«Il mio cuore batte per Baggio»

Bottio, cardiochirurgo, l’uomo dei record

Padovano, tifoso del Lanerossi, innamorato del Divin codino, esercita al Policlinico di Bari. «Per raggiungere un primato occorre essere una squadra, ognuno deve fare il suo». Affascinato dalla Puglia, bellezza, tavola, vini. «Prima i pazienti prenotavano al Nord, oggi operiamo più di quanto non facciano “su”: tre trapianti in un solo giorno, il nostro primato»

 

La notizia risale all’inizio dell’anno. A riprenderla è l’agenzia Ansa. Fa il paio con quella di un paio di anni fa. La prima riguarda tre trapianti di cuore in 24 ore. Eseguiti al Policlinico di bari, secondo quanto comunica la struttura sanitaria in una nota, evidenziando che «la maratona per la vita è partita la sera di giovedì 23 gennaio dall’ospedale universitario barese e si è conclusa poco dopo mezzanotte del giorno successivo. Gestisce gli interventi l’equipe cardiochirurgica dell’unità operativa guidata dal professor Tomaso Bottio, che si è occupata tanto delle operazioni di prelievo a Bari, Torino e Milano, quanto dei trapianti di cuore nel blocco operatorio di Asclepios.

«Condurre a termine tre trapianti di cuore in un arco di tempo così breve – aveva spiegato Bottio – è il risultato di un grande lavoro di squadra; deve esserci una perfetta sinergia tra cardiochirurghi, anestesisti, perfusionisti, infermieri e operatori di sala; solo questo ha reso possibile arrivare alla fine di questa maratona». Orgoglioso il direttore generale Antonio Sanguedolce. «Il Policlinico di Bari si conferma un centro di riferimento nazionale per la cardiochirurgia e i trapianti di cuore».

 

 

PIU’ MERIDIONALISTA DI TUTTI

Bottio, padovano, da quattro anni trasferito al Sud per dirigere l’Unità di cardiochirurgia del policlinico barese, confessa: «Sono diventato più meridionalista di tutti». Premessa plausibile, prima di spiegare come sia possibile raggiungere risultati così alti, nonostante al Sud il numero dei donatori sia molto basso. “Tanto per chiarire – scriveva un paio di anni fa il quotidiano l’Avvenire – la Lombardia ha 350 donatori l’anno, ma fa meno trapianti della Puglia con un centro solo”. «Se c’è la disponibilità degli operatori ad andare a prendere l’organo – aveva dichiarato allo stesso giornale Bottio – ovunque si trovi, si possono raggiungere questi risultati; su cinquantacinque trapianti, ventitré appartengono a donatori del Nord, sedici fuori dalla Puglia e tre dall’estero: ciò vuol dire che quest’anno abbiamo preso un aereo quarantadue volte». Bottio spiega che il percorso per arrivare alla sala operatoria e salvare la vita a un paziente non è affatto semplice.

«Per definire un organo idoneo – dice – vengono eseguiti diversi esami sulla funzionalità, la presenza di infezioni virali e batteriche e stabilire così il livello di rischio; poi l’organo viene accettato anche relativamente alle condizioni del proprio ricevente: se si ha un paziente di settant’anni va bene un organo di un donatore coetaneo, ma se il ricevente ne ha 36 posso accettare un organo di un settantenne solo se il mio paziente rischia di morire nelle successive ventiquattro ore». In questi casi, velocità e disponibilità segnano la differenza tra la vita e la morte. Come spesso accadeva in passato, era il Nord la meta di quanti necessitavano un trapianto. Oggi, ma diciamo anche da qualche anno, il numero di preferenze si è capovolto. «In passato la maggior parte degli utenti del Sud preferiva farsi inserire in lista per trapianto di organo nei centri del Nord che avevano un più alto volume di trapianto del cuore; ora riusciamo a trapiantare molto rapidamente gli utenti che mettiamo in lista ogni anno».

 

 

SUD, CHE PASSIONE

Il suo percorso di chirurgo lo ha spiegato nei giorni scorsi a Gianni Messa, giornalista di Repubblica in un ampio servizio per l’edizione di Bari. «Arrivo da associato nel gennaio del 2022, poi nell’estate del 2023 Milano va in pensione e io divento il facente funzione fino a un nuovo concorso, nel 2024, e la nomina a professore ordinario». Una compagna da 15 anni. E una bimba di sei. «Vivono a Padova: Jonida medico a Venezia; faccio il pendolare una volta al mese, anche se mi sono ripromesso di salire più spesso perché meritano entrambe la giusta attenzione».

Benvenuto al Sud. «Conoscevo la Puglia dai libri di storia dell’arte e dal vivo il Salento, ma non ero mai stato a Bari. Il primo impatto l’ho avuto con lo stadio San Nicola, l’astronave di Renzo Piano: una bella sorpresa». Gli chiedono della sua passione calcistica. «La stessa di quando ero un giovane ultrà: il Lanerossi Vicenza, quello del grandissimo Roberto Baggio». Ancora Puglia. «Ho scoperto paesi bellissimi – conclude Bottio – a cominciare da Sammichele di Bari con il suo centro storico, e piatti incredibilmente buoni, due vini su tutti: la verdeca fra i bianchi e il primitivo fra i rossi; poi c’è la signora che mi assiste per le pulizie che ogni tanto mi porta i suoi fagioli, i ceci o riso patate e cozze». Un classico.

«Il mio Ramadan…»

Nadia Battocletti, campionessa azzurra di atletica, musulmana

«Sveglia tra le tre e le quattro del mattino per fare un’abbondante colazione, dolce o salata: un pasto leggero», racconta alla Gazzetta dello sport. «Nel tardo pomeriggio, un piatto arabo, ma anche datteri, che adoro; la sera, invece, qualcosa di più serio: pasta, carne o pesce». Mamma Jawhara Saddougui, marocchina, ex mezzofondista, rivela ad atleticamagazine.it: «Quando era piccola andavamo sempre in Marocco d’estate: quando finirà l’università si rimetterà a studiare l’arabo»

 

Sfogli la Gazzetta dello sport, che sia cartacea o in pdf, il giornale più letto d’Italia, scrive e racconta calcio in quantità industriale. Però, c’è il “però”: quando, nelle pagine successive alle attività pallonare di A, B e C, sbuca un articolo, che poco ha che fare con lo sport nazionale, allora c’è da prestare attenzione. Uno sportivo, che non sia Sinner, deve avere non uno, ma almeno dieci motivi per avere uno spazio così significativi. Fra le pagine più curate, che abbiamo spesso apprezzato, quelle di “Altri mondi”: la politica e qualsiasi altro affare, televisione e cinema compreso, trattato in una “cartella” (l’unità di misura di una redazione giornalistica) in modo esaustivo. Ma questo, è il caso di dire, questo è un altro mondo.

