. Ci sono artisti che decidono di far fruttare i propri guadagni, rastrellando azioni su azioni, comprando azioni, altri che, invece, preferiscono aprire ristoranti come ha fatto Lino Banfi di recente (l’attore pugliese tempo fa è stato ospite di “Don Cataldo”, dove ha girato diverse scene del film “Viaggio a sorpresa” con Ron Moss, il Ridge di Beautiful). Di artisti di statura internazionale che hanno acquistato da queste parti ne abbiamo scritto anche di recente, ma stavolta ci soffermiamo su Bova il “Don Matteo” televisivo fra gli ultimi pugliesi acquisiti.

 

 

GIA’ BANFI (OSPITE DEL “DON CATALDO”)…

Di uno degli attori più amati del cinema e della tv, ne ha scritto in questi giorni, non a caso, l’autorevole “Proiezioni di Borsa”. Artista italiano fra i più affascinanti e bravi – riporta il sito – dopo aver collezionato grandi risultati come nuotatore, Bova ha intrapreso la carriera di attore. Tra i suoi film: Piccolo grande amore, La lupa, The tourist. Per non parlare delle serie tv come Ultimo e a Don Matteo, sceneggiato nel quale ha sostituito Terence Hill.

Insomma, innamoratosi a prima vista della Puglia, il bel Raoul ha deciso di acquistare un immobile in questa regione e trasformare un’antica masseria in una struttura ricettiva lussuosa. Perché chi soggiorna in Puglia, sia chiaro, gode della massima tranquillità, un silenzio rigenerante, con “a vista” uliveti, agrumeti e macchia mediterranea e, a poca distanza, il mare: bello, cristallino, con spiagge mozzafiato.

 

 

INFINE UN’ALTRA OASI

L’ Oasi San Giovanni Battista, grazie all’iniziativa di Raoul Bova, sta registrando un cambiamento, scrive il sito Casafacile. Cinema, aggregazione, dibattito, eccellenza agroalimentare e molto altro. Peculiarità di molte delle masserie del circondario. Per restituire senso e vitalità alla masseria, Raoul e il suo entourage sta predisponendo un autentico caleidoscopio di iniziative: un salotto per festival e incontri, un ristorante gourmet per esaltare i prodotti del territorio, un polo per turisti coscienti del patrimonio del luogo: la masseria diventerà presto tutto questo. Oltre a costituire già un favoloso set naturale, come spiegano i collaboratori dell’attore. Nuovi pavimenti accostati a pareti secolari in un restauro conservativo. Questo e altro, fanno della nostra Puglia una collana di perle di una bellezza unica. Diceva un vecchio slogan: provare per credere.

Roberto, Argento vivo!

Unico non professionista, è andato a medaglie ai Mondiali di Atletica

«Una medaglia che vale più dell’oro; sono l’unico non professionista della staffetta 4×100. I miei compagni si fanno il “mazzo”, forse io di più: mi arrangio con borse di studio e lavoretti, inoltre devo allenarmi con la loro stessa intensità». Ha fatto sci alpino, suonato la batteria, corso in go-kart e…spaventato a Marcell Jacobs: «Nella finale, non volendo, gli ho urlato, tanto ero preso dalla gara»

 

«E’ un argento che vale oro! Non sono un professionista e salire sul podio con i miei tre compagni della 4×100 di Budapest, equivale ad aver realizzato un sogno!».

Gli azzurri ai Mondiali di atletica in Ungheria hanno conquistato il secondo posto. Un altro successo, anche rispetto al trionfo di Tokyo. Qui, però, c’era un altro interprete, come scrive sul suo sito Eurosport: Roberto Rigali. Ventotto anni, bresciano, il suo è stato un vero e proprio debutto in una competizione di statura internazionale. Roberto, uno dei pochi della spedizione azzurra a non essere un atleta professionista.

Insomma, mettere al collo una medaglia così importante è sempre una sensazione fantastica, riuscirci, poi, in una gara mondiale e scrivere un pezzo di storia con una squadra, è davvero qualcosa di speciale. Ne sanno qualcosa gli staffettisti azzurri, che ai Mondiali di atletica leggera di Budapest, si diceva, hanno conquistato uno straordinario argento nella 4×100 dietro alla squadra U.S.A. considerata, sportivamente, “illegale”. Roberto è stato il protagonista al lancio nella gara a Budapest insieme ai tre campioni olimpici Marcell Jacobs, Filippo Tortu e Lorenzo Patta.

 

 

«NON SONO PROFESSIONISTA»

Nato in Val Camonica, provincia di Brescia, nel ‘95, Roberto Rigali è alto 183 centimetri e pesa 79 chilogrammi. Non fa parte di nessun corpo militare, questa la curiosità, ed è uno dei pochissimi non professionisti della nostra atletica. Roberto inizia a praticare sport nel 2011, dopo aver abbandonato lo sci alpino a causa di una periostite. Fra i suoi primati personali: di 6’”62 nei 60 e 10”25 nei 100.

È iscritto al Corso di laurea in Scienze motorie e ha suonato la batteria. Tra le sue passioni anche i motori e il go-kart. Nel giro della Nazionale fin dagli esordi, non aveva mai avuto occasione di finire sotto i riflettori in un grande evento e il suo debutto è stato dei più dolci possibili, dimostrandosi più che performante tanto nella partenza quanto nella curva nella prima frazione.

Bella l’intervista concessa al Corriere dello Sport, il quotidiano sportivo diretto da Ivan Zazzaroni. Bravo il cronista a tracciare il profilo umano del ragazzo. «É molto più bello di come me lo sarei immaginato – spiega al giornale romano – quando ho passato il testimone a Jacobs: ho urlato così forte che Marcell si è spaventato! Per me è un argento che vale più dell’oro».

