«Sono nera, sono Pamela!»

Campionessa dentro e fuori dal ring

Pamela Malvina Noutcho Sawa, racconta. Dal fallimento del referendum, al lavoro in corsia, ai titoli italiano ed europeo. «Lavoro nel pubblico, ma in banca mi negarono il mutuo per la casa; ho fatto campagna referendaria con tutti i miei amici, molti non sapevano nemmeno che si votasse…», spiega. Cittadina italiana dal 2022, si batte per i titoli sportivi e per chiunque voglia sentirsi italiano

 

«Lavoro nel pubblico, ma in banca mi negarono il mutuo per la casa; ho fatto campagna referendaria con tutti i miei amici, molti non sapevano nemmeno che si votasse: cittadina, dopo venti anni, sognavo il “Sì” alle urne, per non essere esclusa». Pamela Malvina Noutcho Sawa, pugile, un titolo europeo dei leggeri donne, dopo aver battuto lo scorso anno la serba Nina Pavlovic, conseguì il terzo titolo nel pugilato femminile dopo quelli di Veronica Tosi e Silvia Bignami. «La mia vittoria è tutta per la città di Bologna», aggiunse dopo il match europeo per fare una dedica alla città in cui vive e dove lavora come infermiera all’Ospedale Maggiore.

Sognava un esito diverso per i referendum, ma in Italia, se non cambiassero le regole, con l’aria che tira e la sola metà degli italiani che si recano alle urne, sarà sempre più difficile abrogare una legge nonostante la maggioranza dei “Sì” sia schiacciante. Il referendum a cui Pamela si riferiva riguardava, ovviamente, il diritto di cittadinanza. Fosse stata abrogata la legge, sarebbero stati sufficienti cinque anni di lavoro consecutivi, e non dieci, per ottenere la cittadinanza italiana.

 

 

«SONO ITALIANA NERA!»

«Sono una donna, sono nera, sono Pamela!», aveva dichiarato, fiera, al Resto del Carlino, il quotidiano con sede proprio nella Città dotta. L’orgoglio non era di circostanza. Lei, Pam, lo aveva ripetuto e continuerà a ripeterlo fino alla nausea. «Mi sento italiana e spero che un giorno ci sarà anche un pezzo di carta che me lo dirà!». Camerunese, Pamela vive in Italia dall’età di otto anni, lavora come infermiera dell’ospedale Maggiore ma, si diceva, non ha ancora ottenuto la cittadinanza italiana.

Il video nel quale parla di questi e altri temi, è stato pubblicato sulla pagina della palestra “Bolognina Boxe”, che riporta testuale: «La cittadinanza non è un privilegio e neanche un’arma di propaganda politica da sbandierare ai quattro venti quando elettoralmente conviene». La riflessione la solidarietà della palestra, non solo a parole, ma con i fatti. «Come Asd Bolognina Boxe supportiamo la battaglia di Pamela e di tutte e tutti coloro i quali subiscono sulla propria pelle un razzismo istituzionalizzato che li rende di fatto cittadini di serie B, utili quando devono produrre manovalanza a basso costo ma non quando devono ricevere diritti».

 

 

CAMERUN, ITALIA, PERUGIA

Giunta a Perugia per riabbracciare il padre, ha vissuto l’adolescenza nella provincia umbra per poi trasferirsi a Bologna, dove ha iniziato l’università nella quale avrebbe conseguito una laurea in Scienze Infermieristiche. Ed è proprio nel capoluogo emiliano, durante un tirocinio in un centro di accoglienza per senza fissa dimora, che fa il suo primo incontro con il pugilato. Un amore a prima vista, Pamela impara in fretta e mostra subito grandi potenzialità con due allenatori come Alessandro Dané e Franco Palmieri.

«Sul ring della Bolognina Boxe, una palestra popolare che offre il pugilato nudo e crudo – riporta Il Resto del Carlino – quello intriso di valori sociali, che accoglie chi non può pagarsi gli allenamenti e che si radica nel quartiere di cui porta il nome per stare vicino alla gente».

 

 

E, FINALMENTE, BOLOGNA

Pamela comincia a lavorare all’Ospedale Maggiore e tra le corsie non mancano i contrattempi, anche molto sgradevoli. Esistono ancora pregiudizi, nonostante Bologna sia una città accogliente, aperta sotto questo punto di vista: più di qualcuno non la considera l’infermiera di turno, e questo alla futura campionessa europea di pugilato, fa male, molto più male dei colpi incassati sul ring.

Nel 2021 fa suo il titolo italiano, poi passa al professionismo. Dopo oltre venti anni in Italia attende una cittadinanza che sembra un miraggio. Una cittadinanza che, finalmente, arriva nel 2022 mentre a fine 2023 diventa campionessa italiana dei pesi leggeri.

Pamela Malvina continua a vincere, con il successo più bello che arriva proprio il 5 aprile nella sua Bologna, davanti agli oltre 2.500 del Paladozza che urlano il suo nome. Titolo europeo EBU Silver, sette incontri, zero sconfitte. «Sono grata a questa città, è un sogno», dice tra le lacrime sul ring di Piazza Azzarita. Dai quartieri popolari all’ombra delle Due Torri, tutti esultano per un successo che sa di riscatto. 

«Quarant’anni fa il dolore più grande…»

La comunità italiana e la tragedia dell’Heysel, la notte più lunga del calcio

Durante la finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool, gli hooligans sfondarono una barriera di recinzione invadendo il settore occupato dai tifosi juventini. La folla in fuga provocò il crollo di un muro, morirono 39 persone. Quella storia, iniziata con una festa e finita nel sangue, nel racconto di Tonio Attino, che a Lussemburgo andò a realizzare servizi e interviste per il suo libro “Il pallone e la miniera”, presentato anche in video per Costruiamo insieme (https://youtu.be/ThnBFywOgLQ?si=FnH7Qi9yp2A_ccNL)

 

Il 29 maggio 1985, un mercoledì di quarant’anni fa, la tragedia nello stadio Heysel di Bruxelles. Durante la finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool gli hooligans sfondarono una barriera di recinzione invadendo il settore occupato dai tifosi juventini. La folla in fuga provocò il crollo di un muro, morirono 39 persone. «A quella storia – racconta il giornalista Tonio Attino, intervistato anche da “Costruiamo insieme”, a seguire il link – ho dedicato, nel libro “Il pallone e la miniera”, un capitolo dal titolo “Bruxelles”. È la tragedia vissuta dalla comunità italiana della vicina Esch-sur-Alzette, la città operaia lussemburghese che aveva garantito un lavoro e una casa agli immigrati italiani».