Dunque, qual è l’articolo che la Rosea ha dedicato in questi giorni a una delle voci fuori dal coro calcistico? Bene, svelato l’arcano: a Nadia Battocletti, grande atleta, argento olimpico nei diecimila metri piani ai Giochi di Parigi dello scorso anno. Fra i diversi temi affrontati da Nadia, uno di quelli che ci stanno particolarmente a cuore: il Ramadan che ha da poco concluso. Sapete quanto rispetto abbiamo per la fede religiosa di chiunque. Quando poi a raccontarsi e a raccontare la sua esperienza di fede e di sport è un’italiana (madre marocchina), non può che avere tutta la nostra attenzione.

 

 

SVEGLIA ALLE TRE DEL MATTINO…

Dunque, la Battocletti in questi giorni ha rivelato la sua massima attenzione posta al mese del digiuno islamico. «Non è stata una vera e propria passeggiata di salute – ha raccontato l’atleta alla “Gazzetta” – in quanto mi svegliavo tra le tre e le quattro del mattino per fare un’abbondante colazione, dolce o salata: un pasto leggero, nel trado pomeriggio, fra le 18.00 e le 19.00, con un piatto arabo, per esempio di datteri che adoro». Non finisce qui. «Verso le 21.30 – prosegue Battocletti – qualcosa di più serio: pasta, carne o pesce: i liquidi, non da assumere di giorno, superavano i tre litri nelle 24 ore; sia chiaro: non soffrivo fame o sete, in quanto l’apporto calorico complessivo non era tanto diverso dal mio solito».

Torna al marzo scorso. «Ho portato tutto all’estremo – confessa alla “Gazzetta” – forse gli ultimi giorni sono stati pesanti; osservo il Ramadan, una fede e una cultura ereditate dalla mamma, marocchina: sono felice di osservarle; le chiavi sono disciplina e autocontrollo, non è semplice, ma mi stimola, mi apre ad altre prospettive, mi serve in tutto».

 

 

MAMMA JAWHARA CONDIVIDE

Mamma, Jawhara Saddougui, marocchina si diceva, anche lei ex mezzofondista, segue la figlia come un’ombra. In una bella intervista rilasciata a Giuseppe Scordo per atleticamagazine.it, Jawhara ha svelato più di qualche aspetto più personale. Per esempio, se Nadia conoscesse l’arabo. «Quando era piccola – rivela – e andavamo sempre in Marocco d’estate, lei studiava la scrittura, un esercizio che col passare del tempo ha coltivato un po’ meno; a livello orale, capisce tutto ma parla poco, però mi ha detto che quando finirà l’università, si rimetterà a studiare l’arabo, una promessa che non può che farmi piacere: è musulmana come me, osserva il Ramadan fin da piccola.

Infine, Nadia, proprio da bambina, chiedono a mamma come la sua piccola fosse in tenera età. «Vivace, non stava mai ferma, si è dedicata a tanti sport: faceva anche tennis ed equitazione ma non tornava mai a casa stanca; difficile starle dietro, con lei ho tirato fuori il massimo delle energie che avevo». Qualcosa sui primi passi compiuti nell’atletica. «Partecipava alle gare di paese qui in Val di Non – spiega ad atleticamagazine.it – ma più che la gara in sé, a lei piaceva il dopo, perché poi si facevano delle piccole festicciole e amava divertirsi con gli altri bambini; essendo figlia unica, a casa non aveva con chi giocare o litigare: stare fuori all’aria aperta e in compagnia la faceva sentire felice».

«Torno, ma non è una sconfitta»

Sabino, pugliese, compie la sua scelta di vita “al contrario”

«Dipendente alla Maserati con milleseicento euro al mese, in tasca non mi restava più nulla», racconta. «Così ho fatto le valigie, ci ho rimesso dentro anche i miei sogni e via, senza rimpianti».  Riconoscente agli emiliani, «tornare a stare vicino ai propri cari non ha prezzo»

 

«Tornare indietro può sembrare una sconfitta, magari per qualcuno lo è, ma alla fine tornare a casa propria, comunque sui propri passi, è riconfigurare una scelta di vita». Non è un pensiero di Sabino, lui sì che è un ragazzo coraggioso e a breve ne racconteremo a larghi tratti la sua “scelta di vita”, ma è una canzone – chiamiamola così – che in questi anni stiamo ascoltando troppo spesso fino ad assumere il tono di un imbarazzante tormentone. Sono in molti gli uomini, i ragazzi del Sud, a tornare sui propri passi. I più maturi, pensionati, i sopravvissuti al monoreddito, compiono quasi una scelta obbligata; i più giovani, hanno provato a imprimere una svolta, studiando e “mantenendosi”, ma è stata dura: i ritmi sono diventati insostenibili, quei pochi soldi guadagnati in lavori part-time o a tempo pieno, non sono sufficienti per fare una cosa e l’altra: lavorare e studiare.

E una volta finito lo studio, quella laurea che “giù” non poteva conseguire, vale “su”? Bel dilemma. Così stiamo assistendo sempre più a un doloroso ritorno a casa. La Puglia, in particolare, e per fortuna, sta diventando la meta più invitante dei turisti. Prima solo in estate, adesso anche in primavera, in autunno. Al resto, a uno studio sostenibile anche stando a casa, non ci pensa più nessuno. «Partono i cervelloni, perdere un pezzo di intelletto ci indebolisce, non ci permettere di crescere», dice con tono dimesso chi vede partire i propri figli all’estero.

 

 

IL SOGNO NON ABITA QUI

«Mio figlio, un elettricista, di quelli in gamba, è partito per il Canada, nel giro di un paio di anni è diventato un manager, l’azienda per cui lavora non può più fare a meno di lui: è legato all’Italia, può lavorare in remoto, così ha preso casa a Roma e sta sei mesi in Canada, sei mesi in Italia: non “scende” spesso in Puglia, ma se vogliamo vederlo possiamo anche raggiungerlo nella capitale, quattro ore di auto…». Questo un papà, rassegnato. Tutto sommato soddisfatto che il figlio, almeno, non abbia da raccontare una sconfitta, una cocente delusione. Insomma, per un genitore, sapere “sistemato” il proprio figlio tutto sommato può essere una consolazione.