 

 

E IL SOGNO CONTINUA

«Sono uno dei pochi azzurri dell’atletica a non appartenere a un Corpo militare, così i miei ringraziamenti sinceri vanno al mio coach Alberto Barbera e alla mia società, la Bergamo Stars Atletica. Questa medaglia me la merito proprio: a differenza di tutti gli altri non sono un professionista, mi arrangio con borse di studio e lavoretti al di fuori degli allenamenti e delle gare, se loro devono farsi un mazzo così, io forse di più…».

I Mondiali di atletica 2023 sono stati trasmessi dal 19 al 27 agosto su Eurosport 1 ed Eurosport 2 e in streaming su Discovery+ con tre feed dedicati. Su Eurosport.it sono state puntualmente riportate tutte le news della manifestazione iridata, con approfondimenti, highlights e video dei momenti più emozionanti di questo sport. 

Ilenia, venti anni: licenziata

Palermitana, aveva solo chiesto i suoi diritti

«Ho fatto pulizie domestiche in nero, ho studiato, mi sono diplomata, sono stata assunta: quando ho chiesto rispetto mi hanno mandata a casa; nonostante avessi detto che avevo bisogno di quei soldi…». Una lettera “inviata” a Giorgia Meloni: «Noi giovani vogliamo lavorare, senza essere trattati come schiavi!»

 

C’è un giornale on-line che in brevissimo tempo ha polverizzato i numeri di testate importanti, sostenute da brand storici, dunque con la strada spianata, anche in termini di contribuzioni. Sede a Napoli, gruppo editoriale Ciaopeople Media Group, direttore Francesco Cancellato, il giornale è fanpage.it.

In poco più di dieci anni, non solo si è guadagnato un importante numero di lettori, ma nel tempo ha conquistato qualità e, soprattutto, fiducia. Non sapremmo, infatti, come chiamare la grande disponibilità, specie da parte dei ragazzi, a raccontare le proprie storie di disagio giovanile proprio a fanpage.it.

La scorsa settimana abbiamo scritto di Domenico Dolce, della provocazione dello stilista ai giovani che, a suo dire, «non hanno voglia di lavorare e pensano che io, nella mia Sicilia, venga con valigie piene di soldi da distribuire ai ragazzi in cerca di reddito».

Questo tema ha fatto arrabbiare un po’ di ragazzi che hanno risposto per le rime a Dolce che con Stefano Gabbana è il titolare di una delle Maison più importanti al mondo. Non solo giovani delusi, piccati, come se stendessero un braccio per chiedere anche un modesto contributo pur di sopravvivere. Sul tema è intervenuto anche il Corriere della sera che, attraverso una sua popolare collaboratrice, ha risposto punto su punto alla provocazione dello stilista.

 

 

CONFESSIONE ON-LINE

Fanpage.it, come spesso accade, ha fatto in qualche modo da attrattore, registrando il disappunto e pubblicando alcune delle lettere, delle considerazioni di questi ragazzi il più delle volte abbandonati ai social e alle proprie illusioni.

Una di queste “confessioni” è stata pubblicata in questi giorni. Protagonista Ilaria, appena venti anni, più di qualche esperienza “in nero” alle spalle – “da queste parti il più delle volte funziona così…”, spiega – assunta di recente, ma subito dopo licenziata. A causa di una delle frasi che di solito fanno imbestialire i datori di lavoro: “Vorrei che rispettasse i miei diritti”. Ilaria, licenziata in tronco.

«Sono una ragazza di 20 anni – racconta al giornale on-line la ventenne palermitana – vivo nella mia città; diplomata in amministrazione, finanza e marketing già da un anno, ho sempre amato studiare, ma ho dovuto rinunciare all’università per problemi economici». Ecco già il primo intoppo, gli studi universitari. Dopo la rivoluzione sociale a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, quando lo studio era in qualche modo accessibile a tutti, oggi siamo tornati ai tempi in cui studia o, comunque, si laurea chi può permettersi tasse universitarie, l’affitto di una stanza lontano da casa, una spesa seppure modesta, comunque insostenibile per molte tasche.

 

 

FORZA E CORAGGIO

Ilenia, forte. «Ho deciso di lavorare per essere indipendente: come risaputo, qui a Palermo se vuoi lavorare devi lavorare in nero; lavoro in nero da quando ho 16 anni, faccio la donna delle pulizie facendomi pagare 8 euro all’ora, che ormai non sono neanche troppi: in questo arco di tempo ho conosciuto maniaci, famiglie benestanti, universitari…».

Prima un titolo di studio. «Da quando mi sono diplomata ho cercato in tutti i modi possibili di trovare un altro lavoro che mi valorizzasse, quello per cui valeva la mia dignità, ho sempre voluto il meglio per non fare la fine dei miei genitori che mi hanno cresciuta in strada non facendomi mancare mai nulla. Ho fatto centinaia di colloqui in questi mi sono sentita dire: “La cerchiamo con esperienza”, “Non hai la patente”, “Sembri una bambina, non va bene per il negozio”. Per non parlare di tutte le altre candidature che non sono mai state prese in considerazione».

 

 

DIRITTI NEGATI E BENSERVITO

Diritti negati e benservito. «Quest’oggi sono stata licenziata perché ho chiesto e non preteso dei diritti sul lavoro, mi hanno umiliata per il lavoro che svolgo, al punto che ho pensato di pregarli per non licenziarmi per bisogno. Questa sera ho deciso di scrivervi per sfogarmi, chiedere alla Meloni cosa stia facendo per noi giovani. Noi giovani che continuiamo a illuderci per uno stipendio che possa garantire le nostre future famiglie, noi giovani che continuiamo a illuderci di poter realizzare i nostri sogni, ma i sogni con un contratto da stage per 6 mesi per poi mandarti a casa perché non servi più, come li realizziamo?».

