Gioca in B, ma è un campione

Daouda, un insegnamento per tutti

«Immagina di essere un calciatore professionista che sta per sfondare, viene chiamato dalla Juventus. E, invece, all’improvviso, resti paralizzato dalla vita in giù, a causa di una malattia rara». Storia di un ragazzo guineano, colpito da una polineuropatia su base autoimmune. Quasi un anno e mezzo su una sedia a rotelle, poi la lenta ripresa e il miracolo: tornare su un campo di calcio

 

«Immagina di essere un atleta, un calciatore professionista che, dopo una vita di sacrifici, sta finalmente sfondando e, improvvisamente, rimane paralizzato dalla vita in giù, non in seguito a un incidente o a un trauma, ma per una malattia rara, la cui causa scatenante è oltretutto sconosciuta».

Questa è la storia di Daouda Peeters, centottantacinque centimetri per un fisico da granatiere, l’ideale per un roccioso centrocampista centrale. Una strada spianata, un contratto con uno dei club più prestigiosi d’Europa, la Juventus, e, invece, un giorno succede quello che non ti aspetti. Non se lo aspetta nessuno, a cominciare da Douda, guineano, belga di adozione, che spiega ai microfoni di Sky e Dazn la sua storia nel post-partita di Cremona-Sudtirol. Una vittoria esterna che tecnico, compagni e società dedicano a Douda, con tutto il cuore.

Settantotto minuti in campo, per celebrare l’inizio di una vera e propria seconda vita, a 762 giorni dall’ultima gara ufficiale. Uno stop violento, di quelli che cambiano la tua vita in un attimo. Daouda, durante un allenamento, perde l’equilibrio e cade, sente di aver perso forza nelle gambe. Allo Standard lo portano in ospedale per alcuni controlli. «Mi sveglio e mentre vado in bagno – spiegò il giovane calciatore in un documentario di “Juventus Creator Lab” – cado per terra: non sento nulla, non riesco più a camminare».

 

 

LA MIA VITA RICOMINCIA…

«Per me oggi – ha spiegato ai microfoni di Sky, sollecitato dal conduttore in studio che ne conosce la storia – è un giorno importante, sono tornato a fare quello per il quale, forse ero nato, il calciatore: correre, calciare un pallone, contrastare un avversario, far ripartire l’azione».

Il tecnico del Sudtirol, Pierpaolo Bisoli, grande personalità, mostra il suo lato debole, viene tradito da un’emozione. Si smarrisce un solo istante, quando vede il suo ragazzone accasciarsi a terra: capisce in un attimo che è solo per un contrasto di gioco, Daouda si rialza, ma il tecnico lo sostituisce in via precauzionale. «Aveva giocato quasi ottanta minuti – dice l’allenatore – era già tanta roba per essere tornato dopo due anni a giocare, correre, faticare, mostrare che quanto gli è accaduto è solo un brutto ricordo, un incubo che nemmeno il peggior film horror…».

«Sono nato in Africa, in Guinea – aveva raccontato sul canale bianconero – a sei anni sono stato adottato e sono cresciuto in Belgio: ho una mamma, un papà, due sorelle e un fratello; il mio agente un giorno mi ha chiamato: “La Juventus è interessata”. E io: “Non è vero, non è vero! E’ il mio sogno”».

 

 

CHE MOMENTI, QUEI MOMENTI!

Il momento più brutto della sua vita. «Un giorno in allenamento perdevo l’equilibrio, avevo poca forza quando correvo o tiravo; quando sono arrivato in ospedale mi hanno fatto qualche test, ho dormito e il giorno dopo quando mi sono alzato per andare in bagno sono caduto. Ho perso tutto. Ho chiamato il dottore e gli ho detto che non riuscivo a camminare, non sentivo più nulla. E’ stato questo il mio giorno più brutto: dal nulla sentivo zero. Ho anche avuto paura di morire, alcuni che erano con me in ospedale dopo tre giorni sono morti perché quella “bestiaccia” in alcuni casi arrivava al cuore: ero sotto shock. Fino al giorno prima ero sano, ora non potevo più muovermi».

Il momento più bello. «Una mattina mi sono svegliato e ho sentito un piede che si muoveva, ho fatto i test e i dottori me l’hanno confermato. Quattro o cinque mesi ogni giorno, come un bambino, ho ripreso a camminare; avvertivo dolore perché i miei muscoli non erano più abituati a camminare, mentre dopo due, tre mesi capisco che sto migliorando, i miei muscoli funzionano e anche la connessione con il cervello: finalmente sono tornato a vivere».

Finalmente il campo. «Inizio febbraio, è stato fantastico: i miei compagni erano felici per me, io mi sentivo veramente bene, sono sano. Cosa significa essere tornato a giocare al calcio, essere tornato a fare quello che ho sempre sognato; essere tornato a vivere: questo vuol dire che nella vita tutto è possibile».