C’è poi chi, invece, come Sabino, torna. La sua è stata una decisione elaborata, rimuginata, rimescolata ben bene e, alla fine, da quel ragazzo sveglio che è – è un ingegnere, “chapeau”! – ha preso la sua scelta. Non “dolorosa”, perché con milleseicento euro al mese di stipendio, in Emilia Romagna, come puoi mettere su famiglia? Se fai un mutuo, non puoi mangiare e, ad oggi, fino a prova contraria quello di mangiare è un vizio difficile da farsi passare.

Sabino, dunque. La sua storia, raccontata dal Corriere del Mezzogiorno, “dorso” del Corriere della sera, e ripresa dal free-press Leggo, è di un ritorno a casa. Ci fossero state le condizioni per restare incollato a un sogno, sarebbe rimasto in Emilia. Adesso è qui, parla senza reticenze della sua decisione.

 

 

PROGETTI ADDIO

«Ringrazio l’Emilia Romagna, pensavo che il mio futuro professionale potessi scriverlo qui, invece no…». Trentadue anni, originario di Canosa di Puglia, dopo anni tra Bologna, Modena e Maranello, ha deciso di tornare a casa. Troppo alto il costo della vita, vanno bene i sacrifici, ma quando alla distanza ti accorgi che fra le mani non ti restano nemmeno le briciole, allora prendi una decisione.

«Lavoravo come infermiere in Inghilterra – riporta la Redazione web del Corriere del Mezzogiorno – millesettecento euro a settimana, corsi pagati e un aiuto per l’affitto, ma sono tornato a Bologna…». Laureato in Ingegneria Elettrica al Politecnico di Bari, percorso di studi completato nel capoluogo emiliano, ha compiuto i primi passi nel mondo dell’automotive elettrico.

 

 

LA FERRARI, DI CORSA A CASA

Prima l’approdo alla Ferrari, a Maranello (Modena), poi alla Maserati di Modena come project manager energy. «Progettare le componenti per i primi veicoli elettrici Maserati mi sembrava un sogno». Un sogno che faceva a cazzotti con la busta-paga. «Milleseicento euro, 750 solo per l’affitto, più le spese, mi restava ben poco per vivere».

Nel 2021, un’offerta da Enel X, settore della mobilità elettrica, sede a Roma, ma il lavoro da remoto gli consente di trasferirsi a Canosa, respirare aria di casa e ridurre i costi. Gennaio 2025, l’occasione: il trasferimento definitivo a Bari, negli uffici di viale Capruzzi, Sabino prende casa a Molfetta. «Venti minuti di treno e sono al lavoro: solo chi ha vissuto al Centro-Nord può capire i costi altissimi da affrontare», dice Sabino. Nessun rimpianto, solo gratitudine. «Ho sempre amato il sole e il calore della Puglia, ora l’ho rivalutata ancora di più; poi, essere vicino ai propri cari non ha prezzo».

«Quanto insegnano le sconfitte!»

Gianni Bugno, due volte campione del mondo, si alza sui pedali

«Mi è toccato ripartire, ma che sconfitta vedere gli altri scappare. Tranne uno, “El Diablo”, Claudio Chiappucci, cui sarò eternamente grato», dice il grande ciclista, maglia iridata nel ’91 e nel ’92. «Mi ritirai dal liceo, colpa di una professoressa, ma poi conseguii il titolo di studio per prendere il brevetto da pilota di elicotteri…»

 

Gianni Bugno, a più di trent’anni dai suoi titoli mondiali, a molti il suo nome dirà poco. Male, molto male: ci troviamo di fronte a una vera leggenda, uno sportivo di statura internazionale, con due titoli mondiali, tanto per gradire; un uomo che in questi giorni ha raccontato quanto di bello la vita di grande ciclista gli abbia riservato, ma ha anche fatto outing, cioè confessato quanto la vita non gli ha risparmiato.   

Tredici anni da professionista, dall’85 al ‘98, è stato campione del mondo su strada (’91 e ’92). Settantadue vittorie, nove tappe al Giro d’Italia (vinto nel ’90), quattro al Tour de France e due alla Vuelta a España. Se su strada era imbattibile, in politica non si poteva dire che Gianni, il buon Gianni, fosse irresistibile. Due candidature, due bocciature (Regionali e Comunali).

In questi giorni il Corriere della sera lo ha intervistato. Bella intervista di Marco Bonarrigo. Ce ne sono, ma questa, permetteteci di esprimere un’opinione, conoscendo questo lavoro, è veramente bella. Scava in profondità, lo fa con stile, riesce a tirare fuori cose che, forse, non si sarebbe mai sognato di raccontare. Considerazioni mai estorte, ma rese perché l’intervistato stabilisce subito una certa empatia con il cronista, fino ad aprire i cassetti della memoria provando, perché no, a fare anche un po’ d’ordine.

 

 

BELLO IL GIRO, MA…

«Bello il Giro d’Italia – confessa, in buona sostanza, Bugno al giornalista – ma la prima vittoria da ragazzino a Monza mi fece un effetto straordinario: una sensazione fortissima, mai più vissuta». Prosegue il due volte campione del mondo, che svolta. «A posteriori ho capito che apprezzavo più le sconfitte: mi facevano riflettere sugli errori e su come intervenire per correggerli: ecco, ho imparato dal modo in cui perdevo».

Il ciclismo come professionista arriva a seguito di una delusione avuta come studente. «Fui rimandato in italiano e latino, da una professoressa che sosteneva che chi faceva sport non potesse andare bene a scuola, così non mi presentai agli esami dichiarando chiusa la mia esperienza studente».

La maturità scientifica arriva più tardi. C’è una ragione. Quel titolo di studio gli serve per conseguire il brevetto di pilota di elicotteri. «Guardavo l’elicottero della Rai che ci sorvolava durante le gare – dice il campione – e pensavo che quello sarebbe stato il mio nuovo lavoro: cinquemila ore in volo prima con la Rai poi al 118».

Turni pesanti. «Dormivo in branda negli aeroporti militari: turni di dodici ore, cinque minuti per accendere i motori dopo la chiamata, trenta secondi per decidere se decollare o meno». Fondamentali, infatti, sono le condizioni del tempo, una responsabilità non indifferente. Per se stesso e per gli altri. Lui, il pilota, gli altri, personale medico, paramedico e passeggeri da trasportare in ospedale, in gioco il bene più prezioso: la vita».

 

 

UN COLPO AL CUORE

Cinque anni fa, causa un malore, a Bugno tolgono il brevetto per non riconsegnarglielo più. «Non c’è stato verso di riaverlo. È stato un periodo bruttissimo, la Federazione Ciclistica mi aveva abbandonato, ero entrato in tunnel senza via d’uscita: mi salvò Claudio Chiappucci, “El Diablo”, mio antico avversario. Mi ha invitato a incontri, eventi, pedalate turistiche, fino a diventare inseparabili, mi ha restituito il senso della vita».