Questo, Ilenia, proprio no. «Ho pensato persino a suicidarmi perché comincia a pesarmi troppo la questione del “lavoro” mi sono stancata di soffrire, di illudermi di arrivare dove è proprio impossibile arrivare. Ho preso in considerazione l’idea di andare al nord ma ho un cane di taglia piccola che in casa non accetta nessuno. Cara Meloni, sono divisa a metà tra la voglia di vivere e la voglia di non voler più soffrire, ho rinunciato agli studi per essere indipendente, per non dipendere mai da un uomo. Spero che questo messaggio possa arrivare a lei, non parlo solo per conto mio perché sono sicura che la maggior parte dei giovani si trova nella mia stessa situazione. Noi giovani vogliamo lavorare ma non vogliamo essere schiavi di nessuno!».

«“Sfaticati” a chi?»

Domenico Dolce provoca una marea di polemiche

Ospite nella sua Sicilia, ha dichiarato, fra l’altro «I giovani non vogliono lavorare, passano giornate sui social». E i ragazzi gli rispondono sui social. «Perché non viene ad investire qui?»

 

«Ma cosa fanno tutti questi ragazzi tutto il giorno sui social, non potrebbero andare a trovarsi un lavoro?». Non è un genitore esasperato a fare la morale a uno, mille, centomila ragazzi che parlano “social”, strumento a buon mercato con il quale si può dire tutto, il suo contrario, farne – perché no – anche uno strumento di lavoro, come diversi ragazzi che usano Facebook, Youtube e Tik Tok e sono diventati ricchi e famosi. Pochi, in verità.

Dunque, chi si rivolge così ai giovani, non è un papà deluso o desideroso di fare la morale, bensì lo stilista Domenico Dolce. Uno dei più grandi al mondo, parte della società messa in piedi insieme con Stefano Gabbana, l’altra metà dell’italian-style più performante degli ultimi anni. La sua forte accusa è stata ripresa nei giorni scorsi dal quotidiano La Repubblica e ripresa da altri quotidiani che hanno creato un vero e proprio dibattito sul tema. Fra le testate più attive, puntuale, La Stampa.

Tornato nella sua Sicilia per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno, durante una mostra fotografica invitato a rilasciare una dichiarazione, ha scosso la platea. Ha preso un microfono e ha cominciato a parlare dei giovani e di quale piega questi, oggi, abbiano preso.

 

 

ACCUSA PESANTE

E’ il punto di vista dello stilista, sia chiaro. E, allora, giù duro. «I nostri genitori – ha detto fra le altre cose, sullo stesso tenore – si alzavano alle cinque del mattino, oggi le campagne sono abbandonate: non possiamo dare la colpa allo Stato, alle istituzioni, al sindaco; le istituzione siamo noi, le generazioni di oggi non hanno una dignità».

Risposta alle prime accuse, Domenico Dolce. «Mi dicono che non faccio niente per loro, bene, io a diciotto anni ho preso una valigia di cartone e sono andato a Milano. Fate noccioline, il fagiolo badda, ricamate, come si può pretendere il progresso se nessuno fa un cazzo!». Infine, di quella Polizzi Generosa, sua città di origine, nella sua visita siciliana, ha chiosato: «Sapete cosa si aspettano da me i giovani? Che venga qua con una valigia piena di soldi da distribuire!».

A proposito de La Stampa, una replica alle bordate di Domenico Dolce non si è fatta attendere. Autrice l’eccellente Assia Neumann Dayan, che sul quotidiano torinese, fra le altre cose ha risposto: «I giovani non vogliono più lavorare? E perché poi solo i giovani? Linda Evangelista disse che lei per meno di 10000 dollari al giorno nemmeno si alzava dal letto, e per questo fece scandalo negli anni Novanta, ma oggi tutti le darebbero ragione e diventerebbe icona e musa del proletariato».

«Nessuno – ha proseguito – è più disposto a fare cose che non vorrebbe fare a un costo per cui non vale nemmeno la pena togliersi il pigiama. Rimanendo dalle parti di Linda Evangelista, il celebrato stilista Domenico Dolce, tornato nella sua Sicilia per festeggiare il compleanno, ha partecipato all’inaugurazione di una mostra fotografica nella sua fondazione. Qui si è esibito in un monologo nel quale ha detto diverse cose, tra cui che i giovani oggi stanno su Facebook invece che andare a lavorare. Alla fine del discorso, tutti i presenti hanno applaudito».

 

 

BASTA PATERNALI

«Il paternalismo non è mai del tutto autentico, perché presuppone una verità condivisa che non c’è. Questi giovani che stanno tutto il giorno sui social esistono, ma onestamente mi spaventano di più i quarantenni che pubblicano le storie di Instagram mentre lavorano e magari fanno i cardiochirurghi».

«Abbiamo appena passato un anno – scrive fra le altre cose Assia Neumann Dayan – dove ogni giorno c’era la notizia di tale imprenditore che non trovava camerieri, pizzaioli, impiegati, receptionist, era tutto un piagnisteo del bravo datore di lavoro che non trova nessuno a cui dare dei soldi. Questo non credo sia del tutto vero, né del tutto falso. I tempi cambiano e nessuno è più disposto a lavorare dodici ore al giorno per due spiccioli quando quei due spiccioli può darteli il welfare, con qualche bonus e un paio di agevolazioni. Per motivi che possono essere validi o meno, pare sia difficile trovare qualcuno che, ad esempio, lavori nei festivi».