«Avete notizie? Diteci qualcosa per favore, voi siete lì…». Attacca così, Attino, il ricordo di quella tragedia immensa che investì una comunità, quella bianconera, ma anche il resto del mondo sportivo, non solo del calcio. Del mondo intero, visto che il primo ministro inglese, prima che si pronunciassero le sfere più alte della Uefa, punì i tifosi e le squadre inglesi con una squalifica lunga cinque anni. Dolore e indignazione, per una volta, andarono pari passo. Attacca così, Attino, in modo agghiacciante, il capitolo del suo libro “Il pallone e la miniera” dedicando nel suo blog tonioattino.it (tante storie, tutte affascinanti, non solo di calcio) il ricordo della comunità lussemburghese che alla Coppa Campioni con la sua Jeunesse aveva partecipato più volte. Con un nome simile a quello della squadra torinese e una maglia a strisce verticali bianche e nere, ispirandosi non a caso ai colori sociali della stessa Juventus.

 

 

QUEL 29 MAGGIO DI 40 ANNI FA…

La sera del 29 maggio 1985 il telefono del Caffè Conti continuava a squillare e Jean-Pierre Barboni, il capitano della Jeunesse, seguitava a rispondere non sapendo che dire. «Chiamavano dall’Italia, da Gubbio, da Palazzo Mancinelli, il mio paese, e tutti chiedevano piangendo cosa fosse successo. Volevano notizie sui parenti, in tanti erano arrivati in pullman per la partita, ma io non potevo dire niente perché non sapevo niente».

Avremmo potuto riscrivere, riportare le dichiarazioni di tarantini, all’epoca, che avevano preso parte alla tragedia che si consumò in quel maledetto settore Z.  La disorganizzazione, nessun rispetto per quei morti messi in fila, a terra, alla vista dei tifosi; la telecronaca di Bruno Pizzul, che non fece cenno a quanto stesse accadendo, mentre le telescriventi, con largo anticipo sul fischio d’inizio della gara, informavano che si erano già registrate decine di vittime; le dichiarazioni di Gaetano Conte, commerciante tarantino, tifoso bianconero, che rese allo scrivente cronista per il “Corriere del giorno”. Quanto negli anni, non solo fisicamente, ma anche psicologicamente, abbia influito quella tragedia. Conte si affidò anche ai legali. Voleva che quelle immagini fossero cancellate per sempre. «Ogni volta che trasmettono le immagini della Champion’s, della Coppa vinta dalla Juventus, non si scappa: puntualmente ci sono le immagini in cui vengo ripreso, seppellito da calcinacci e calpestato dal fuggi-fuggi generale, uno choc che non finirà mai…»; le interviste raccolte dallo stesso Pizzul e il calciatore juventino Antonio Cabrini, passati da Taranto per motivi professionali il primo, e un impegno sociale il secondo. Ma il racconto, per come lo scandisce lo stesso Tonio, è straordinario.

 

 

…ALLE 19.20, L’INFERNO

«Erano le 19.20 – scrive Attino registrando personalmente, a Esch in Lussemburgo, le dichiarazioni di Jean Pierre Barboni, bandiera della Jeunesse – quando l’onda rossa diventò una marea, sfondò la rete di protezione del settore “Z” e travolse famiglie, persone anziane, ragazzini. Chi arretrò e riuscì a non farsi schiacciare, finì contro il muro all’altro capo della curva, e il muro fu schiantato dal peso. Con altre quattrocentomila persone incollate alla tv, Jean-Pierre osservava, rispondeva al telefono senza sosta, ascoltava le parole di Pizzul. Non sapeva che dire».

«Quando il muro crollò – riprende Barboni – a decine furono travolti; altre decine precipitarono da una quindicina di metri di altezza; altri furono calpestati nel flusso tumultuoso di chi cercava una fuga disperata dietro la spinta degli hooligans; altri ancora invasero il campo di gioco per trovare una via di fuga sotto gli occhi dei poliziotti a cavallo».

In una sorprendente e inutile scenografia sventolavano i manganelli, ricacciando all’indietro chi invadeva il campo per salvare la pelle. La telecronaca di Bruno Pizzul su Rai Uno risultava un po’ vaga per l’impossibilità di avere notizie aggiornate e chi stava davanti alla tv – in Italia, a Esch o nel Caffè Conti della famiglia Barboni – intuì la gravità del momento, senza comprenderla fino in fondo. Benché la dirigenza juventina non volesse giocare in quelle condizioni, le autorità belghe, incapaci di tenere l’ordine e terrorizzate dall’idea di quanto sarebbe potuto accadere in caso di rinvio della partita, chiesero e ottennero, praticamente imposero il rispetto del programma sportivo. Ma di sportivo ci fu poco, nulla.

 

 

ANCHE GIOVANI VITE SPEZZATE

Juventus e Liverpool s’erano già incontrati cinque mesi prima e i torinesi avevano vinto la Supercoppa. A Bruxelles, il vecchio Heysel doveva essere l’occasione di rivincita per i Reds allenati da Joe Fagan e un’opportunità per la Juventus del Trap di dimostrarsi più forte. Fu un’altra cosa.

Conclude Tonio Attino. Quando l’arbitro fischiò la fine e i giocatori della Juve presero la coppa portandola in processione intorno al campo, ai piedi della tribuna c’erano in fila trentanove corpi. Trentanove morti, trentadue italiani, quattro belgi, due francesi, un irlandese. Anche un ragazzino di undici anni, Andrea Casula, accanto al corpo del papà Giovanni. Anche una studentessa, Giuseppina Conti, diciassette anni. I feriti furono seicento. «Di notte, il telefono smise di squillare».

 

Costruiamo insieme, l’intervista a Tonio Attino

https://youtu.be/ThnBFywOgLQ?si=FnH7Qi9yp2A_ccNL

«Mar Piccolo, biodiversità in aumento»

Dalla Rai a Mediaset, tv e stampa nazionale lodano la ripresa di Taranto

«Sono state rilevate connessioni tra biodiversità e bonifiche a seguito della chiusura di 180 scarichi abusivi», ha dichiarato Vito Felice Uricchio, Commissario governativo per le Bonifiche dell’area locale, durante la “due giorni” sul progetto “Pnrr National Biodiversity Future Center – Nbfc Spoke 3” svoltasi in città il 14 e il 18 maggio. «In questi anni abbiamo lavorato per dimostrare l’importanza come questa può supportare le economie locali e favorire il miglioramento della qualità della vita delle persone», ha aggiunto Francesco Petracchini, direttore del Dipartimento Scienze del Sistema Terra e tecnologie per l’ambiente del Cnr

 

Ieri, sul Tg2, a ruota anche gli altri canali nazionali, dalla stessa Rai a Mediaset, le altre tv, da Sky  a La7, e via via tutto il panorama informativo, è andato in onda un ampio servizio sulla biodiversità in aumento nel Mar Piccolo. Finalmente giustizia per il nostro territorio, considerando che proprio sul nostro sito abbiamo parlato a più riprese di come si stesse riposizionando Taranto al centro del Paese, lontana dall’aspetto industriale del quale si è fatta carico con problemi di carattere ambientale negli ultimi sessant’anni: una sciagura. Bene, ora Taranto riprende a vivere, e bene, grazie all’ultima notizia ripresa da tutte le agenzie di stampa, le testate, i siti, viva il Cielo, rendendo giustizia, si diceva, a un territorio.