Cosa fa oggi, in cosa è impegnato. «Seguo le grandi gare sulla macchina della giuria; studio quello che succede e suggerisco accorgimenti per garantire che nessuno si faccia male in un mestiere dove si corrono ancora troppi rischi». Gianni Bugno è infaticabile. Non si ferma mai, la sua mente pedala, mette in ordine le ultime idee. «Ecco un altro progetto – confida a Bonarrigo – guidare i camion, ho le patenti B, C e D; eccetto i bus di linea, posso guidare tutto: se qualcuno ha bisogno, io ci sono».

«Serbia, no grazie…»

Un dipendente Maserati respinge la proposta di Stellantis

«Scorso anno solo settanta giorni di lavoro, persi settemila euro secchi: non ho potuto festeggiare i trent’anni di matrimonio con mia moglie», dice Gino, sindacalista sì, ma dipendente determinato, irremovibile dalle sue posizioni. Il suo sfogo sul Corriere di Bologna. «Nel 2023 proposero tre mesi a Mirafiori: chi accettò è ancora lì», rivela

 

Storie di tutti i giorni. Forse non ancora, ma la traiettoria che stiamo prendendo, specie nel settore automobilistico (e qui la Ferrari c’entra poco, anche se riconducibile alla Real casa), è di quelle preoccupanti. Fra gli inviti ai dipendenti scaturiti in queste settimana dai vertici della Maserati, quello di riempire le valigie, svuotare ancora di forza-lavoro il nostro Paese e “ande’ a lavura’ fur!”. E dove, se non in una comoda Serbia, dove tutto costa meno e puoi vivere principescamente. Come i nostri pensionati in Portogallo (una volta, però!).

E, allora, un po’ per il ruolo, un po’ perché cocciuti si nasce, ecco che il Gino che non ti aspetti, sindacalista, invece di mercanteggiare tira la voce fuori dal coro.  Cinquantasette anni, sindacalista, da trentacinque dipendente della Maserati a Modena da 35 anni. L’anno scorso, scrive Alessandra Testa per il “Corriere di Bologna”, dorso del Corriere della sera, quotidiano autorevole ed imparziale, Gino ha lavorato solo una settantina di giorni, il resto del tempo è stato in cassa integrazione.

 

 

DUE STIPENDI IN UN ANNO

«Stipendio pieno solo due volte», racconta alla giornalista, cui sottolinea che anche quest’anno non si può dire che stia andando meglio. «Non so cosa sia un cartellino da timbrare», ha dichiarato sostanzialmente il dipendente Maserati che non nasconde quel pizzico di disappunto di chi ha dato tanto, tutto diremmo, considerando i trentacinque anni suonati fa assi, bulloni, cerchioni e quant’altro.

Un’occasione per tornare in fabbrica. «Dopo mesi di stop, mi hanno richiamato per una settimana, in virtù di una piccola commessa sulla Mc20: lavoro al testing, la fase finale della produzione della supersportiva», ha spiegato Gino.

«Nel 2024 ho perso almeno settemila euro di entrate: tagliamo qua e là: niente viaggio per festeggiare i trent’anni di matrimonio con mia moglie!». Puntuale, la domanda della cronista, a proposito di una delle proposte dei vertici aziendali, secondo alcuni considerate irricevibili, a proposito del prendere in considerazione la proposta di andare in Serbia. «Alla mia età non ci penso proprio – risponde il dipendente richiamato per una settimana – a preparare la valigia e a lasciare la mia famiglia: sono padre, marito e anche nonno di una bambina». La Serbia è lontana, e come se non bastasse, aggiunge, «sta vivendo una situazione geopolitica preoccupante».

 

 

PROPOSTA CON WHATSAPP

Come spesso accade, in tempi di social, il tatto va a farsi benedire. e la proposta della Serbia arriva con un clic. «Il nostro responsabile – racconta – ha mandato un messaggio nel gruppo Whatsapp; i componenti del reparto sono una decina e nessuno per ora ha deciso di accettare». Gino, senza tanti giri di parole: «Riteniamo la proposta della serie “Se avete voglia di lavorare, andate in Serbia” quantomeno inopportuna».

Proposta a prima vista “incoraggiante”. Nemmeno per sogno e il sindacalista ce lo spiega, passo dopo passo. «Sei mesi di trasferta con possibilità di rientrare a casa ogni 45 giorni: vitto, alloggio e indennità di trasferta di 25 euro; prenderei il mio stipendio pieno di 1.700 euro più circa 1.000 euro: la cosa inaccettabile è che la proposta è arrivata senza alcun passaggio preventivo con noi rappresentanti sindacali: messaggi, indistintamente, a tutti i lavoratori del reparto di competenza».

 

 

SE PERO’ DA MIRAFIORI…

“Ci sono operai di altri reparti che stanno valutando di accettare la trasferta in Serbia?”, insiste la giornalista. «Con gli ammortizzatori sociali in corso, non ci vediamo tutti insieme da mesi; con buste paga sempre più sottili e i prezzi alle stelle, non escludo che qualcuno in difficoltà alla fine lo faccia; non è la prima volta che Stellantis propone trasferte del genere».

Due anni fa un’offerta simile. «Nel 2023 proposero tre mesi a Mirafiori; chi accettò è ancora lì, la trasferta è su base volontaria, ma resta il “ricatto” del “se torni, ti rimettiamo in cassa”. Situazioni che abbiamo già vissuto». Infine, per Gino e colleghi modenesi, una notizia incoraggiante. Meno buona, evidentemente, per i “milanesi”. «Il trasferimento da Mirafiori della produzione delle GranCabrio e GranTurismo potrebbe essere una buona notizia per riportare a Modena tutta la divisione delle auto di lusso».

Aspettando Anna Luce D’Amico…

“Candidato” alle Amministrative del prossimo 25 maggio

Nome e volto scaturiti dall’ide a di due tarantini che hanno usato l’Intelligenza Artificiale. Al contrario di quanti si candidano alla poltrona di “primo cittadino”, però, non fa promesse, non accetta compromessi. Programma elettorale che esercita un certo fascino, in attesa di conoscere i profili di quanti si sfideranno per una poltrona a Palazzo

 

Abituiamoci all’Intelligenza artificiale. Sta già diventando invasiva. Per ogni cosa, tanto per semplificare, si invoca l’AI (Artificial Intelligence). Non appena è sbucata dal cilindro di inventori, promotori e “approfittatori”, in tanti si sono posti la domanda se fosse il caso di usare questo strumento come fosse il prezzemolo nelle pietanze: sempre e comunque. Prima che fosse ricoverato, anche lo stesso pontefice, papa Francesco, era intervenuto sul tema, invitando a farne esclusivamente un “uso responsabile”. Insomma, che quest’ultimo strumento non finisse nelle mani del diavolo e provocasse ulteriori disastri, visto che in tempi di guerra di problemi ne circolano un numero illimitato e, per questo, pericoloso.