Infine, una ragazza e un video postato: «“Peccato però che non tutti siano diventati o possano diventare ultramiliardari”». Vero, perché c’entrano talento, merito e opportunità. Ci sono dei ragazzi che chiedono solo di poter lavorare nella propria terra mantenendo le proprie radici, e se io fossi in loro credo che mi sarebbe molto dispiaciuto sentirmi dare della scioperata. E poi chissà quanto chiederebbe oggi Linda Evangelista per sfilare in Haute Couture Dolce e Gabbana».

Ventiseimila morti!

Negli ultimi dieci anni, il Mediterraneo ha seminato solo dolore

I viaggi della speranza, a bordo a vere “carrette del mare”, diventano un cimitero. Ultima strage a largo di Lampedusa, quarantuno morti (tre bambini). «Ci siamo aggrappati alle camere d’aria, ma il barchino sul quale viaggiavamo s’è capovolto a causa di una violentissima onda», dicono i soli quattro superstiti

 

Il Mediterraneo è diventato il Cimitero dei migranti. Di quanti sperano di poter trovare un futuro e condizione umane. Con la sciagura registrata in questi giorni al largo di Lampedusa, i morti causati da incidenti, naufragi e altri episodi, negli ultimi dieci anni salgono a ventiseimila. È l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (l’Oim) a comunicare il numero di vittime scomparse, confermando quanto si sostiene ormai da anni: la rotta che collega Libia e Tunisia all’Italia è la più fatale in tutto il mondo.

A questo dato che ha del drammatico, aggiungiamo quanto riportato dall’Unicef, che ha stimato come dall’inizio dell’anno nel Mediterraneo siano morti o scomparsi trecento bambini. Il Mediterraneo, pertanto, si conferma come la rotta migratoria più pericolosa in Europa. Stime da paura: dal 2018 almeno millecinquecento bambini sono morti o scomparsi nel Mar Mediterraneo.

 

 

E così, come riportano agenzie, dall’Ansa ad Adn Kronos, e quotidiani, dal Sole 24 Ore all’Avvenire, ci tocca registrare un nuovo dramma, quello accaduto nei giorni scorsi: quarantuno migranti sono morti dopo che un barchino, salpato da Sfax in Tunisia, si è ribaltato ed è affondato durante la navigazione nel canale di Sicilia. A raccontarlo sono stati i quattro sopravvissuti, tre uomini e una donna, che sono stati salvati dalla motonave Rimona che li ha poi trasbordati su una motovedetta della Guardia costiera. I quattro profughi, originari di Costa d’Avorio e Guinea Konakry, sono stati accompagnati a Lampedusa.

Secondo il racconto dei superstiti, il viaggio era iniziato alle dieci del mattino. Dopo sei ore di navigazione, un barchino, un mezzo in metallo lungo sette metri si è capovolto a causa di una più grande delle altre. Stando a quanto riferito dai quattro superstiti tutti sono finiti in mare. Una quindicina di questi avevano con sé un salvagente, che purtroppo non è servito: sono annegati lo stesso. A bordo anche tre bambini.

«Ci siamo aggrappati alle camere d’aria – hanno raccontato i superstiti – lo hanno fatto anche tanti altri dopo che il barchino s’è capovolto a causa di una violentissima onda, ma con il passare del tempo, abbiamo visto i nostri compagni di viaggio prima allontanarsi, trasportati dalle forti correnti del mare, e poi sparire; alcuni li abbiamo visti venire inghiottiti dalle onde».

«Salviamoli, prima che sia troppo tardi», aveva invece segnalato Alarm Phone, sul suo profilo Twitter, informando di aver allertato tutte le istituzioni sulla presenza in mare di imbarcazioni in pericolo a causa del maltempo. «Il tempo peggiorerà – avevano aggiunto – temiamo che altrimenti molti non sopravviveranno alla notte! Un maltempo ampiamente previsto e che le autorità europee hanno ignorato, lasciando al loro destino decine di barchini».

 

 

«L’ennesima tragedia, nonostante tutti i proclami e i buoni auspici dell’Europa, nel Mediterraneo le persone continuano a morire e lo fanno quasi nell’indifferenza delle Istituzioni», ha dichiarato Filippo Mannino, sindaco di Lampedusa. Il Sandro Ruotolo della segreteria nazionale del PD, chiede «l’istituzione di una flotta europea di soccorso, il resto sono chiacchiere»; Italia Viva dal suo canto sollecita Bruxelles e Roma a intervenire. Cgil e società civile evocano l’inefficacia del decreto Cutro, ricordando l’altra drammatica tragedia di inizio anno.

La strage maggiore del Mediterraneo centrale, risale al 19 aprile del 2015: un peschereccio partito da una spiaggia ad una cinquantina di chilometri da Tripoli si ribalta nel canale di Sicilia. Un numero certo di quanti fossero a bordo non c’è, ma molte testimonianze concordano che fossero circa 850 persone, tra cui una cinquantina di bambini. I sopravvissuti furono solo 28. Due anni prima all’alba del 3 ottobre 2013, l’orrore si era materializzato a due passi dall’isola dei Conigli, la spiaggia paradiso di Lampedusa. Un barcone di 20 metri partito da Misurata, in Libia, si rovescia a mezzo miglio dall’isola. Il bilancio è di 368 morti accertati ed una ventina di dispersi. Otto giorni dopo, altra tragedia, nota come la “strage de bambini”: affonda un barcone con a bordo circa 200 persone, tra cui una sessantina di minorenni.

Proprio in seguito a questi eventi il Governo presieduto da Enrico Letta lancia la campagna Mare Nostrum, imponente missione di salvataggio in mare come navi ed aerei di Marina Militare ed Aeronautica. La sostituisce un anno dopo la missione a guida europea Triton. Si fa però strada il concetto di “pull factor”: assetti di salvataggio in mare, è la teoria, condivisa da molti nel Governo attuale, costituiscono un fattore attrazione delle partenze di migranti verso l’Europa. C’è stato quindi un progressivo depotenziamento dell’attività di soccorso Ue nel Mediterraneo.

