Morire all’ultima curva

A poche decine di metri dalla meta tanto ambita una giovane migrante africana, che stava camminando con altre persone sull’autostrada A10, è stata investita e uccisa da un tir spagnolo in una galleria, subito dopo la barriera autostradale di Ventimiglia, poco prima dell’ingresso in territorio francese.
Il gruppo potrebbe essere stato ospite della parrocchia di Sant’Antonio alle Gianchette di Ventimiglia, dove alloggiano una cinquantina di migranti, inlarga parte famiglie eritree: “Stiamo attendendo notizie – dice il parroco don Rito Alvarez-. C’è molta tristezza nel vedere che queste persone che compiono un viaggio così lungo per lasciare la guerra trovano la morte in Europa”.
Una famiglia di sette eritrei stava tentando di espatriare in Francia passando dall’autostrada per evitare il blocco della polizia francese, ma è accaduto quello che spesso in questi mesi di emergenza si era temuto, all’interno della galleria “Cima Girata” dentro la quale si oltrepassa il confine tra Italia e Francia. Era quasi riuscita ad arrivare in Francia anche se la possibilità di non essere subito fermata dalla polizia sarebbe stata assai bassa per la giovane migrante eritrea che non ha avuto neanche questa occasione.
Il sindaco di Ventimiglia Enrico Loculano ha espresso il cordoglio della città con questo messaggio: “L’Amministrazione Comunale prova un profondo senso di angoscia nell’apprendere la notizia della morte di questa giovane ragazza. Il sistema Europa così organizzato si manifesta non adeguato per affrontare l’onda migratoria contingente e questa morte ne è un’agghiacciante conseguenza. Non possiamo non sentirci tutti responsabili, in questo momento il silenzio è d’obbligo. Da domani iniziamo tutti a ripensare il sistema, per fare si che tragedie di questo tipo non accadano più”.
Nella città ligure, Ventimiglia, sono fermi altri 800 profughi pronti a passare il confine sfidando per l’ennesima volta la morte. Ma quel tunnel, quel canale oscuro pare essere rimasto l’ultimo varco da superare, la fine di un lunghissimo viaggio alla ricerca di una nuova vita. Alla fine del tunnel quasi tutti troveranno il muro umano della gendarmeria francese pronta a respingerli. C’è chi ci ha già provato tante volte in attesa che arrivi il giorno fortunato o il suo ultimo giorno schiacciato da un tir dopo essere sfuggito alla potenza devastante delle bombe. Questo è il risultato della chiusura delle frontiere e della costruzione dei muri. Tutto avviene in una Europa che parla di accoglienza e in una Italia che oggi marcia per la Pace da Perugia ad Assisi con la richiesta rivolta al Governo di rispettare un punto fondamentale della Costituzione: non si vendono armi ai Paesi oggetto di un conflitto. Ma bloccare gli interessi economici è più difficile che fermare le guerre che li generano.

e.c.

 

L’Italia al collasso in un’Europa sorda

Il clamoroso fallimento dei protocolli messi a punto dal Commissario Europeo Juncker sulla gestione dei flussi migratori non solo sta creando tensioni diplomatiche fra i Paesi dell’Unione, ma ha avuto l’effetto di portare l’Italia in una vera e propria situazione di collasso. I numeri dei migranti presenti sul territorio italiano hanno superato di gran lunga qualsiasi previsione e il blocco dei fondi richiesti dal Ministero degli Interni, seicento milioni già reperiti dal Ministero dell’Economia, ha portato al collasso l’intero sistema di accoglienza che ormai non riesce a fare più fronte, in assenza di risorse economiche, neanche ai bisogni primari degli ospiti dei Centri.

Il Presidente nazionale di Confcooperative Giuseppe Guerini da tempo ha allertato il Viminale sulle gravi conseguenze che produrrebbe la inevitabile chiusura dei Centri di Accoglienza e il Ministero degli Interni, riprendendo tale nota, ha scritto al Ministero dell’Economia che vi sono gravi rischi per l’ordine pubblico.

Un ping pong giocato con centinaia di migliaia di palline: ormai non più e non solo le teste dei migranti, ma anche quelle di chi in questi anni ha garantito il funzionamento del sistema di accoglienza con abnegazione e sacrificio. Le due facce dell’Italia: quella che raccoglie e quella che accoglie!

L’Italia che accoglie è al collasso, non regge più il peso dell’enorme responsabilità di cui, fino ad oggi, si è fatta carico: 165.177 migranti ospitati nelle strutture di accoglienza oltre i 20.000 minori non accompagnati. E tutti in attesa di sapere se gli verrà riconosciuto lo status di rifugiato.