Il debutto dell’“Intelligenza” ci vede al centro di uno dei primi esperimenti su vasta scala, comunque, su un argomento del quale si discute a tutte le ore: la politica. E, allora, visto che il prossimo 25 maggio Taranto sarà chiamata ad eleggere la nuova Amministrazione comunale, perché non provare a tracciare un profilo plausibile? In una sorta di calderone, infilare tutte le indicazioni catturate dalle richieste della gente, shakerare il tutto e servirlo, nome e foto compresa, alla stampa e al popolo del web.

 

 

TU CHIAMALE, SE VUOI, PROVOCAZIONI…

Così, ecco la provocazione. Colpa o merito, punti di vista, di due autentici esperti della comunicazione. In comune hanno un enorme bagaglio di idee, per questioni di lavoro, ma anche di origini. Pierluca Tagariello, responsabile della comunicazione di “Roma Capitale”, e Andrea Santoro, titolare di “Santoro comunicare”, infatti sono di Taranto.

«Taranto ha vissuto anni critici, fatti di promesse il più delle volte non mantenute – spiegano, in buona sostanza, Tagariello e Santoro –  e compiuto scelte non sempre condivise; così, in un’epoca in cui la tecnologia va migliorando ogni aspetto della nostra vita, perché non potrebbe accadere lo stesso con la politica?».

Un progetto, nulla è lasciato al caso. Il nome Anna, il cognome D’Amico, sono sufficientemente diffusi a Taranto e, a detta degli stessi autori della “provocazione”, Anna Luce ha in sé qualcosa di evocativo e poi, lei, non è un politico come gli altri. A “prima vista”: non ha legami con partiti, lobby, logiche di potere, non fa promesse irrealizzabili, non promette posti di lavoro, non fa compromessi. «Si concentra su soluzioni, non su scuse», dicono i due maghi del computer.

 

 

FATTO, CORRIERE, IL PROFILO…

«Ha già un nome – scrive Alberto Tundo per Il Fatto Quotidiano, giornale cui non sfugge la politica, da quella internazionale a quella locale, un merito…  – un profilo social, con tanto di spot accattivante e surreale: “Un sindaco vero. Per Taranto”. Una laurea in Politiche urbane, sviluppo sostenibile e gestione delle risorse ambientali e industriali: curriculum in via teorica perfetto per Taranto». «Manifesto elettorale – prosegue il quotidiano diretto da Marco Travaglio per l’edizione cartacea, da Peter Gomez quella online – che, vista la natura professionale dei suoi creatori, sembrerebbe destinato ad avere buona fortuna: “Taranto ha vissuto anni di promesse non mantenute, scelte sbagliate e amministrazioni poco efficaci; oggi, in un’epoca in cui la tecnologia sta migliorando ogni aspetto della nostra vita, perché non dovrebbe fare lo stesso con la politica?”, si chiedono i creatori di Anna Luce D’Amico spiegando anche qual è il fine della loro creatura: è pensata, dicono, per “portare efficienza, trasparenza e dati concreti al servizio della città”.

Luce D’Amico non è un politico come gli altri, spiegano. «La sua candidatura – scrive Cinzia Semeraro per il Corriere di Bari, inserto del Corriere della sera e corriere.it – rappresenta un esperimento innovativo che solleva una domanda fondamentale: se l’Intelligenza Artificiale può migliorare la medicina, la mobilità e l’industria, perché non dovrebbe supportare il governo di una città? Taranto merita un’amministrazione che si basi sui dati e non sulle ideologie, che prenda decisioni fondate su fatti concreti piuttosto che su favoritismi». Insomma, aspettando Anna Luce D’Amico e una pioggia di novità per il governo cittadino.

«Mille euro al mese…»

Alvaro Vitali, da star degli incassi ad una pensione modesta

Anni 80, guadagnava anche novanta milioni di vecchie lire a film. Poi il declino. «Ringrazio Verdone per avermi chiamato per la sua serie televisiva, “Vita da Carlo”: persona splendida, grande sensibilità». E l’attore-regista: «Non è solo Pierino, è Fellini, una biblioteca di aneddoti, ricordi di un cinema ormai lontano». Nonostante la necessità ha detto no al Grande Fratello: «Grazie, nun me serve…»

 

«Con Alvaro Vitali pronti per girare una scena di un sogno che diventerà un incubo: Alvaro non è solo Pierino, è Fellini!». Non solo. «E’ una cara persona, una biblioteca di aneddoti, ricordi di un cinema ormai lontano». Carlo Verdone, due parole sui social a proposito della presenza di “Pierino” nella quarta serie di “Vita da Carlo” in onda su Paramount+. Ci arriviamo a breve. Prima un passetto indietro. «Posso dire che a Taranto sono di casa, lo stesso nel resto della Puglia, per quanti film ho girato qui con Lino Banfi e Gianfranco D’Angelo: non solo Taranto, ma anche Martina Franca, Alberobello, Locorotondo, Trani…». Nostalgia di quei tempi. «Al cinema c’era spazio per qualsiasi progetto, film seri, importanti, ma anche commedie, quelle con il sottoscritto e quelle con lo stesso Banfi, Verdone, Celentano, Abatantuono, Boldi e De Sica; poi arrivò “Pierino”, una delle maschere del nostro cinema, checché se ne dica, campione d’incassi, me la giocavo con tutte le produzioni importanti: con me i produttori investivano dieci e guadagnavano cento…». Altri tempi. Poi, finalmente, è arrivato Verdone, che ha riposizionato Alvaro Vitali fra i nomi di spicco di una tv che ha soppiantato il cinema di cassetta.

 

 

VERDONE, CORE DE ROMA…

Verdone dimostra una volta di più grande tatto e un cuore altrettanto grande. Non lo dice, mai lo dirà a chiare lettere. Semplice. «Se non avessi avuto un’idea funzionale alla mia serie tv, non lo avrei invitato: non l’ho chiamato per aiutarlo, Alvaro non ha bisogno di Verdone, sa perfettamente quello che vuole e può ancora dare; io gli ho dato questa occasione…». L’idea al centro. Altrimenti l’artista che ha strappato risate a buon mercato negli Anni 70 e 80 al cinema, non avrebbe fatto parte del cast. Per due motivi: la gente se ne accorgerebbe, ma prima del pubblico lo stesso Vitali, che non è personaggio di primo pelo. Il primo, il regista, l’attore, l’autore di se stesso, ha superato brillantemente anche quella critica che lo accusava di stanchezza. Verdone, un intellettuale, viene dal liceo e dall’università, da una famiglia di docenti, il papà Mario, insegnante di Storia e critica del cinema, e direttore del Centro sperimentale di cinematografia a Roma.