«Faccio il muratore, embè?»

Christian Riganò, ex bomber del Taranto e della Fiorentina

«Ho guadagnato il giusto, non lo faccio per fame, poi sono orgoglioso del mio lavoro». Un articolo del Corsera e la stampa riprende il suo racconto. «Ho due patentini da allenatore, se non mi chiamano sarà pure il caso che faccia qualcosa, così ho ripreso i miei vecchi attrezzi: qualcuno stenta a crederci, ma io lo consolo, non è mica umiliante, anzi…»

 

Da muratore a cannoniere e viceversa. Questa la strada, forse è meglio dire il verde messo sotto i piedi, i tacchetti delle scarpette di calcio in tanti anni di onorata carriera, in quelli che chiamano campionati minori. Ma che in realtà non lo sono, perché una volta non hai il coraggio di lasciare tutto e una volta non hai il procuratore giusto. E lì, ogni domenica, chi tira calci al pallone, ci mette l’anima.

Ovunque sia andato, Christian Riganò, per tutti Rigagol, ha lasciato un gran bel ricordo. Generoso fino alla “morte”, fu uno di quei pochi calciatori del Taranto a buscarle sul campo di Catania, lui siciliano di Lipari, in quella che da molti tifosi del Taranto viene definita una “farsa”. Doppio spareggio per salire in una meritatissima serie B. A Catania la squadra rossoblù perde di stretta misura (1-0), gli avversari picchiano come fabbri, l’arbitro non interviene; al ritorno, a Taranto, stadio stracolmo, come mai nemmeno negli anni d’oro della B, la squadra è letteralmente inesistente. I conti non tornano, se non quelli del cassiere che invece fa “tutto esaurito”. Pubblico disgustato, a fine gara attende numeroso la dirigenza del Taranto all’esterno dello “Iacovone”, ma i colletti bianchi sono già andati via.

 

 

ADDIO CITTA’…

Riganò decide che la piazza così “intossicata” non fa più per lui. E’ in scadenza di contratto, deciderà lui stesso dove andare a giocare. E qualche brutto ceffo che si presenta in un ristorante cittadino, durante una cena con i familiari, per convincerlo con le buone a firmare (il suo “cartellino” avrebbe un valore superiore al miliardo di vecchie lire), non gli fa cambiare idea. Questione di uomini. Fra calci e minacce sul campo, figurarsi se Christian si fa intimorire. Il bomber che fece sognare Taranto, saluta e se ne va. Avrebbe voluto farlo con la B in tasca, m qualcuno evidentemente glielo aveva impedito.

In questi giorni il Corriere della sera lo ha intervistato. Il cronista che fiuta il pezzo fa benissimo il suo mestiere e lo intercetta. Riganò, che lo leggi come lo scrivi, si lascia andare ad una confessione amichevole. Oggi Christian fa il mestiere che faceva prima di diventare calciatore. «Un mestiere – confessa Riganò – che mi piace e di cui vado fiero: avevo lasciato questo mestiere a tre quarti, nemmeno a metà; io sono questo: amo costruire e riparare le cose, così, non avendo chiamate per allenare sono tornato a fare il mio lavoro che, modestamente, so fare come pochi», racconta l’ex bomber al cronista del Corriere della Sera che lo incontra in un cantiere a Ponte Vecchio. Un bel servizio ripreso da Mattino, Leggo, La Nazione, Corriere Adriatico, Virgilio, Informazione.it e Fanpage.it.

«Due cose so fare nella vita: i gol e il muratore. Così, dopo aver smesso di giocare, sono tornato a fare il mio mestiere: mi piace e ne vado orgoglioso. Avevo lasciato questo mestiere a tre quarti, nemmeno a metà. Io sono questo: amo costruire e riparare le cose. Così, non avendo avuto chiamate per allenare sono tornato a fare il mio lavoro».

 

 

DA TARANTO A FIRENZE…

Christian Riganò arrivò a Firenze nel 2002, a ventotto anni. Coraggiosamente scese di categoria, dalla C1 del Taranto dove in due stagioni aveva segnato più di una quarantina di gol sfiorando la promozione in Serie B, alla C2 della Florentia Viola, nata dal fallimento della Fiorentina di Cecchi Gori. Una promozione dopo l’altra fino ad indossare, meritatamente, in Serie A la fascia da capitano della formazione viola.

«Mio padre Vincenzo, purtroppo, non ha fatto in tempo a vedere che il suo ragazzo aveva realizzato il sogno: papà faceva il pescatore, è toccato a mia madre crescerci; intanto, muratore a parte, ho preso due patentini per allenare: amo il calcio, ma si vede che non sono adatto per quello di oggi, fatto principalmente di sponsor, non accetto compromessi. Certo, se poi arrivasse la chiamata giusta sarei pronto a tornare in panchina».

Uno pensa che non se la deve passare bene, invece Riganò spiega. «Ho guadagnato bene e ne sono felice. Nella mia intera carriera, però, ho incassato quanto molti giocatori di media fascia oggi guadagnano in due tre mesi – Così, poi, bisogna tornare a lavorare. Io sono di vecchio stampo: datemi una terra e, con due colleghi, siamo in grado di tirare su una casa». Per ora, secchio e cazzuola, domani, chissà, torna in campo a dirigere allenamenti ed a spiegare tattiche alle nuove promesse del calcio.