La notizia alla quale hanno fatto riferimento gli organi di informazione, a proposito della biodiversità in aumento, nel Mar Piccolo, scaturisce dalla “due giorni” del mini BioBlitz nell’ambito del progetto “Pnrr National Biodiversity Future Center – Nbfc Spoke 3” che, il 14 e il 18 maggio scorso ha coinvolto, a Taranto, studenti e cittadini.

 

 

SOTTO CON L’INFORMAZIONE

L’aumento in tema di biodiversità, come documentato da tv e stampa, è un dato in controtendenza rispetto a quanto in questo momento sta accadendo nel resto del mondo. Un dato incoraggiante che avrebbe una sua spiegazione, posto che si è registrata in questi anni la chiusura di numerosi scarichi abusivi.

La “due giorni” cui facciamo riferimento è stata organizzata dai ricercatori Fernando Rubino e Antonella Petrocelli del Cnr – Irsa Talassografico di Taranto con il supporto della Casa delle Tecnologie Emergenti Calliope. Grazia a questo impegno e quello di esperti ricercatori, sono stati in tanti ad aver scoperto un ecosistema unico.

«Si rilevano profonde connessioni tra biodiversità e bonifiche – ha dichiarato Vito Felice Uricchio, Commissario governativo per le Bonifiche dell’area di Taranto – testimoniate anche dall’importante incremento della biodiversità nel Mar Piccolo di Taranto a valle della chiusura di circa 180 scarichi abusivi; è questo un momento di scelte decisive per il territorio tarantino, di un serio impegno collettivo sul riconoscimento del valore della biodiversità e degli ecosistemi, su un uso responsabile delle risorse naturali, sul rafforzamento e la sostenibilità di tutte le attività produttive, oltre che di una progressiva ma inesorabile riduzione della contaminazione, al fine di assicurare un ecosistema florido e resiliente ed un Mar Piccolo fucina di biodiversità, in un contesto naturale integro e rigoglioso».

 

 

PETRACCHINI: «E’ LA STRADA GIUSTA»

Alla giornata inaugurale era presente anche il direttore del Dipartimento Scienze del Sistema Terra e tecnologie per l’ambiente del Cnr, Francesco Petracchini. «In questi anni – ha spiegato Petracchini – abbiamo lavorato in tutta Italia insieme ad altri enti di ricerca per studiare e dimostrare l’importanza della biodiversità e come, soprattutto nel Mediterraneo che ne è ricchissimo, questa può supportare le economie locali e favorire il miglioramento della qualità della vita delle persone».

«Comprendere l’equilibrio tra gli elementi fondamentali della natura, come il mare e un ecosistema unico come quello di Mar Piccolo – ha dichiarato il direttore scientifico di Calliope, Rodolfo Sardone – significa riconoscere il valore profondo della biodiversità come risorsa per la salute umana; il vero approccio One Health non pone l’uomo al centro, ma lo integra in un sistema complesso che va tutelato con responsabilità, innovazione e visione scientifica. Calliope lavora proprio in questa direzione, mettendo la tecnologia al servizio della sostenibilità e della vita».

 

 

UN “GRAZIE!” GRANDE COSI’

L’iniziativa rientra nella “Biodiversity Sampling Week – BSW” organizzata su scala nazionale. Promotore è il National Biodiversity Future Center (Nbfc), primo centro di ricerca nazionale dedicato alla biodiversità finanziato dal Pnrr – Next Generation EU. Tutto questo, poi, in vista della Giornata Mondiale della Biodiversità che cade il 22 maggio. Promotori: Nbfc, Irsa–Cnr, Commissario straordinario del governo per gli interventi urgenti di bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione dell’area di Taranto, Università degli studi di Bari Aldo Moro, Dipartimento Jonico UniBA, Arpa Puglia, Cte Calliope, Comune di Taranto. A collaborare alle attività: Asd Enjoy Your Dive, Asl Taranto, Guardia Costiera, Jonian Dolphin Conservation, Protezione Civile, Wwf.

«E dieci…»

Con l’arrivo di Achille, Chiara e Matteo, pugliesi, hanno fatto “cifra tonda”

I coniugi Amico-Calsolaro di Alessano, avevano programmato l’arrivo del piccoletto. «Parenti e amici erano già al corrente che l’ultimo nostro pargoletto ci avrebbe raggiunti a maggio e così è stato…», dicono i due genitori del nascituro venuto alla luce nell’ospedale di Tricase. Come si organizzerà la famiglia: «Spesa una volta la settimana, privilegiamo le offerte e le grandi quantità; i vestiti “passano”, a scalare, dal più grande al più piccolo»

 

«Lo abbiamo chiamato Achille, il nome è importante: ha un suo significato, la mitologia lo dipinge come un guerriero forte, coraggioso, qualità che proviamo a mettere in atto ogni giorno, perché non è semplice, ma con l’amore e l’armonia, tutto è possibile». Come dar torto a Matteo Amico, quarantuno anni, che a giornalisti di stampa e tv offre, anche a nome della moglie, Chiara Calsolaro, quarant’anni, un sorriso contagioso.

Uno di quei sorrisi che non mettono in secondo piano “varie ed eventuali” della coppia di Alessano, provincia di Lecce, che ha annunciato con gioia immensa il loro decimo figlio: Achille, si diceva: un maschietto, tre chili e mezzo, bracciotte e gambotte piene di energia, dato alla luce un pomeriggio di qualche giorno fa.

«Mamma e neonato godono di ottima salute e sono pronti a tornare nella loro affollata casa», hanno fatto sapere medici e personale dell’ospedale “Cardinale Panico” di Tricase. Insomma, una famiglia a tutto Salento. Meglio di così…

 

 

«AL MIO SEGNALE…»

Non è il Massimo Decimo Meridio del “Gladiatore”, ma ci piace pensare che l’ultimo pargolo al suo arrivo abbia accettato la sfida con la frase ormai leggendaria «Al mio segnale scatenate l’inferno!». Con l’arrivo del piccolo Achille, la coppia salentina può dirsi pienamente soddisfatta nell’aver fatto ancora una volta “strike”, il progetto di una famiglia numerosa, proprio come i due coniugi l’avevano pensata, desiderata. Adesso la “figliolanza” conta sette maschi e tre femmine. Il più grande ha diciannove anni. La scoperta della decima gravidanza di Chiara, appena dopo la nascita della loro ultima figlia, Vittoria, un anno compiuto lo scorso marzo.

