Un viaggio interminabile, dal Pakistan attraverso Turchia e Iran
Waseem, la fuga, la fame. Poi le preghiere, uno squarcio di speranza. «Una settimana senza mangiare: colazione, pranzo e cena con un bicchiere d’acqua, due quando andava meglio. Lo stomaco non aveva la forza di brontolare, stava per chiudersi, poi un’anima di dio, i miei pochi risparmi. Cinquantasette, stretti uno all’altro, una nave ci prende a bordo, il porto di Taranto…».
«Cinquantasette, stretti fra noi, a bordo di una imbarcazione che arrivata in mare aperto ci ha messo addosso una paura matta: navigare, trattandosi di una “bagnarola” sarebbe meglio dire lasciarsi andare alle onde del mare, è più di un’impresa: è un miracolo!». Waseem, pakistano, quattro anni fa arriva in Italia. Salvataggio di fortuna, rotta verso il porto di Taranto, destinazione un hot-spot attrezzato. Di quelli che nei momenti critici hanno ospitato ogni giorno centinaia di persone fuggite dal Continente africano o dall’Asia meridionale, come appunto Waseem.
«Prima di arrivare in una città, bella e accogliente come Taranto», raccontava quel giovanotto di ventidue anni, «avevo sudato le classiche sette camicie: non è semplice staccarsi dalle proprie radici, convincere, uno per uno i tuoi affetti più cari: papà, mamma e quattro fratelli». I motivi sempre gli stessi, i suoi, come quelli dei suoi connazionali che di bello hanno una cosa: sono molto uniti fra loro, specie quando sono lontani da casa, in Italia per esempio. «Ci aiutiamo come possiamo: oggi ho bisogno di un mio “fratello”, domani potrebbe essere lui ad avere bisogno di me, è un patto non scritto».
La fuga da una città importante del Pakistan. Importante, ma povera. «Ero una bocca da sfamare, lavoro poco, al contrario tanta è la voglia di spendersi per la famiglia, che amo e sento non appena posso: niente da fare, dovevo andare via, una lotta disperata contro la fame; poi, potenza della tecnologia, con il primo cellulare la prima videochiamata, sono entrato in contatto con la famiglia; anche per guardarsi negli occhi, la spia dell’anima: un’arma a doppio taglio, da una parte la gioia di vedersi, dall’altra vedere una faccia quasi rassegnata». La prima domanda in quelle conversazioni, non si sfugge: la salute. «Si preoccupano di questo e io li consolo, li tranquillizzo, gli ripeto che va tutto bene e che occorre il tempo necessario per crearsi un futuro lontani da casa: mi guardano negli occhi, pregano per me, io sento tutto il loro affetto e la forza di una mano che mi guida…».
QUANTI SACRIFICI…
Incontrammo Waseem un anno fa. Ci colpì la sua storia, il suo passaggio fra Stati «non troppo facili» come Iran e Turchia. «Non facili», significherà qualcosa. «Certo, che non è semplice intanto passare un confine, senza non essere notato, fermato e fatto oggetto di mille domande: c’è da diventare matti, se non fosse che sai bene di non essere a casa tua, dunque sei di passaggio, e può succedere tutto e niente; è importante trovare militari almeno disposti ad ascoltarti e non a far valere la loro autorità per provocare una tua reazione e giocare, come si dice, al gatto con il topo».
Una settimana da dimenticare. «C’è stato un momento in cui me la sono vista brutta, lo stomaco ha rischiato di chiudersi completamente e rifiutare qualsiasi cibo; colazione, pranzo e cena – è drammatico il solo parlarne – era un bicchiere di acqua, due se vogliamo proprio esagerare e scherzare solo ora che quella brutta esperienza è un ricordo, incancellabile…». Il racconto, una piega drammatica. «Non mangiavo e l’unico modo che avevo per farmi passare la fame era dormire; sapevo anche di rischiare di non svegliarmi più, debilitato com’ero, ma pregavo, quello l’ho sempre fatto e continuerò a farlo».
…E CHE SOFFERENZA
Un brutto momento. «Sarà stato, forse, il settimo giorno, quando proprio non avevo più forze, non avevo la forza di pensare a quel corpo che ciondolava per le campagne in cerca di un giaciglio, ancora un angolo per lasciarmi addormentare, con uno stomaco che non aveva più la forza di brontolare: magro, trascurato all’eccesso, non avevo idea che quello fossi io, mi sembrava un incubo, chiunque in quel momento poteva passarmi addosso con un carro armato, non avrei sentito il benché minimo dolore…».
Invece, qualcuna di quelle preghiere condivise fra papà e mamma, i quattro fratelli e lo stesso Waseem, giunge a destinazione. «Vengo assistito, rimesso in piedi poco per volta, perché anche nel riprendersi occorre fare piano: appena la forza di mettermi una mano in una tasca e trovare, intatto, quel poco di risparmi raccolti in un fazzoletto e provare a pagarmi il viaggio per l’Italia: chi mi aveva assistito, mi indirizza a qualcuno che da Istanbul stava organizzando per pochi danari un viaggio per l’Italia, forse per la nave più vicina; quell’imbarcazione su cui salimmo in cinquantasette, infatti, galleggiava per scommessa e mai saremmo arrivati in Italia in quelle condizioni: unica speranza, incrociare appunto una nave che ci aiutasse e accompagnasse a destinazione». Ecco, le preghiere, il miracolo. «E’ il secondo tempo della mia vita, Taranto, il Centro di accoglienza, la cucina, per imparare a cucinare non solo riso speziato e pollo. Ci vuole pazienza, quella non manca: il primo scoglio l’ho superato, ora comincio a guardare con più fiducia al futuro, che il mio dio mi aiuti ancora per un altro pezzo di strada».