Sow, guineano, ventuno anni, scrive e canta

«…Scrivo una canzone! Fuggito dal mio Paese, ne ho attraversati tanti. Lavorato da schiavo, poi finalmente libero. Su un barcone una paura matta, mi sono rivolto al Cielo, se mi salvo racconto questa e tante altre storie…». 

«Se mi salvo, scrivo una canzone!», si ripeteva su un barcone sbattuto da onde che facevano paura, tanto erano alte. «Canzoni: è quello che ho imparato a fare negli ultimi cinque anni, tradurre i sentimenti in musica e parole!». Il suo volto nero, preoccupato, fissa la prua di un barcone. Uno dei tanti con il muso diretto, almeno questo sembra, verso la libertà. «Viaggiamo senza bussola, uno che guida l’imbarcazione ci ha detto che sa orientarsi anche senza: “Non preoccupatevi!”, ci ripete. E più ce lo ricorda, più ho la sensazione che nemmeno lui sappia dove ci porteranno bagnarola e vento». Non vorremmo stare nella testa, né al suo posto, in quel tratto di mare abbandonato da tutti, perfino dalle vedette. Dalla Libia all’Italia. Quelle acque interessano relativamente. Chi si è spinto fino a lì, mare aperto, lo fa a sua rischio e pericolo.

Appena ventuno anni, cappellino e occhiali neri, da sole, a Sow la passione per la musica è arrivata relativamente tardi. «Avevo quindici anni – racconta – ascoltavo solo musica giamaicana: quasi quasi invece di cantarle, le canzoni le scrivo, ma prima dovevo imparare a suonare uno strumento, la chitarra mi sembrava il più semplice e il meno costoso».

Torniamo in mare aperto. L’imbarcazione ha un nome, spiega Sow Ibrahim, guineano, ventuno anni, in arte fa Manby Kapororail. E’ così che lo gettonano sul web un pugno di amici e migliaia “navigatori”. «Zodiac, lo dico nella canzone che poi ho scritto – non senza sofferenze paura, agitato in uno specchio d’acqua del quale non si vedeva l’inizio e nemmeno la fine – è il nome dell’imbarcazione a bordo della quale, alla fine, sono arrivato in Italia; sbattuto dalle onde e da un brutto presentimento, non sapevo nemmeno cosa invocare: che finisse bene o che finisse la storia; il confine è sottile, ripensandoci non mi rendo nemmeno conto a che punto fossi arrivato: se invocare la salvezza o la fine. In più di qualche momento, quello stato d’animo mi sembrava uguale».

PRIMA UNA BRUTTA SENSAZIONE

Avevo la sensazione di non appartenermi più, non avevo sentimenti: me lo hanno detto compagni di viaggi, una volta sbarcati insieme; fissavo il vuoto, non pensavo, mi ero completamente estraniato. E’ durato un’ora, un giorno, francamente non lo so, certo è che sono stato scosso da un brivido di freddo, come se qualcuno mi avesse gettato sul volto un secchio d’acqua, come fanno con i pugili quando le hanno prese di santa ragione e non sanno che sono sul ring».

Il suo ring è quella barca. Non può scappare. Quella doccia gelata è stata salutare. Lo ha ricondotto al ragionamento di partenza, quando ha deciso di lasciare la sua Guinea per tentare un po’ di fortuna. «Nemmeno io – dice Sow – sapevo dove le mie gambe mi avrebbero portato, tanto che di Paesi – prima di arrivare in Italia – ne ho attraversati diversi, una decina forse:  Mali, Togo, Benin, Niger, Algeria, Libia… Una fuga durata due anni, perché nessuno Stato era quello giusto per fermarsi a vita, provare a costruire qualcosa, c’era sempre un elemento che mi spingeva a riprendere quella corsa a piedi, fino a quando avrei avuto benzina nelle gambe».

Contento di aver scritto quella canzone. Ricorda un versetto, “Bianco, nero, giallo, nero, nero” il titolo. «Tanti colori di facce perdute – canta Sow, come fosse un rapper disinvolto – forti profumi di pelli sudate; lingue mischiate, trecce di razze, mille speranze, sogni infiniti; tutti stretti dentro “Zodiac”, grande barcone, sul grande mare…». L’ha scritta in italiano. «Un omaggio alla terra che mi ha abbracciato: le sono riconoscente, come a tutti gli italiani, la gente che incontro ovunque: mi sono attrezzato, ho gli strumenti che trascino sul troller, mi sento un dj, “suono” e faccio animazione e se i ragazzi che mi invitano in qualche serata, canto anche».

POI, HO OCCUPATO LA MIA MENTE…

«L’idea mi è venuta lì – ricorda Sow – sul un barcone: se mi salvo la scrivo, mi ripromisi; sogno di fare l’artista per mestiere, risparmio per produrmi un mixtape e un videoalbum».  C’è anche qualcosa di molto familiare. «Nella canzone un passaggio l’ho dedicato a “Costruiamo Insieme”, che mi ha accolto come fossi uno di famiglia: era il minimo che potessi fare per ricambiare il regalo più grande della mia vita, la mia stessa vita…».

Cura la sua immagine, Sow. Lavoricchia nelle discoteche, in qualche serata è una piccola star, canta, anima, suona. «…La chitarra, ma attenzione, non sono un professionista, anzi, sono sincero: ogni tanto le corde dello strumento stridono, esprimono quasi dolore – sorride con un’aria furba per poi tornare serio – come è successo a me quando sono stato in Libia, dove ho passato brutti momenti: non sapevo quale fine mi toccasse, chiuso in uno stanzone, sottochiave, insieme a tanti altri compagni; la sera a letto, pane e acqua, il giorno dopo, sveglia per farti scegliere da qualcuno che ti avrebbe pagato poco e male, magari anche picchiato se ti avesse visto per un attimo a fare pausa nei campi…». Funzionava così, spiega amaro Sow, che ora ha un piccolo sogno. «Continuare a fare canzoni, ho un canale Youtube sul quale ho messo le mie prime cose, compresa “Bianco, nero, giallo, nero, nero”: prima un mixtape: due canzoni in italiano, due in inglese, due in francese, voglio che tutti capiscano un linguaggio unico, universale: la libertà».