Verdone, cuore grande. Durante le riprese di “Troppo forte”, seppe che Mario Brega, caratterista di altri suoi film di successo, c’era rimasto male una volta che aveva saputo che in quel film lui non era nel cast. Così si inventò “Sergio”, boss delle scommesse clandestine. Poche pose, ma significative. C’era di mezzo anche Sergio Leone, che dava spesso un colpo al cerchio e uno alla botte. La storia della pensioncina da milletrecento euro, dopo guadagni milionari ai tempi della lira, insomma, deve aver colpito Carlo. Così ha imbarcato Alvaro.

 

 

«MI SPEZZO MA NON MI PIEGO…»

Vitali è uno scaltro, si spezza ma non si piega. Si mette in gioco. Lo invitano in tv, talvolta cercando di fare ascolti col “dolore” dal quale puntualmente il “Pierino” cinematografico sfugge. Si smarca con stile. Visto che c’è racconta di un Banfi che si sarebbe dileguato. Certo, parla anche di “coppia irresistibile”, ma il Lino nazionale era ormai lanciato nei movie-movie, nelle commedie all’italiana: suoi partner, Dorelli, Celentano, Villaggio, Pozzetto, Abatantuono

Vitali in una intervista rilasciata al Corriere della sera e ripresa da “Open”, giornale online fondato da Enrico Mentana, dice che Carlo Verdone gli ha «ridato ossigeno». Non ha passato un buon periodo, tanto da sentirsi «ignorato dal mondo del cinema e dello spettacolo». Il mitico “Pierino” della commedia all’italiana ha spiegato la sua reazione alla chiamata del regista romano per la quarta stagione di Vita da Carlo su Paramount+. «Una persona meravigliosa – ha spiegato Vitali al Corsera – la sua telefonata è stata una sorpresa: lo ringrazio tantissimo, ci voleva aria nuova per me, lui mi ha ridato ossigeno».

 

 

FELLINI, IL SALTO, LA CADUTA

Il primo Alvaro Vitali aveva preso parte a film diretti da Fellini: Satyricon, I clowns, Roma e Amarcord. Poi il successo popolare e anche economico con la serie su “Pierino” e le commedie sexy. «Ora sono cult: la gente mi ferma per strada per chiedermi di farne altri; altro che le vacanze di Natale, questo è il genere che manca». Ha il dente un po’ avvelenato, ma ci sta tutto.

Vitali guadagnava bene. «Ero solo, i soldi all’epoca avevano un certo valore, se mi piaceva una macchina la compravo: con cinquanta milioni di lire comprai il duetto dell’Alfa». Esame di coscienza. «Oggi mi dico: che stupido, se li tenevo, li avevo ancora: sperperati quasi tutti, poi ho capito e ho cominciato a compare case, cose che restano».

Anni Ottanta, anche novanta milioni di lire per un solo film. Oggi, purtroppo, prende una pensione: «Buona, arrivo a milletrecento, millequattrocento euro, ma francamente per aver fatto qualcosa come centocinquanta film è bassa, le produzioni fregavano sui contribuiti: io facevo un mese di riprese, loro segnavano due settimane». Ma adesso c’è Carlo, la serie televisiva, una sorta di ritorno. Magari il successo lo pone daccapo al centro di altre produzioni fra cinema e tv, chi può dirlo. A Carlo ha detto subito sì; a Signorini, per il Grande Fratello, ha risposto no. «Con tutto il rispetto, lì vanno quelli che vogliono farsi conoscere o farsi i soldi: per ora nun me serve».

«Ti aiutiamo noi…»

Pietro Barteselli nominato Ufficiale al merito della Repubblica italiana

Giuseppe Cannavale, malato di tumore aveva segnalato la sua storia al quotidiano La Stampa. Il suo datore di lavoro si è mosso per fare in modo che il giovane apprendista potesse curarsi nonostante i giorni di malattia previsti dal suo contratto fossero superati. «Abbiamo fatto solo il nostro dovere, non credevamo che l’intera vicenda avesse una simile cassa di risonanza», ha dichiarato. Poi Pordenone Today racconta la storia del dipendente che ha «trovato una famiglia»

 

Quando è possibile, dunque il più delle volte, quando possiamo, evitiamo di riportare il cognome di uno dei protagonisti delle nostre storie raccolte ormai a centinaia, ogni settimana. Stavolta facciamo un’eccezione, perché l’imprenditore del quale raccontiamo la storia, la segnalazione per il suo gesto di enorme bontà se la merita tutta: Pietro Barteselli, da giorni Ufficiale al merito della Repubblica italiana.

Pietro, imprenditore dal cuore d’oro, una volta appreso il grave problema di salute di un dipendente della società da lui amministrata, non si è posto nemmeno la domanda: «Dobbiamo tutelarlo», si è detto. Va bene, ma come fare, se la legge italiana nella migliore delle ipotesi prevede una copertura sanitaria il più delle volte insufficiente? Semplice, direbbe qualcuno: «Si copre la differenza e si garantisce allo sfortunato dipendente lo stesso tenore di vita». «Semplice», mica tanto. Quando in ballo ci sono quelli che nei suoi racconti Camilleri chiamava “piccioli”, cioè i soldi, l’affare si complica. Bravi gli italiani a fare i conti con i soldi degli altri.

 

 

PIETRO NON CI PENSA DUE VOLTE…

E, invece, Barteselli non ci ha pensato su due volte. Il dipendente, Giuseppe, che ha anche un cognome, Cannavale, «E’ uno di noi», si sarà detto, così «facciamo il possibile per assisterlo e, soprattutto, non facciamolo sentire solo…». In casi come questi, inutile girarci intorno, il più delle volte oltre al danno di una malattia, c’è anche quello della beffa, cioè che tutti intorno si dileguino. Secondo un principio vecchio come il cucco: quando c’è da divertirsi, c’è confusione; quando, invece, c’è da rimboccarsi le maniche e mostrare con i fatti rispetto e affetto per un familiare, un amico, un conoscente, tutto intorno si crea un vuoto che nemmeno il deserto del Sahara.