«C’era un ragazzo, che come me…»

Intervista a Francesco De Vitis, vicedirettore del Radiogiornale Rai

Tarantino, sessantatré anni, giornalista a diciotto. Ha scritto per “Ciao 2001”, bibbia della musica negli anni Settanta e Ottanta. «Per me è come se esistesse solo quella musica, del Banco il mio album preferito…»

Tarantino, sessantatré anni, vicedirettore del Radiogiornale Rai. Francesco De Vitis, studi liceali, universitari fra Giurisprudenza e Lettere, cronista musicale fra i più celebrati, autore di reportage per gli storici Ciao 2001 e Music (80/85) con la direzione di Beppe Caporale. Grande esperienza prima di approdare nel cosmo Rai, fra Radiocorriere Tv, Rai International e Rainews 24, fino al radiogiornale, must dell’informazione radiofonica per chi vuole “viaggiare informato”.

Partiamo dalla riconferma a vicedirettore.

«Due mesi fa la nomina di Francesco Pionati a direttore del radiogiornale, che nel suo piano editoriale mi ha riposizionato nella squadra dei vicedirettori: una indicazione raccolta con somma soddisfazione, intanto perché arriva da un collega importante, esperto di politica e giornalismo: con lui subito grande empatia, presupposto fondamentale per lavorare in perfetta sintonia».

Dai tasti della Olivetti di Ciao 2001 a quelli dei pc, che strada è stata?

«Quella di un ragazzo appassionato che sognava di fare il musicista o lo scrittore, ma che di mestiere cominciò fare il giornalista; a Taranto era complicato coronare questo progetto, così a diciotto anni puntai al bersaglio grosso: insieme con la mia ambizione presi il primo treno per Roma; fortunato, incontrai le persone giuste che mi spinsero a fare subito esperienza: Beppe Caporale, Willy Molco e altri giornalisti dai quali ho imparato i primi rudimenti».

On the road, strada asfaltata, sterrata, sassi?

«Non esistono strade lisce come tavoli da biliardo, ma mi ritengo fortunato, sarei poco onesto se dicessi che è stato un percorso faticosissimo: ho cominciato subito registrando risultati immediati».

 

 

Ciao 2001, bibbia della musica. Un disco, un concerto recensito, altro.

«Periodo di grande entusiasmo fra i miei venti-venticinque anni, con i colleghi dell’epoca mi sono divertito tanto; fra i più belli, uno dei concerti seguiti all’estero, a Zurigo, quello degli Sky, band anglo-australiana con Francis Monkman, Herbie Flowers, Tristan Fry, John Williams e altri. Forse perché è stata la mia prima vera trasferta porto quel concerto nel cuore».

Una intervista ardita, azzardata, quella più riuscita.

«Da non crederci, quella con Dori Ghezzi, che veniva dalla brutta esperienza del rapimento con Fabrizio De André: la feci senza prendere un solo appunto, tanto che i discografici si preoccuparono; tornato in redazione, rassicurai Beppe: “nun te preoccupa’, c’ho tutto in testa”».

La reazione dei diretti interessati.

«Il pezzo uscì dopo un paio di settimane, una volta pubblicato, ricevetti una telefonata a casa: “France’, c’è Fabrizio De André al telefono…”, da non crederci. Il cantautore genovese mi ringraziò e mi dette appuntamento al suo concerto di Roma. Prima che salisse sul palco, andai a trovarlo in camerino: poco dopo arrivò Francesco De Gregori con una bottiglia di whiskey; morale della favola, mezzo bicchiere Francesco, due dita io, che nemmeno bevevo, il resto della bottiglia a Fabrizio».

Che musica era quella di cui parliamo?

«Parlarne al passato mi risulta difficile, perché è quella che continuo a sentire, targata Settanta e Ottanta; spesso scateno i miei figli in polemiche probabilmente giustificate: “Papà, qualcosa dei Novanta, non eh?”. Mi rendo conto, ma l’ultimo disco ascoltato stamattina, per esempio, è “4 Way Street”, live di Crosby, Stills, Nash e Young, che avevo già consumato ai tempi del “Quinto Ennio”, il mio liceo tarantino».

 

 

Bacchettate?

«Nel rileggere le mie recensioni di un tempo, mi riconosco molto severo, forse troppo. Per esempio, Vasco, che io ho amato tanto: “Questo pezzo troppo squadrato, poteva fare meglio…”. Oggi leggiamo troppe recensioni politicamente corrette, all’epoca invece mettevamo il lettore di fronte al gusto del critico musicale: buono o non buono…».

Il vinile preferito?

«Non ci penso su due volte: “Io sono nato libero”, Banco del Mutuo Soccorso, io e il mio caro amico, Egidio Bianchi, lo consumammo: tornato a Taranto, mi spedì la registrazione di quell’album, lo ricordavo a memoria, graffi compresi».

La svolta e l’avventura in Rai.

«Arrivai attraverso la carta stampata, con il Radiocorriere Tv: scoprii così radio e tv, partendo da Rai International, il canale Rai per gli italiani all’estero. Ero appena diventato papà di Arianna, così accettai con entusiasmo».

Riscrivesse la sua storia?

«Avrei provato a fare il musicista, poi lo scrittore, quello del giornalista era il Piano C. Le prime due scelte appartenevano alla sfera dei sogni, quella del cronista, invece, è stato subito un mestiere».