Una scelta in qualche modo in controtendenza, quella di Chiara e Matteo nel costruire una famiglia così numerosa, posto il continuo calo demografico che si registra al Sud.

A qualcuno scapperà un sorriso (a noi basta quello di Chiara e Matteo), ma questa è la formazione dei due genitori da guinness dei prima, altro che “Show dei record”, con tanti saluti a Gerry Scotti: Mattia (diciannove anni), seguito da Azzurra (sedici), Francesco (quattordici), Riccardo (dodici), Enea (nove), Ludovica (sette), Diego (cinque), Luigi Maria (due), Vittoria (uno). «Ogni bambino – ha ribadito in più occasione la coppia – è stata una benedizione».

 

 

«FAMIGLIA NUMEROSA»

Qualcuno, perché non mancano quanti avranno benevolmente criticato marito e moglie, si sarà lasciato scappare un «Va bene una famiglia numerosa, ma loro l’hanno presa troppo alla lettera…». «Certo, questione di organizzazione familiare – ha risposto qualcun altro in difesa di Chiara e Matteo – ma se i due si organizzano, fanno incastrare i loro impegni, che male c’è?». Del resto, e questa è un’informazione certa, dal più grande al più piccolo gli Amico’s hanno imparato a fare squadra.

La notizia della nascita di Achille è arrivata puntuale. Achille, già si sapeva fosse un maschietto, doveva nascere a maggio e maggio è stato. Una notizia bellissima e soprattutto fuori dal comune che per la Puglia, di questi tempi poi, segna un vero e proprio primato. 

«Amici e parenti – hanno rivelato Chiara e Matteo – sapevano che volevamo arrivare a una cifra tonda, così è stato: diciamo che da quando abbiamo abbracciato Achille, contestualmente abbiamo alzato anche l’asticella, e dunque, siamo qui ad impegnarci in quella che considero una sfida bellissima, che non si può descrivere…».

 

 

UNA SQUADRA, TIFIAMO!

Qualcuno fa spallucce, da queste parti succede e su questo, papà e mamma, sono ferratissimi e allenati: «E i soldi? Non ci pensate che occorrono tanti soldi per portare una famiglia che conta fra genitori e figli dodici elementi?». Secondo il nostro modesto punto di vista, papà e mamma ci avranno pensato,e nemmeno una volta. Da qualche parte si dice «So quel che faccio, so quel che posso» e crediamo che Matteo il problema, se vogliamo chiamarlo “problema”, se lo sia posto. Il programma non si sposta di una virgola: «Spesa una volta alla settimana; privilegiamo le offerte e le grandi quantità; i vestiti “passano”, a scalare, dal più grande al più piccolo».

Una scelta singolare, ma a Chiara e Matteo, vogliamo far vivere questo sogno senza che qualcuno non si lasci sfuggire paternali? E se arrivasse un bel contratto pubblicitario? Hai visto mai? Coraggio, ragazzi, fuori i muscoli, come quelli che il piccolo Achille ha già mostrato, e fate vedere che la squadra può vincere a occhi chiusi. Tifiamo per voi.

«Inclusione per poveri e migranti»

Il nuovo papa è Robert Francis Prevost, Leone XIV

«Habemus Papam!». L’annuncio alle 19.13 di ieri, giovedì 8 maggio, dato dal cardinale Mamberti. «La pace sia con tutti voi, aiutateci a costruire ponti», le prime parole del primo papa americano. Avvicinarci gli uni agli altri, giammai allontanarci. Prevost, il nuovo papa, si distingue per aver aderito con profonda convinzione alla linea pastorale di Papa Francesco. Pertanto massima vicinanza alle persone

  

«Habemus Papam!». L’annuncio alle 19.13 di ieri, giovedì 8 maggio, è stato dato da protodiacono cardinal Mamberti. Il nuovo Papa è Robert Francis Prevost, per la Chiesa Leone XIV. Le prime parole pronunciate dal nuovo pontefice: «La pace sia con tutti voi, aiutateci a costruire ponti». Dunque, ad avvicinarci gli uni con gli altri, non ad allontanarci. Prevost, il nuovo papa, si distingue per aver aderito con profonda convinzione alla linea pastorale di Papa Francesco. Pertanto particolare attenzione a temi come «l’inclusione dei poveri, dei migranti e la massima vicinanza alle persone».

Naturalmente gli organi di informazione americani sono i primi a lanciare la notizia, ad avanzare ipotesi su quali potranno essere i temi sui quali Leone XIV interverrà. Infatti, «Il primo Papa americano», è quanto scrive l’autorevole New York Times. «Il nuovo Pontefice è lo statunitense Robert Prevost, il primo Papa americano nella storia», lancia nel suo primo notiziario la Cnn.

 

 

DONALD TRUMP: «CONGRATULATIONS!»

Sempre dagli Stati Uniti, nemmeno a dirlo, arrivano le congratulazioni di Donald Trump, il presidente USA. «Congratulazioni vivissime al cardinale Robert Francis Prevost, appena nominato Papa; è un grande onore sapere che è stato eletto il primo pontefice americano», ha riportato nel suo post su uno dei social dell’inquilino della Casa Bianca. «Non vedo l’ora – ha aggiunto Trump – d’incontrare Papa Leone XIV; sarà un momento molto significativo». Ce lo auguriamo tutti, ovviamente, anche se nel breve messaggio del presidente americano non si leggono commenti sul discorso con il quale LeoneXIV si è insediato, a proposito di «pace e uguaglianza». Magari il social in questione non raccoglieva più di un tot di caratteri.

«La pace sia con tutti voi, fratelli e sorelle carissimi – le prime parole del pontefice – questo è il primo saluto del Cristo risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio; anche io vorrei che questo saluto di pace raggiungesse le vostre famiglie, tutte le persone, a tutti i popoli, a tutta la terra: la pace sia con voi».

 

 

AGOSTINO, UN SANTO AFRICANO

Prevost, si diceva, si distingue per la sua adesione alla linea pastorale di Papa Francesco. Particolare l’attenzione a temi l’inclusione dei poveri e dei migranti, la promozione di un episcopato vicino alle persone. Leone XIV, come ha spiegato lo stesso papa nel suo primo discorso, è un agostiniano. Un americano di origini francesi, italiane, spagnole, come ha spiegato in una intervista resa di recente alla Rai. Sant’Agostino che unì civiltà classica e cristianesimo, un santo africano eppure romano, cattolico, ma onorato anche da protestanti e ortodossi; Leone, come Leone Magno che fermò Attila e obbligò Genserico a rispettare i civili e le chiese. Come Leone XIII che con la “Rerum Novarum” pose le fondamenta della dottrina sociale della Chiesa.