«Ci eravamo tanto amati…»

Giorgia Meloni lascia il suo compagno Andrea Giambruno con un messaggio social

Seccata dal “fuori onda” di Striscia la notizia (Canale 5), la premier dice addio al papà di sua figlia. La satira di Antonio Ricci e di Maurizio Crozza non perdona. Molte donne applaudono coraggio e gesto del Capo del governo, che non ci ha pensato su due volte nel congedare il papà della sua piccola Ginevra. Tornerà in Puglia

 

«Ci eravamo tanto amati, per dieci anni o poco più…». La canzone, un classico di metà secolo scorso, proseguirebbe con un «…ci eravamo poi lasciati, non ricordo come fu». E, invece, la parte lesa da galeotti fuori onda, lei la premier Giorgia Meloni, pugliese d’adozione, la storia appena chiusa con il giornalista Andrea Giambruno, sa perfettamente come è finita. Con un freddo addio, una sorta di “due colonne in cronaca”, come è d’uso ormai, attraverso un social, il suo profilo Facebook, poco le otto e mezzo in una delle prime gelide mattine romane.

«La storia finisce qui, sono stati dieci anni belli, siamo i genitori di una bimba adorabile…», eccetera, eccetera, eccetera. Poche parole ancora, sia chiaro. E senza tanti giri di parole. La Meloni non teme il confronto, qualcuno ricorderà anche come respinse le minacce di Berlusconi quando velatamente minacciò nuove elezioni: «Non sono ricattabile, io!». Quanta fermezza in quelle parole. Certo, se non fosse che a volte cede a certi predicozzi leghisti, come donna avrebbe tutta la nostra ammirazione.

 

 

NOTIZIA DEL GIORNO…

Ne scriviamo certamente non perché assatanati di gossip o attratti da pettegolezzi. Lo facciamo solo perché nei nostri “Fatti” settimanali trovano spazio notizie che circolano più insistentemente di altre. E un capo di governo che congeda con un messaggio social la propria metà, è una notizia. Pruriginosi i “fuori onda” di un compagno che fa lo splendido con una collega in studio, le parla di rapporti esuberanti, del rammarico per non averla conosciuta prima, così intelligente poi.

Da qui il “licenziamento in tronco” da parte della premier, che nel giro di un paio di mesi, come ha scritto la Gazzetta del Mezzogiorno, passa «di soggiorni nella masseria di Ceglie Messapica con piscina a forma di cuore, alla separazione via social».

Andando nel dettaglio, la relazione di Giorgia con Andrea finisce così, parola per parola: «La mia relazione con Andrea Giambruno, durata quasi dieci anni, finisce qui. Lo ringrazio per gli anni splendidi che abbiamo trascorso insieme, per le difficoltà che abbiamo attraversato, e per avermi regalato la cosa più importante della mia vita, che è nostra figlia Ginevra».

Taglia corto Giorgia, che nel mese di ferie trascorso in Puglia si era fatta immortalare con un vassoio di paccheri col granchio, ma mai con Giambruno.

 

 

NO A SPECULAZIONI E GOSSIP

Le gaffe del giornalista Mediaset, già elettore dem e solidale con le battaglie per i diritti civili Lgbt, erano state una costante dei primi mesi di governo, unite all’esposizione mediatica dovuta alla conduzione di una trasmissione su Retequattro. Fatali quei fuori onda con dialoghi caratterizzati da lessico ruvido e poco consono nei confronti di una collega. Quando «Striscia la notizia» ha mandato in onda quei video con le battute ammiccanti del conduttore, la situazione è risultata irrimediabilmente compromessa.

Titoli di coda e chi si è visto si è visto. Con, a seguire, i commenti di Antonio Ricci, patron del Tg satirico di Canale 5 e imitazione-parodia successiva di Maurizio Crozza che ha ricostruito con punte di impietoso sarcasmo («Governo, amore, perché non mi rispondi? Non è come sembra…»).

E mentre Giambruno «esce per sempre dal cono di luce di Palazzo Chigi dopo una serie di performance alla Alvaro Vitali», scrive ancora la Gazzetta, il Paese in rosa tributa un vero plebiscito alla Giorgia finalmente «libera» di potersi concentrare sull’agenda dei prossimi mesi: due guerre (Ucraina e Gaza), l’inflazione, la Manovra, lo spread, la bolletta energetica, il Pnrr e il Mes. Per proseguire con il prossimo G7 del giugno prossimo a Borgo Egnazia.

Insomma, la Puglia è sempre nel suo cuore. Se c’è un posto dove ricaricare le batterie e scaricare tossine, questa è la Puglia, per Giorgia Meloni diventata il centro del mondo e il suo “buen retiro”.

«Buongiorno, signora maestra!»