«Io, cameriere per caso…»

Giuseppe Cederna, attore da Oscar

«Organizzo i miei impegni professionali e mi ritaglio uno spazio da dedicare alla Grecia», confessa uno dei protagonisti di “Mediterraneo”. «Non lo faccio di mestiere: qualche mese l’anno vivo qui con la mia compagna: lei sta in cucina, io fra i tavoli a dare una mano ai titolari…»

 

E’ l’attore che molti vorrebbero per amico. Importante, se registi come Scola, Salvatores e Soldini lo hanno chiamato più volte a recitare nei film da loro diretti. Giuseppe Cederna, comprimario in film come “Marrakesh Express” e “Mediterraneo”, è uno che non passa inosservato. Come il suo talento. Piccolo, una virgola al posto del naso, lo vedi, intuisci che c’è stoffa. Per come si muove, gesticola e cammina, come calibra, rispetta i tempi, non fagocita quei pochi istanti che potrebbe soffiare sul set ai suoi colleghi. Anche per questo, Cederna per amico.

E, allora, perché parlare di uno dei caratteristi del cinema italiano più validi, uno dei migliori attori di teatro in circolazione. Semplice. Perché nel modo in cui si fa informazione per un “like” o una visualizzazione in più, c’è chi butta lì un titolo che faccia da attrattore. Non importa che l’articolo sfiori l’argomento sparato a quattro colonne, tanto poi i lettori intuiranno nel corpo del pezzo che sei, più o meno, su “Scherzi a parte”. E che, veniamo alla boutade. Giuseppe Cederna in Grecia, affascinato dalla bellezza di quei posti, fa il cameriere. Ha scelto un’isola come nel capolavoro da Oscar “Mediterraneo”. Certo, un pizzico di notizia c’è. Il collega che si gioca una sorta di scoop, fa bene il suo mestiere. Un po’ meno quanti riprendono la notizia e le danno un taglio per fare sensazione.

 

 

FRA I TAVOLI PER CASO…

Allora, proviamo a mettere un po’ le cose a posto. Fra quanti si sono occupati di intervistare o scrivere di Cederna in tempi recenti, i giornalisti Alessio Di Sauro (Corriere della sera), Tiziana Platzer e Alberto Sogliani (La Stampa), Stefania Rocco (Fanpage.it), Francesco Bettin (Olimpia in scena, Sipario). Ognuno con un taglio diverso. Una “breve” per un sito, qualcosa di più romanzato per il giornale. Chi si è impossessato della notizia per farne dieci, toh, venti righe, ha utilizzato un’altra modalità: da attore a cameriere, per farla breve. Tout court, come direbbero o scriverebbero quelli bravi. Invece, per amore di giustizia, fare i complimenti ai colleghi che ci hanno preceduti raccontando un divertente episodio della vita di un attore, ma per sconfessare quanti hanno provato compiere un’altra narrazione, ecco cosa è accaduto all’attore di “Maschi contro femmine”, “Hammamet” e “Il viaggio di Capitan Fracassa”.

Karpathos, isoletta nel mar Egeo. Un gruppo di turisti entra in un localino, un’accogliente taverna. Sembra non esserci nessuno, poi improvvisamente spunta un uomo, una faccia che riconosceresti fra mille, anche se rispetto a quei film che passano in tv non sappiamo nemmeno quante volte, l’espressione è più vissuta. E’ lui, Cederna.

«Sono proprio io – racconta l’attore a quei turisti si stanno domandando “questo viso non mi è nuovo” –  uno degli attori di “Mediterraneo”: non faccio il cameriere di mestiere, ma qualche mese all’anno vivo qui con la mia compagna: lei dà una mano alla titolare in cucina, io faccio da cameriere con suo marito e poi, insieme, lavoriamo in campagna».

 

 

«LEI? MA CHE CI FA QUA?»

Non fa in tempo ad arrivare la domanda di quella gente che ha fatto pit-stop proprio in quella tavernetta. «Durante la prima ondata di Covid mi trovavo qui – racconta – è stato allora che io e la mia compagna abbiamo stabilito questa amicizia con la gente del luogo e in particolare con i gestori della taverna: proprio come accade in “Mediterraneo”, il soldato Farina saluta il reggimento e sceglie l’Isola; ogni tanto torniamo e stiamo qui per qualche settimana lontano da tutto…».

«All’inizio, qui, venivo da ospite – ha raccontato Cederna al Corriere della sera – poi siamo diventati di famiglia e, si sa, quando si è di famiglia, si lavora lavora: mai venuto da turista; nel tempo, ho imparato a fare il contadino: taglio il grano, raccolgo pomodori, zucchine. Sto con i miei amici. Prima ci hanno accolti, oggi ci consideriamo adottati: mi ritengo un uomo fortunato, ho due famiglie nel mondo».

Infine, come concilia il lavoro di attore con quello di cameriere “alla pari”. «Organizzo i miei impegni professionali per avere la possibilità di ritagliarmi una finestra da dedicare alla Grecia: non meno di un mese all’anno; organizzo e sposto tutti i miei impegni cinematografici e teatrali per ricavare questa finestra; per me venire qui è una necessità quasi fisica, ormai non riesco a farne a meno».

«Che anni quegli anni!»

Gino Castaldo, “Il cielo bruciava di stelle”, racconta la canzone d’autore

Dal rapimento di De André e Dori Ghezzi al tour “Banana Republic”. Battiato e un milione di copie vendute. Pino Daniele, Napoli ed Eduardo. Per non parlare di un “rapimento” per due giorni di Guccini. «Una cosa che ha dell’incredibile: oggi una cosa così non la penseresti nemmeno», racconta l’autore del libro

 

Quanti ricordi, almeno dal ’79 all’81. Ma anche qualche tempo dopo. E’ un periodo di grande successo per la canzone d’autore italiana che di colpo diventa anche popolare. La cantano tutti, tanto che gli organizzatori e le amministrazioni comunali aprono gli stadi, i campi sportivi, ai concerti. Gli spettatori sono nell’ordine delle migliaia, ogni evento richiama “la folla delle grandi occasioni a prezzi stracciati”. Cinquemila, diecimila, perfino cinquantamila, come capiterà alla coppia Dalla-De Gregori a Napoli in una delle tappe del tour “Banana Republic”.