Robert Francis Prevost, grande e solida cultura, uomo di quell’Occidente che sa essere universale. Nelle sue e nelle premesse di chi spiega il suo punto di vista, la speranza di un’era nuova di pace, valori eterni, solidarietà fra gli uomini. «Auguri, Pontefice romano!», così su X, il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara. Lo riporta il sito “Orizzontescuola.it”, che puntualmente ha riportato i passaggi che hanno condotto in così breve tempo l’elezione del nuovo papa.

 

 

CHI E’ PAPA LEONE XIV

Nato a Chicago il 14 settembre 1955, rappresenta una delle figure più influenti della Chiesa cattolica contemporanea. Dopo una lunga esperienza missionaria in Perù, dove ha guidato il seminario agostiniano di Trujillo e ricoperto incarichi pastorali e formativi, Prevost ha assunto ruoli di primo piano nell’Ordine degli Agostiniani, di cui è stato priore generale per due mandati. Nel 2014 Papa Francesco lo ha nominato amministratore apostolico della diocesi di Chiclayo, di cui è poi diventato vescovo, distinguendosi anche come vicepresidente della Conferenza Episcopale Peruviana in un periodo di forte instabilità politica nel Paese.

«Stipendio da fame, non ce la faccio più!» 

Giovanni, milleduecento euro al mese, confessa la condizione

“Lavoratore povero”, ecco l’ultima categoria. Secondo l’Istat rientra nella categoria “occupati”, ma nell’Italia degli stipendi bloccati da venti anni lavorare non sempre significa fare una vita dignitosa. «Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita», ha detto il presidente Sergio Mattarella  

 

Ieri, giovedì, Uno maggio, Festa del Lavoro. Detta così, secondo quelli che scrivono bene, “Festa del lavoro” tout court, è un ossimoro. E’, cioè, una cosa e il contrario della stessa. In sintesi, la “festa del lavoro” (scritta a caratteri minuscoli, volutamente) è il lavoro che fa festa, non va a cercare più nessuno, come un tempo. Di lavoro ce n’è sempre di meno in giro. E quello che c’è è pagato male.

Non sappiamo nemmeno cosa le manifestazioni di Roma e Taranto, con il massimo rispetto per le idee messe in campo possano realmente fare nel segnalare un tema, il lavoro, che sta a cuore a tutti: quella tarantina ha uno spessore politico, quella romana è solo un avvicendamento di musica, la diretta Rai contiene qualsiasi tentativo di messaggio, criptico o palese che possa essere.

 

 

MATTARELLA: SALARI BASSI!

Il presidente della Repubblica, Segio Mattarella, ultimo Capo dello Stato a difesa della Costituzione, ha lanciato un monito sui salari bassi: come fa una famiglia monoreddito “a campare”, a sopravvivere ad una incessante ascesa dei prezzi sui beni primari. Qui si parla di carrello, di spesa alimentare, dunque di povertà, ma le prime pagine dei giornali scrivono di dazi su auto e tecnologia. Pazzesco. Ci vergogniamo anche un po’ a ricordarle certe cose, tante volte a qualcuno venisse in mente di considerare queste poche righe come qualunquismo o populismo: parole, sostanzialmente, da sbandierare al vento, come se volessimo fare scena. Invece, entriamo subito in partita, come si dice, in argomento.

L’altro giorno il Corriere di Torino, dorso del Corriere della sera, quotidiano magistralmente diretto da dieci anni precisi (dall’1 maggio del 2015) da Luciano Fontana, ha pubblicato un’intervista di Nicolò Fagone La Zita, a Giovanni, quarantotto anni, assunto a tempo indeterminato, milleduecento euro al mese. Praticamente “lavoratore povero”.

 

 

«LAVORO DALL’ETA’ DI 15 ANNI»

«Lavoro da quando ho quindici anni – racconta al giornalista del Corsera – la mia sfortuna è quella di essere un metalmeccanico, a Torino, nel 2025». Padre separato, contratto a tempo indeterminato, Giovanni rientra nella neocategoria “lavoratori poveri”. “Non cerca impiego”, scrive Fagone La Zita, perché Giovanni è assunto. Allo stesso tempo, pur volendo, “non fa gli straordinari perché mancano le commesse, la sua speranza è quella di finire il meno possibile in cassa integrazione”. Sarebbe un dramma nel dramma.

Secondo le statistiche Istat, Giovanni, come tanti altri suoi colleghi, rientra nella categoria degli “occupati”, anche se nell’Italia degli stipendi bloccati da venti anni lavorare non sempre significa fare una vita dignitosa, come invece previsto dalla Costituzione. «Tante famiglie – ha detto nei giorni scorsi Mattarella – non reggono l’aumento del costo della vita; i salari insufficienti sono una grande questione per l’Italia».

 

 

MILLEDUECENTO EURO AL MESE!

«Oggi – spiega Giovanni – guadagno circa milleduecento euro al mese, ma tra affitto, mutuo e mantenimento del bambino se ne vanno settecentocinquanta euro: di euro ne restano appena quattrocentocinquanta, per pagare le bollette, per fare la spesa e sostenere i costi quotidiani: arrivo a malapena a metà mese: non mi rivolgo agli amici per orgoglio; l’ultima volta ho chiesto aiuto a mio padre, ottantacinque anni; vive in Sicilia, quella stessa terra  che ho lasciato affascinato da un futuro migliore».

In Sicilia, Giovanni ci tornerebbe pure, ma vuole stare accanto al figlio di undici anni e al quale non vuol far mancare nulla». Riflessione e chiusura circa l’intervista che può essere consultata interamente sul sito torino.corriere.it .«Gas, luce, beni alimentari, assicurazione, benzina: tutto è aumentato a ritmi insostenibili; non credo si tornerà indietro: mi sento abbandonato dalla politica, nessuno mi rappresenta davvero». 