Dunque, la storia parte dalle colonne de La Stampa, il quotidiano al quale per primo Giuseppe si rivolge, scrivendo una lettera per segnalare il suo caso. Una storia che a larghi tratti riprende e racconta successivamente Pordenone Today, quotidiano edito in cinquanta edizioni locali, dal Gruppo Citynews. Giuseppe, web designer pordenonese, lo scorso ottobre aveva deciso di raccontare la sua storia. Un momento doloroso, riporta il quotidiano online. Giuseppe scopre di avere il linfoma di Hodgkin e lo racconta. Una storia che colpisce il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che viene a conoscenza anche del gesto spontaneo dell’imprenditore, Pietro Barteselli. Infatti, Barteselli, venuto a conoscenza del dramma che sta attraversando Giuseppe, decide di coprire lo stipendio del dipendente. Ciò per consentire al giovane di curarsi. Mattarella che già in altre circostanze ha dimostrato grande sensibilità, nomina Barteselli Ufficiale al merito della Repubblica Italiana.

 

 

GIUSEPPE, LA CHEMIO, LA RIVELAZIONE

Giuseppe che si era ammalato di cancro durante l’apprendistato, avrebbe dovuto affrontare sei cicli di chemioterapia. Nonostante avesse esaurito tutti i giorni di malattia a disposizione, ha trovato un imprenditore comprensivo e che ha «guardato oltre al mero profitto imprenditoriale», si legge nella motivazione. Così il Capo dello Stato in una cerimonia ufficiale consegna al Quirinale le «onorificenze a quanti si sono distinti per attività volte a favorire il dialogo tra i popoli, contrastare la violenza di genere, per un’imprenditoria etica, per un impegno attivo anche in presenza di disabilità, per l’aiuto alle persone detenute in carcere, per la solidarietà, per la scelta di una vita nel volontariato, per attività in favore dell’inclusione sociale, del diritto alla salute e per atti di eroismo».

«Storie di solidarietà – ha detto il presidente Mattarella – di senso di umanità, di coinvolgimento nel farsi carico delle difficoltà di altre persone; ed è giusto farle conoscere: le persone che sono qui vivono nella normale quotidianità; e questo è il pregio del loro comportamento: vivono questa quotidianità avvertendo i valori del rapporto tra le persone, del senso di comunità, del bisogno di non isolarsi, ma di occuparsi dei problemi generali e delle persone che hanno difficoltà o sono più deboli».

 

 

«TUTTO E’ BENE…»

«Sono estremamente onorato che il presidente della Repubblica – dice Barteselli nella sua intervista concessa i primi di febbraio a Lorenzo Padovan de La Stampa – abbia deciso di portare all’attenzione dei cittadini il nostro approccio come esempio di gestione imprenditoriale che guarda oltre il mero profitto; l’impresa è fatta prima di tutto di persone; oggi credo sia importante testimoniare che fare impresa significa impegnarsi perché l’azienda sia di successo in Italia e nel mondo nel lungo periodo, costruendo quotidianamente solide fondamenta: raggiungere risultati positivi garantisce alle famiglie di chi opera – direttamente e indirettamente – la serenità di un lavoro che viene svolto in un ambiente sicuro e di benessere: la vera forza di un’azienda penso sia la capacità di proteggere la propria comunità».

«Io e mio figlio autistico, sfrattati!»

Taranto: Adriana e Saverio, lunedì scorso “sgomberati” 

«Tre anni di battaglie non hanno condotto a nulla», ha dichiarato la donna. «Avevo chiesto un altro giorno di proroga per dare un’occhiata a un B&B dove avremmo dovuto trasferirci: mi è stato negato». Infine: «Non vi fidate di chi mostra comprensione, alla fine spariscono tutti…»

 

Lunedì scorso, a Taranto, è stato eseguito lo sfratto dall’appartamento in cui abitavano, Adriana e Saverio. Mamma la prima, figlio autistico il secondo.  La casa in cui i due sfortunati protagonisti della vicenda risiedevano, non era stata riscattata per mille motivi, quello principale di carattere economico. Adriana e suo marito, dal quale la donna era separata da otto anni, non erano riusciti più a pagare le rate del mutuo. A causa dei problemi e delle cure costanti di cui aveva bisogno Saverio, la donna aveva contratto debiti. Non erano stati sufficienti gli aiuti che giungevano a quel piccolo nucleo familiare in modo sporadico.

E’ una delle tante vicende italiane che da una parte dovrebbero farci indignare, dall’altra farci “inquartare” (per non usare vocaboli più pesanti, non è nostra abitudine). E, allora, facile sparare addosso a questo o quello: prendersela, forse, con i servizi sociali, qualcuno con la nuova proprietaria dell’immobile che ha acquistato casa di Adriana e Saverio all’asta. All’interno della vicenda che ci fa sentire tutti più vulnerabili, deboli, nonostante i guai e i problemi ai quali è andata incontro in questi mesi, ma diremmo anche anni, la donna, una cosa, piccola sia chiaro, che ci ha riempito il cuore, è stato il suo sorriso.

 

 

ADRIANA, GRANDE DIGNITA’

Arrabbiata, forse con se stessa e quanti le avevano assicurato che una soluzione l’avrebbero trovata, Adriana fino all’ultimo momento ha mostrato carattere. Certo, «non fa piacere a nessuno finire sui giornali», specie per cose così spiacevoli, per certi versi umilianti (dove di umiliante non c’è nulla). La mamma di Saverio, sia chiaro, non ha mostrato solo il sorriso, ha mostrato anche i muscoli quando c’è stato da rispondere a quei giornalisti che, svolgendo il proprio mestiere, le chiedevano «e adesso, Adriana, tu e Saverio che farete? Dove andrete ad abitare?». E lei, il sorriso sulle sue labbra per una volta appena smorzato: «Dove andrò? Non lo saprà nessuno!». Come a dire: «Ringrazio tutti per la collaborazione, dai giornali alle tv, dai servizi sociali ai politici che si erano in qualche modo avvicinati per capire se ci fosse un qualche margine, adesso io e Saverio faremo a modo nostro…». Insomma, pare di capire che la storia sia andata a finire proprio come immaginava la stessa donna, epilogo compreso. Lo sfratto ha fatto notizia, tutti le si sono avvicinati, poi quando i riflettori sulla vicenda si sono spenti, via gran parte di quel circo mediatico. Qualcuno è rimasto sul campo, accanto: ha provato a rassicurare Adriana; lei, che in tutto questo tempo ne ha viste e sentite tante, ormai non si scompone più di tanto: ciò che aveva previsto è accaduto, nonostante altre rassicurazioni.