Quando a scuola c’era più educazione

Una provocazione scaturisce dai social. Un genitore confessa: un tempo c’era più rispetto per l’insegnante. Non sono tutti d’accordo: gli alunni di un tempo sono i papà e le mamme degli scolaretti di oggi. Certo, se solo i cellulari fossero parcheggiati negli zainetti…

 

«Buongiorno signora maestra!». E apriti cielo. Basta che un genitore si lasci sfuggire, anche con il beneficio d’inventario, una frase che pesca alla buona educazione di un tempo, che sui social si scatena il putiferio. Una modalità che ben conosciamo, considerando l’uso smodato che si fa a tutte le ore di qualsiasi strumento di comunicazione, sia questo Facebook o X (Twitter di un tempo), Instagram o Youtube. Sostanzialmente sono due le scuole di pensiero scatenate, pare da un messaggio lanciato da un genitore su FB: chi crede che sia esagerato invocare un sistema educativo superato da quarant’anni e più, e chi, invece, non dà tutti i torti a quel papà che si è lasciato andare a un sistema al quale lo avevano educato i suoi genitori.

Dunque, «Buongiorno» o non «Buongiorno, signora maestra!». Nel senso di recuperiamo vecchi insegnamenti da cui ripartire, oppure voltiamo pagina, senza troppo nasconderci la testa sotto la sabbia sapendo che niente potrà essere la stessa cosa?

Come spesso accade, ma non per essere comodamente salomonici, diciamo anche stavolta, che la verità può stare nel mezzo. Insomma, le due “scuole” hanno ragione e torto. Non lo diciamo noi, ma cerchiamo di fare un’analisi prendendo in seria considerazione qualcosa dell’una e qualcosa dell’altra.

 

 

“BENEDETTI” SOCIAL…

Dunque, la polemica su Facebook ripresa dal sito “Orizzonte scuola”. Per farla breve, il sito dalla parte della scuola stavolta si fionda su un post all’apparenza normale, ma che mette a confronto le generazioni passate e presenti. L’autore della provocazione indicato da “Orizzonte” plaude agli Anni Sessanta e Settanta, glorificando educazione e rispetto verso i docenti, un comportamento che, secondo il genitore che si pone e ed estende la domanda, mancherebbe oggi.

Il post parte da lontano. Per esempio, da come una volta i bambini andassero a scuola a piedi e avessero solo due libri (sussidiario e libro di lettura) e una sola maestra che insegnava tutte le materie. Molta enfasi lo scrivente pone, insomma, ad educazione e rispetto. Una glorificazione, si diceva, ai metodi educativi tradizionali degli anni Sessanta e Settanta, indicando nel suo quadro d’insieme una sorta di decadenza dei valori nei giovani di oggi. Figlia, con ogni probabilità, dei social di cui si diceva, senza contare il cellulare di ultima generazione, che «se non è di ‘ultima’ non lo voglio».

Non sono stati pochi a rispondere al post in questione sottolineando come questa visione possa essere idealizzata. Bene hanno fatto a puntualizzare che i bambini di ieri sono i genitori di oggi, che forse non hanno saputo trasmettere gli stessi valori ai loro figli. Alcune delle reazioni, critiche sicuramente, ma molto spesso di spessore, mettono in luce la frustrazione verso le precedenti generazioni, accusate di «non essere riuscite a educare adeguatamente se stesse – riprende Orizzonte scuola – figuriamoci le nuove generazioni». I commenti non finiscono qui, infatti diversi sottolineano come «alcuni di quella generazione siano ora percepite come omofobiche, razziste o intolleranti».

 

 

TRA PASSATO E FUTURO

D’altra parte, ci sono anche commenti che lodano i metodi di insegnamento del passato, rievocando con nostalgia i tempi in cui l’educazione e il rispetto erano insegnati con severità e il bullismo era una parola inesistente. Alcuni ricordano con affetto figure di maestri e maestre che, con metodi oggi considerati discutibili, rappresentavano un solido punto di riferimento. E dove per discutibili vengono considerate le bacchettate, le umiliazioni del «dietro la lavagna». Certo, atteggiamenti sbagliati: altra epoca. Ma, riprende qualcuno, vogliamo parlare dei tablet e dei cellulari che gli studenti usano indisturbati durante le ore di lezione e, peggio, durante le prove in classe?

Non sarebbe malvagio, insomma, fare un mix di quegli insegnamenti. Non fare passi indietro nell’uso della tecnologia, ma nemmeno in quelli dell’educazione: un maestro è una sapiente guida, è la figura che trascorre più tempo – rispetto a un genitore – con i nostri, i vostri ragazzi. Se un insegnante fa il suo mestiere confortato dalla collaborazione dei genitori dei piccoli studenti, che non si schiereranno a prescindere dalla parte dei propri figlioli facendone delle vittime, forse avremo compiuto passi in avanti.

Ma ci vuole una riforma, un investimento corposo (non solo in termini di denaro) e, soprattutto, tempo. E, perché no, pazienza, per assistere ai primi soddisfacenti risultati almeno nella prossima generazione.