«Il mio cuore batte per Baggio»

Bottio, cardiochirurgo, l’uomo dei record

Padovano, tifoso del Lanerossi, innamorato del Divin codino, esercita al Policlinico di Bari. «Per raggiungere un primato occorre essere una squadra, ognuno deve fare il suo». Affascinato dalla Puglia, bellezza, tavola, vini. «Prima i pazienti prenotavano al Nord, oggi operiamo più di quanto non facciano “su”: tre trapianti in un solo giorno, il nostro primato»

 

La notizia risale all’inizio dell’anno. A riprenderla è l’agenzia Ansa. Fa il paio con quella di un paio di anni fa. La prima riguarda tre trapianti di cuore in 24 ore. Eseguiti al Policlinico di bari, secondo quanto comunica la struttura sanitaria in una nota, evidenziando che «la maratona per la vita è partita la sera di giovedì 23 gennaio dall’ospedale universitario barese e si è conclusa poco dopo mezzanotte del giorno successivo. Gestisce gli interventi l’equipe cardiochirurgica dell’unità operativa guidata dal professor Tomaso Bottio, che si è occupata tanto delle operazioni di prelievo a Bari, Torino e Milano, quanto dei trapianti di cuore nel blocco operatorio di Asclepios.

«Condurre a termine tre trapianti di cuore in un arco di tempo così breve – aveva spiegato Bottio – è il risultato di un grande lavoro di squadra; deve esserci una perfetta sinergia tra cardiochirurghi, anestesisti, perfusionisti, infermieri e operatori di sala; solo questo ha reso possibile arrivare alla fine di questa maratona». Orgoglioso il direttore generale Antonio Sanguedolce. «Il Policlinico di Bari si conferma un centro di riferimento nazionale per la cardiochirurgia e i trapianti di cuore».

 

 

PIU’ MERIDIONALISTA DI TUTTI

Bottio, padovano, da quattro anni trasferito al Sud per dirigere l’Unità di cardiochirurgia del policlinico barese, confessa: «Sono diventato più meridionalista di tutti». Premessa plausibile, prima di spiegare come sia possibile raggiungere risultati così alti, nonostante al Sud il numero dei donatori sia molto basso. “Tanto per chiarire – scriveva un paio di anni fa il quotidiano l’Avvenire – la Lombardia ha 350 donatori l’anno, ma fa meno trapianti della Puglia con un centro solo”. «Se c’è la disponibilità degli operatori ad andare a prendere l’organo – aveva dichiarato allo stesso giornale Bottio – ovunque si trovi, si possono raggiungere questi risultati; su cinquantacinque trapianti, ventitré appartengono a donatori del Nord, sedici fuori dalla Puglia e tre dall’estero: ciò vuol dire che quest’anno abbiamo preso un aereo quarantadue volte». Bottio spiega che il percorso per arrivare alla sala operatoria e salvare la vita a un paziente non è affatto semplice.

«Per definire un organo idoneo – dice – vengono eseguiti diversi esami sulla funzionalità, la presenza di infezioni virali e batteriche e stabilire così il livello di rischio; poi l’organo viene accettato anche relativamente alle condizioni del proprio ricevente: se si ha un paziente di settant’anni va bene un organo di un donatore coetaneo, ma se il ricevente ne ha 36 posso accettare un organo di un settantenne solo se il mio paziente rischia di morire nelle successive ventiquattro ore». In questi casi, velocità e disponibilità segnano la differenza tra la vita e la morte. Come spesso accadeva in passato, era il Nord la meta di quanti necessitavano un trapianto. Oggi, ma diciamo anche da qualche anno, il numero di preferenze si è capovolto. «In passato la maggior parte degli utenti del Sud preferiva farsi inserire in lista per trapianto di organo nei centri del Nord che avevano un più alto volume di trapianto del cuore; ora riusciamo a trapiantare molto rapidamente gli utenti che mettiamo in lista ogni anno».

 

 

SUD, CHE PASSIONE

Il suo percorso di chirurgo lo ha spiegato nei giorni scorsi a Gianni Messa, giornalista di Repubblica in un ampio servizio per l’edizione di Bari. «Arrivo da associato nel gennaio del 2022, poi nell’estate del 2023 Milano va in pensione e io divento il facente funzione fino a un nuovo concorso, nel 2024, e la nomina a professore ordinario». Una compagna da 15 anni. E una bimba di sei. «Vivono a Padova: Jonida medico a Venezia; faccio il pendolare una volta al mese, anche se mi sono ripromesso di salire più spesso perché meritano entrambe la giusta attenzione».

Benvenuto al Sud. «Conoscevo la Puglia dai libri di storia dell’arte e dal vivo il Salento, ma non ero mai stato a Bari. Il primo impatto l’ho avuto con lo stadio San Nicola, l’astronave di Renzo Piano: una bella sorpresa». Gli chiedono della sua passione calcistica. «La stessa di quando ero un giovane ultrà: il Lanerossi Vicenza, quello del grandissimo Roberto Baggio». Ancora Puglia. «Ho scoperto paesi bellissimi – conclude Bottio – a cominciare da Sammichele di Bari con il suo centro storico, e piatti incredibilmente buoni, due vini su tutti: la verdeca fra i bianchi e il primitivo fra i rossi; poi c’è la signora che mi assiste per le pulizie che ogni tanto mi porta i suoi fagioli, i ceci o riso patate e cozze». Un classico.

«Il mio Ramadan…»

Nadia Battocletti, campionessa azzurra di atletica, musulmana

«Sveglia tra le tre e le quattro del mattino per fare un’abbondante colazione, dolce o salata: un pasto leggero», racconta alla Gazzetta dello sport. «Nel tardo pomeriggio, un piatto arabo, ma anche datteri, che adoro; la sera, invece, qualcosa di più serio: pasta, carne o pesce». Mamma Jawhara Saddougui, marocchina, ex mezzofondista, rivela ad atleticamagazine.it: «Quando era piccola andavamo sempre in Marocco d’estate: quando finirà l’università si rimetterà a studiare l’arabo»

 

Sfogli la Gazzetta dello sport, che sia cartacea o in pdf, il giornale più letto d’Italia, scrive e racconta calcio in quantità industriale. Però, c’è il “però”: quando, nelle pagine successive alle attività pallonare di A, B e C, sbuca un articolo, che poco ha che fare con lo sport nazionale, allora c’è da prestare attenzione. Uno sportivo, che non sia Sinner, deve avere non uno, ma almeno dieci motivi per avere uno spazio così significativi. Fra le pagine più curate, che abbiamo spesso apprezzato, quelle di “Altri mondi”: la politica e qualsiasi altro affare, televisione e cinema compreso, trattato in una “cartella” (l’unità di misura di una redazione giornalistica) in modo esaustivo. Ma questo, è il caso di dire, questo è un altro mondo.

Dunque, qual è l’articolo che la Rosea ha dedicato in questi giorni a una delle voci fuori dal coro calcistico? Bene, svelato l’arcano: a Nadia Battocletti, grande atleta, argento olimpico nei diecimila metri piani ai Giochi di Parigi dello scorso anno. Fra i diversi temi affrontati da Nadia, uno di quelli che ci stanno particolarmente a cuore: il Ramadan che ha da poco concluso. Sapete quanto rispetto abbiamo per la fede religiosa di chiunque. Quando poi a raccontarsi e a raccontare la sua esperienza di fede e di sport è un’italiana (madre marocchina), non può che avere tutta la nostra attenzione.