«Questa – la dichiarazione della donna all’agenzia Ansa – è stata la degna conclusione di tre anni di battaglie; avevo solo chiesto ancora ventiquattro ore di tempo per spostarmi con mio figlio Saverio e svuotare casa delle nostre ultime cose per trasferirci in un B&B: dovevo solo visionare che i locali nei quali ci saremmo trasferiti si dimostravano adeguati; invece, niente: mi hanno canzonata; mi hanno invitato a mandare via la stampa e cominciare a togliere qualcosa per mostrare tutta la nostra buona volontà ad arrenderci di fronte alla macchina giudiziaria; mi avevano assicurato che  avrei potuto restare con Saverio un’altra notte: niente di tutto questo, è stata l’ennesima presa in giro».

 

 

PAROLE TANTI, FATTI NESSUNO

La dignità della donna a cui facevamo allusione. Nel suo sfogo fa attenzione a non a fare entrare la vicenda umana che ha per protagonista suo figlio Saverio, autistico. Tutti lontani dal ragazzo, mamma e figlio avrebbero avuto bisogno di una mano, sì, ma non di compassione. Adriana, quelle parole che provavano a scavare nella coscienza di una città “spettatrice”, le ha sempre rispedite al mittente. Anzi, è stato come se le avesse respinte come “irricevibili”. C’era stata un’occasione, forse due, in cui la donna aveva provato, con grande dignità, a spiegare di cosa avesse bisogno, più per il bene del ragazzo, che non per se stessa. Missione fallita. Parole, tante; fatti, nessuno. Tanto che Adriana e Saverio hanno lasciato casa, piccola, accogliente, ma tremendamente loro, anche se con qualche ipoteca: i soldi servivano e serviranno a sostenere l’assistenza per il ragazzo.

«I servizi sociali – ha spiegato sempre all’Ansa, Adriana – hanno trovato un posto che probabilmente sarà pronto tra un paio di mesi, poi sono andati via; così sono stata costretta a sgombrare casa alla meno peggio: non vi fidate, anche se c’è di mezzo un ragazzo disabile, dell’intera storia importa poco». Infine, si diceva: «Dove andrò? Non lo saprà nessuno, statene certi».

«Imprenditore in Senegal»

Claudio, sessantenne, vicentino sbanca a Dakar

La sua “avventura” nel cuore dell’Africa occidentale inizia con “Sapori d’Italia”, qualche anno fa. «Ho provato ad esportare prima i prodotti della mia terra, poi il resto dell’enogastronomia del mio Paese». Un successo, anche in termini di fatturazione. «Hanno tentato di replicare il mio percorso, arrendendosi subito…»

 

«Sapori d’Italia». Chi lo diceva che il nostro Paese potesse esportare prodotti in Senegal, in passato una delle colonie più importanti dell’Africa occidentale francese, di cui Dakar è la capitale? Eppure, da tempo la capitale, famosa per ospitare manifestazioni di alto profilo sportivo, è affascinata dalle bontà del nostro Paese che gode credibilità in tutto il mondo.

Nei giorni scorsi, grazie ad un servizio riportato dal corriere.it, il brand «Sapori d’Italia» è tornato alla ribalta. Merito del prestigioso quotidiano online, che non si lascia scappare quella che, a ragione, possiamo definire “ghiotta occasione”, ma anche del protagonista della nostra storia, Claudio Bonatto, sessantenne nativo di Breganze (Vicenza), la voglia matta di viaggiare e fare impresa, tanto che quando il cronista prova a farsi rilasciare una, due battute, lui preferisce far parlare il suo passato e, perché no, il suo futuro, fatto di imprese e scommesse da una parte all’altra del pianeta. Poi arriva Dakar. «La mia – confessa al Corriere – è diventata in pochi anni la prima azienda di importazione di prodotti di enogastronomia italiana qui in Senegal, con un occhi di riguardo a tutto ciò che proviene dal Veneto, dalla mia regione d’origine».

 

 

QUESTIONE DI «SAPORI»

Per Claudio non è solo questione di business, nel tempo ha imparato che non puoi arrivare secondo, specie se vuoi fare impresa ad alto livello. Dunque, la risposta resa al cronista del popolare quotidiano che registra alti numeri anche online, non ci stupisce. «Siamo i numeri uno – conferma infatti Bonatto – tanto che vendo quello che altri non hanno; chi si serve da me sa perfettamente che si troverà al cospetto di prodotti introvabili: articoli che qui, a Dakar, non ci sono, non sono nemmeno neppure reperibili nei migliori supermercati francesi, che qui in Senegal sono disseminati ovunque».

Fondata sei anni fa, poco prima della pandemia, l’azienda di Bonatto è diventata la principale importatrice di prodotti alimentari italiani in Senegal, con particolare attenzione rivolta ai prodotti della sua terra (Veneto). Salumi, dalla sopressa al cotechino, proseguendo con formaggi tipici come l’Asiago e il Morlacco, prodotti con i quali il nostro connazionale ha saputo conquistare i palati locali e internazionali, vendendo – si diceva – prodotti introvabili nei supermercati francesi presenti in tutto Senegal. Lo scorso anno, Claudio registra un primato raggiungendo un fatturato di mezzo milione di euro. Un buon inizio, che lascia ben sperare in prospettiva, perché gli investimenti di «Sapori d’Italia» proseguono.

 

 

DAKAR, AGGREGATORE SOCIALE

Il suo quartier generale è al centro di Dakar. Non è semplicemente un esercizio, ma un “point” nel quale si incrociano non solo palati, ma anche culture, una storia che, non a caso, comincia dalla curiosità che i clienti manifestano per i suoi prodotti: nella sua attività, quanti sono interessati al suo brand scoprono la storia dei prodotti e le tradizioni culinarie italiane. Bonatto, ecco il bernoccolo dell’imprenditore, ha creato uno spazio dove non solo fanno bella mostra di sé prodotti di alta qualità, ma si promuove anche un’esperienza gastronomica completa, dalle degustazioni di vino alle storie dei produttori italiani. Qualcuno si è domandato se l’imprenditore veneto non temesse una certa concorrenza. Di solito l’invidia e lo spirito di emulazione spingono altri imprenditori a replicare più o meno la stessa formula.

Ci hanno provato, figuriamoci, ma, c’è un ma: «Chi ha provato a imitarmi – riporta la redazione di AltovicentinOnline – è durato pochi mesi». Il suo negozio, sottolinea il “giornale” online, è ormai una tappa obbligata per gli expat, i diplomatici e i senegalesi in cerca di un assaggio di Italia. L’inaugurazione di “Sapori d’Italia” è stata un evento mondano a Dakar, e ora Bonatto sta valutando di ampliare il locale per accogliere meglio la crescente clientela. Con un progetto che va oltre la semplice vendita, Bonatto sta contribuendo a rafforzare i legami tra Italia e Senegal, portando nel cuore dell’Africa la cultura e i sapori del Veneto.