Il dato che fa riflettere è che solo 22.971 migranti sono accolti nella rete stabile dello SPRAR. Tutti gli altri sono sparsi in strutture temporanee e straordinarie di accoglienza sparse in 1.200 Comuni italiani.

E mentre qualche giorno fa si consumava l’ennesima tragedia nel Canale di Sicilia, quattro capitali europee hanno dichiarato la necessità di prolungare i controlli ai propri confini. Solo quest’anno le persone risucchiate dal mare nel tentativo di attraversare il Mediterraneo sono più di 3.500.

L’Italia sta cercando di porre qualche rimedio al sistema di gestione dell’accoglienza passando da un modello emergenziale gestito dai Prefetti attraverso l’utilizzo di strutture temporanee, ad una strutturazione territoriale gestita dai Comuni.

Lo SPRAR, istituito nel 2002, ha visto aderire in tutti questi anni solo 1.200 Comuni su 8.000: sarà questo “ravvedimento” a cambiare le sorti ed il futuro dei migranti?

La politica è anche fatta di simbolismo: “In UE prevalgono gli egoismi nazionali, ma l’Europa è nata per abbattere i muri, non alzarli. Per questo proporrò che quel barcone recuperato nel 2016 sia messo davanti alla sede delle Istituzioni Europee” (Matteo Renzi, 14 ottobre 2016).

e.c.

La coscienza non ha turni

Il Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) di Modugno ha compiuto il suo primo anno di attività. A ricordare questa scadenza sono stati gli ospiti del Centro che hanno voluto, quasi si dovesse celebrare un rito, che si festeggiasse: una strana rielaborazione della festa del Ringraziamento. Una festa per festeggiare l’accoglienza e per distinguere chi la fa da chi fa finta di farla. Una festa pensata e voluta per ringraziare gli operatori della struttura, i Responsabili, tutte le persone che, anche in situazioni difficili, hanno creduto e credono che accogliere non è mai sbagliato. Un anno è tanto tempo e pensare che sia già passato fa ripercorrere una storia che sembra essere stata compressa, vissuta troppo velocemente per pensare che sia trascorso solo un anno. Per chi vive quotidianamente le dinamiche quotidiane di una struttura il tempo si moltiplica o si perde la percezione del tempo per lasciare spazio alle vicende umane, alle necessità dei singoli o dei gruppi: è quasi come avere una famiglia di 120 figli da proteggere, da accudire, ai quali dare risposte a esigenze spesso legittime. All’inizio si approcciano all’operatore con diffidenza, altre volte con una prepotenza che rivela l’espressione di una debolezza che devi comprendere, devi avere la pazienza di tradurre partendo dal vissuto di chi ti è di fronte. Operare in una struttura di accoglienza non è facile: ci vuole stomaco, cuore e una capacità estrema di relazionarsi con persone che arrivano da un’altra parte del mondo con false aspettative alle quali devi dare risposte. Solo con il tempo, la pazienza e la capacità di dialogare si instaura un rapporto nel quale si comprende che l’operatore non è l’altro carnefice che hai incontrato, non è il terminale di una rete criminale che hai pagato per arrivare qua. E’ semplicemente una persona che ti accoglie nel migliore dei modi possibili, che ha scelto di prendersi cura di te perché crede in quello che fa. E lo fa con passione, non solo per mestiere! E assume responsabilità che potrebbe evitare. Piange quando qualcuno va via e, allo stesso tempo, gioisce sapendo che ha trovato una sistemazione migliore. Non tutti reggono alla gestione di emozioni che devi ingoiare tutti i giorni perché, per quanto debba essere professionale e distaccato il rapporto, è difficile non farsi coinvolgere e compenetrarsi in storie e vicende umane difficili anche da ascoltare. La coscienza non è una valigetta che lasci sul posto di lavoro quando hai finito il turno: ti porti dietro e dentro ogni storia, ogni tragedia che ti è stata raccontata che ti rimane addosso come un tatuaggio. E non puoi non pensare a quanto la vita a dato a te e a quanto è stato negato agli altri. Lavorare sul fronte nel sistema dell’accoglienza dei migranti ti mette di fronte ad uno specchio, ti impone di ragionare con te stesso, di dare un valore a tutto quello che la vita ti ha dato e che ad altre persone ha negato. La coscienza non fa i turni, non esistono orari. Agli operatori che hanno retto e reggono va fatto un grande plauso soprattutto per quanto sono riusciti a costruire nel rapporto con gli ospiti del Centro che li hanno voluti festeggiare. A loro il merito dei risultati raggiunti.