 

 

SVEGLIA ALLE TRE DEL MATTINO…

Dunque, la Battocletti in questi giorni ha rivelato la sua massima attenzione posta al mese del digiuno islamico. «Non è stata una vera e propria passeggiata di salute – ha raccontato l’atleta alla “Gazzetta” – in quanto mi svegliavo tra le tre e le quattro del mattino per fare un’abbondante colazione, dolce o salata: un pasto leggero, nel trado pomeriggio, fra le 18.00 e le 19.00, con un piatto arabo, per esempio di datteri che adoro». Non finisce qui. «Verso le 21.30 – prosegue Battocletti – qualcosa di più serio: pasta, carne o pesce: i liquidi, non da assumere di giorno, superavano i tre litri nelle 24 ore; sia chiaro: non soffrivo fame o sete, in quanto l’apporto calorico complessivo non era tanto diverso dal mio solito».

Torna al marzo scorso. «Ho portato tutto all’estremo – confessa alla “Gazzetta” – forse gli ultimi giorni sono stati pesanti; osservo il Ramadan, una fede e una cultura ereditate dalla mamma, marocchina: sono felice di osservarle; le chiavi sono disciplina e autocontrollo, non è semplice, ma mi stimola, mi apre ad altre prospettive, mi serve in tutto».

 

 

MAMMA JAWHARA CONDIVIDE

Mamma, Jawhara Saddougui, marocchina si diceva, anche lei ex mezzofondista, segue la figlia come un’ombra. In una bella intervista rilasciata a Giuseppe Scordo per atleticamagazine.it, Jawhara ha svelato più di qualche aspetto più personale. Per esempio, se Nadia conoscesse l’arabo. «Quando era piccola – rivela – e andavamo sempre in Marocco d’estate, lei studiava la scrittura, un esercizio che col passare del tempo ha coltivato un po’ meno; a livello orale, capisce tutto ma parla poco, però mi ha detto che quando finirà l’università, si rimetterà a studiare l’arabo, una promessa che non può che farmi piacere: è musulmana come me, osserva il Ramadan fin da piccola.

Infine, Nadia, proprio da bambina, chiedono a mamma come la sua piccola fosse in tenera età. «Vivace, non stava mai ferma, si è dedicata a tanti sport: faceva anche tennis ed equitazione ma non tornava mai a casa stanca; difficile starle dietro, con lei ho tirato fuori il massimo delle energie che avevo». Qualcosa sui primi passi compiuti nell’atletica. «Partecipava alle gare di paese qui in Val di Non – spiega ad atleticamagazine.it – ma più che la gara in sé, a lei piaceva il dopo, perché poi si facevano delle piccole festicciole e amava divertirsi con gli altri bambini; essendo figlia unica, a casa non aveva con chi giocare o litigare: stare fuori all’aria aperta e in compagnia la faceva sentire felice».

«Torno, ma non è una sconfitta»

Sabino, pugliese, compie la sua scelta di vita “al contrario”

«Dipendente alla Maserati con milleseicento euro al mese, in tasca non mi restava più nulla», racconta. «Così ho fatto le valigie, ci ho rimesso dentro anche i miei sogni e via, senza rimpianti».  Riconoscente agli emiliani, «tornare a stare vicino ai propri cari non ha prezzo»

 

«Tornare indietro può sembrare una sconfitta, magari per qualcuno lo è, ma alla fine tornare a casa propria, comunque sui propri passi, è riconfigurare una scelta di vita». Non è un pensiero di Sabino, lui sì che è un ragazzo coraggioso e a breve ne racconteremo a larghi tratti la sua “scelta di vita”, ma è una canzone – chiamiamola così – che in questi anni stiamo ascoltando troppo spesso fino ad assumere il tono di un imbarazzante tormentone. Sono in molti gli uomini, i ragazzi del Sud, a tornare sui propri passi. I più maturi, pensionati, i sopravvissuti al monoreddito, compiono quasi una scelta obbligata; i più giovani, hanno provato a imprimere una svolta, studiando e “mantenendosi”, ma è stata dura: i ritmi sono diventati insostenibili, quei pochi soldi guadagnati in lavori part-time o a tempo pieno, non sono sufficienti per fare una cosa e l’altra: lavorare e studiare.

E una volta finito lo studio, quella laurea che “giù” non poteva conseguire, vale “su”? Bel dilemma. Così stiamo assistendo sempre più a un doloroso ritorno a casa. La Puglia, in particolare, e per fortuna, sta diventando la meta più invitante dei turisti. Prima solo in estate, adesso anche in primavera, in autunno. Al resto, a uno studio sostenibile anche stando a casa, non ci pensa più nessuno. «Partono i cervelloni, perdere un pezzo di intelletto ci indebolisce, non ci permettere di crescere», dice con tono dimesso chi vede partire i propri figli all’estero.

 

 

IL SOGNO NON ABITA QUI

«Mio figlio, un elettricista, di quelli in gamba, è partito per il Canada, nel giro di un paio di anni è diventato un manager, l’azienda per cui lavora non può più fare a meno di lui: è legato all’Italia, può lavorare in remoto, così ha preso casa a Roma e sta sei mesi in Canada, sei mesi in Italia: non “scende” spesso in Puglia, ma se vogliamo vederlo possiamo anche raggiungerlo nella capitale, quattro ore di auto…». Questo un papà, rassegnato. Tutto sommato soddisfatto che il figlio, almeno, non abbia da raccontare una sconfitta, una cocente delusione. Insomma, per un genitore, sapere “sistemato” il proprio figlio tutto sommato può essere una consolazione.

C’è poi chi, invece, come Sabino, torna. La sua è stata una decisione elaborata, rimuginata, rimescolata ben bene e, alla fine, da quel ragazzo sveglio che è – è un ingegnere, “chapeau”! – ha preso la sua scelta. Non “dolorosa”, perché con milleseicento euro al mese di stipendio, in Emilia Romagna, come puoi mettere su famiglia? Se fai un mutuo, non puoi mangiare e, ad oggi, fino a prova contraria quello di mangiare è un vizio difficile da farsi passare.

Sabino, dunque. La sua storia, raccontata dal Corriere del Mezzogiorno, “dorso” del Corriere della sera, e ripresa dal free-press Leggo, è di un ritorno a casa. Ci fossero state le condizioni per restare incollato a un sogno, sarebbe rimasto in Emilia. Adesso è qui, parla senza reticenze della sua decisione.