Di questo e tanto altro scrive Gino Castaldo nel libro “Il cielo bruciava di stelle” (Mondadori). In Puglia, ma a Taranto in particolare, in quel periodo preciso diventa l’ombelico del rock e non solo. Oltre ai citati Dalla e De Gregori, qui fanno tappa anche Pino Daniele e Franco Battiato, Venditti e il primo Vasco, che nel tempo eleggerà Castellaneta Marina il suo “buen retiro”.

Castaldo, critico musicale, scrittore, una vita a recensire per Repubblica. Inventore del settimanale “Musica” insieme ad Ernesto Assante e ad una redazione brillante, è anche una delle voci più autorevoli dei palinsesti Rai, e non solo prima, durante e dopo Sanremo.

Castaldo, uno che fa invidia, andato a cena con i Led Zeppelin.

«Mi era passato di mente come tante altre cose: se mi chiedeste di un tour americano di Dalla, seguito personalmente, non saprei mettere mano ad un solo aneddoto; per fortuna conservo tutto e con l’ausilio di audiocassette, interviste e trasmissioni televisive, da “Odeon” a “Mister Fantasy”, ho ricostruito quei due, tre anni irripetibili per raccontarli in occasione delle rassegne in cui è possibile mostrare e spiegare il mio ultimo libro».

Castaldo, due volte a Taranto, prima allo Yachting Club di San Vito, successivamente in occasione del Cinzella Festival, ospite del complesso turistico Mon Reve, due passi da Taranto. Parla di un racconto lungo trecentotrenta pagine. Le parole accompagnate da proiezioni e musica, quella dei protagonisti di una stagione storica, fra l’agosto del ’79 e il settembre dell’81.

 

 

Dal rapimento De André-Ghezzi alla pubblicazione de “La voce del padrone”, primo album da un milione di copie vendute.

«La storia del cantautorato italiano non comincia proprio con quell’episodio terrificante; sono, però, gli anni in cui le migliori canzoni italiane, da “Come è profondo il mare” a “Napule è”, da “Albachiara” a “Centro di gravità permanente”, diventano le canzoni di tutti, le più cantate, le più amate, un vero miracolo artistico; irripetibile, lo abbiamo scoperto dopo, perché un momento così significativo non si è più ripetuto; Dalla, De Gregori, Daniele, Battiato, le loro, assieme a quelle di De André, Guccini e Battisti, erano le canzoni più cantate: rappresentavano un sentimento collettivo; insomma, in quegli anni accadde qualcosa di meraviglioso».

Difficile che torni con la stessa cifra musicale e poetica.

«Viviamo di cicli, non voglio essere pessimista, ma quella roba, oggi, non c’è più; confido, però, in qualcosa di diverso: le cose non finiscono mai, rinascono sotto altre forme, troveremo la bellezza dove magari non ce l’aspettiamo: non sarà come quella, ma…».

Il libro comincia con quel doloroso fatto di cronaca.

«Un momento rappresentativo di quel periodo: il rapimento di Fabrizio De André e Dori Ghezzi, qualcosa di sconvolgente; uno se ne dimentica, ma accadde qualcosa di inimmaginabile: un artista, oggetto di un rapimento; in realtà non cercavano i suoi soldi, ma quelli del padre, che pagò il riscatto; una scossa che racconta un periodo di lacerazioni e contrasti. Quel momento così buio coincise proprio con la partenza di Dalla e De Gregori con “Banana Republic”, un tour che segna il momento della rinascita».

 

 

Dalla e De Gregori, una grande amicizia che nasconde un retroscena.

«Giorgio Bocca, una delle più grandi firme del giornalismo italiano, si incuriosì di un genere che veniva considerato un prodotto basso rispetto alla cultura; da quel suo incontro con Dalla venne fuori un match elettrizzante pubblicato da “l’Espresso”: Lucio se la cavò bene, Bocca riportò tutto con grande onestà. De Gregori ce l’aveva con “L’Espresso” per aver pubblicato in copertina la foto del cadavere martoriato di Pierpaolo Pasolini: non condivise l’apertura del “socio” al settimanale, tanto che ci volle qualche giorno perché Francesco digerisse la cosa».

E poi c’è Pino Daniele, uno che manifesta le voci di dentro e di fuori, una cultura che pesca non solo da Eduardo.

«Pino era meno calcolatore di altri, la sua era musica, musica, musica; la sua grandezza fu il compiere un’ulteriore magia, fare cioè sintesi; nella sua musica c’era tutto: da Eduardo alla nuova canzone napoletana che stava nascendo in quegli anni, Bennato e Napoli Centrale, il Sorrenti di “Come un vecchio incensiere”, tutto questo sembrava racchiuso in una sola personalità forte: la sua».

Fra gli altri artisti, anche Guccini e una “due giorni” che però ricorda come se fosse ieri.

«Fummo benevolmente sequestrati; raccontarla ha dell’incredibile: Guccini, all’epoca già famoso, accettò la sfida di quei ragazzi; “Invece di parlare di rivoluzione, Francesco, vieni a vedere come viviamo!”. Oggi una cosa così non la penseresti nemmeno».

Anche le disavventure, come le canzoni, insegnano sempre qualcosa.

«Quando De André fu rilasciato gli chiesero se il suo legame con la Sardegna dal rapimento in poi fosse cambiato: Fabrizio rispose che il suo rapporto con l’Isola era sempre saldo, perdonò i suoi rapitori – per giunta, confessò che erano fan di Guccini – e considerò quella vicenda da grande uomo qual era: “E’ stata solo un’interruzione di felicità”».