 

 

PROGETTI ADDIO

«Ringrazio l’Emilia Romagna, pensavo che il mio futuro professionale potessi scriverlo qui, invece no…». Trentadue anni, originario di Canosa di Puglia, dopo anni tra Bologna, Modena e Maranello, ha deciso di tornare a casa. Troppo alto il costo della vita, vanno bene i sacrifici, ma quando alla distanza ti accorgi che fra le mani non ti restano nemmeno le briciole, allora prendi una decisione.

«Lavoravo come infermiere in Inghilterra – riporta la Redazione web del Corriere del Mezzogiorno – millesettecento euro a settimana, corsi pagati e un aiuto per l’affitto, ma sono tornato a Bologna…». Laureato in Ingegneria Elettrica al Politecnico di Bari, percorso di studi completato nel capoluogo emiliano, ha compiuto i primi passi nel mondo dell’automotive elettrico.

 

 

LA FERRARI, DI CORSA A CASA

Prima l’approdo alla Ferrari, a Maranello (Modena), poi alla Maserati di Modena come project manager energy. «Progettare le componenti per i primi veicoli elettrici Maserati mi sembrava un sogno». Un sogno che faceva a cazzotti con la busta-paga. «Milleseicento euro, 750 solo per l’affitto, più le spese, mi restava ben poco per vivere».

Nel 2021, un’offerta da Enel X, settore della mobilità elettrica, sede a Roma, ma il lavoro da remoto gli consente di trasferirsi a Canosa, respirare aria di casa e ridurre i costi. Gennaio 2025, l’occasione: il trasferimento definitivo a Bari, negli uffici di viale Capruzzi, Sabino prende casa a Molfetta. «Venti minuti di treno e sono al lavoro: solo chi ha vissuto al Centro-Nord può capire i costi altissimi da affrontare», dice Sabino. Nessun rimpianto, solo gratitudine. «Ho sempre amato il sole e il calore della Puglia, ora l’ho rivalutata ancora di più; poi, essere vicino ai propri cari non ha prezzo».

«Quanto insegnano le sconfitte!»

Gianni Bugno, due volte campione del mondo, si alza sui pedali

«Mi è toccato ripartire, ma che sconfitta vedere gli altri scappare. Tranne uno, “El Diablo”, Claudio Chiappucci, cui sarò eternamente grato», dice il grande ciclista, maglia iridata nel ’91 e nel ’92. «Mi ritirai dal liceo, colpa di una professoressa, ma poi conseguii il titolo di studio per prendere il brevetto da pilota di elicotteri…»

 

Gianni Bugno, a più di trent’anni dai suoi titoli mondiali, a molti il suo nome dirà poco. Male, molto male: ci troviamo di fronte a una vera leggenda, uno sportivo di statura internazionale, con due titoli mondiali, tanto per gradire; un uomo che in questi giorni ha raccontato quanto di bello la vita di grande ciclista gli abbia riservato, ma ha anche fatto outing, cioè confessato quanto la vita non gli ha risparmiato.   

Tredici anni da professionista, dall’85 al ‘98, è stato campione del mondo su strada (’91 e ’92). Settantadue vittorie, nove tappe al Giro d’Italia (vinto nel ’90), quattro al Tour de France e due alla Vuelta a España. Se su strada era imbattibile, in politica non si poteva dire che Gianni, il buon Gianni, fosse irresistibile. Due candidature, due bocciature (Regionali e Comunali).

In questi giorni il Corriere della sera lo ha intervistato. Bella intervista di Marco Bonarrigo. Ce ne sono, ma questa, permetteteci di esprimere un’opinione, conoscendo questo lavoro, è veramente bella. Scava in profondità, lo fa con stile, riesce a tirare fuori cose che, forse, non si sarebbe mai sognato di raccontare. Considerazioni mai estorte, ma rese perché l’intervistato stabilisce subito una certa empatia con il cronista, fino ad aprire i cassetti della memoria provando, perché no, a fare anche un po’ d’ordine.

 

 

BELLO IL GIRO, MA…

«Bello il Giro d’Italia – confessa, in buona sostanza, Bugno al giornalista – ma la prima vittoria da ragazzino a Monza mi fece un effetto straordinario: una sensazione fortissima, mai più vissuta». Prosegue il due volte campione del mondo, che svolta. «A posteriori ho capito che apprezzavo più le sconfitte: mi facevano riflettere sugli errori e su come intervenire per correggerli: ecco, ho imparato dal modo in cui perdevo».

Il ciclismo come professionista arriva a seguito di una delusione avuta come studente. «Fui rimandato in italiano e latino, da una professoressa che sosteneva che chi faceva sport non potesse andare bene a scuola, così non mi presentai agli esami dichiarando chiusa la mia esperienza studente».

La maturità scientifica arriva più tardi. C’è una ragione. Quel titolo di studio gli serve per conseguire il brevetto di pilota di elicotteri. «Guardavo l’elicottero della Rai che ci sorvolava durante le gare – dice il campione – e pensavo che quello sarebbe stato il mio nuovo lavoro: cinquemila ore in volo prima con la Rai poi al 118».

Turni pesanti. «Dormivo in branda negli aeroporti militari: turni di dodici ore, cinque minuti per accendere i motori dopo la chiamata, trenta secondi per decidere se decollare o meno». Fondamentali, infatti, sono le condizioni del tempo, una responsabilità non indifferente. Per se stesso e per gli altri. Lui, il pilota, gli altri, personale medico, paramedico e passeggeri da trasportare in ospedale, in gioco il bene più prezioso: la vita».

 

 

UN COLPO AL CUORE

Cinque anni fa, causa un malore, a Bugno tolgono il brevetto per non riconsegnarglielo più. «Non c’è stato verso di riaverlo. È stato un periodo bruttissimo, la Federazione Ciclistica mi aveva abbandonato, ero entrato in tunnel senza via d’uscita: mi salvò Claudio Chiappucci, “El Diablo”, mio antico avversario. Mi ha invitato a incontri, eventi, pedalate turistiche, fino a diventare inseparabili, mi ha restituito il senso della vita».

Cosa fa oggi, in cosa è impegnato. «Seguo le grandi gare sulla macchina della giuria; studio quello che succede e suggerisco accorgimenti per garantire che nessuno si faccia male in un mestiere dove si corrono ancora troppi rischi». Gianni Bugno è infaticabile. Non si ferma mai, la sua mente pedala, mette in ordine le ultime idee. «Ecco un altro progetto – confida a Bonarrigo – guidare i camion, ho le patenti B, C e D; eccetto i bus di linea, posso guidare tutto: se qualcuno ha bisogno, io ci sono».