«Allenate anima e cuore!»

Roberto Vecchioni, lunedì scorso all’Orfeo di Taranto


«Il concerto cambia le tue canzoni, ogni sera ti prende in modo diverso. Ottimo il rapporto con “Luci a San Siro” e “Samarcanda”. Quando ho visto la scena di “Tre uomini e una gamba” ho riso come un matto. Invecchiando ti rendi conto che non è tutto far musica e canzoni. Sento vicini Guccini e Branduardi, quelli del “Tenco”. Insegnare ai giovani aiuta a tenersi vivi. Il Salento è casa mia…».

 

Due giorni nella sua Puglia. Lui milanese di nascita (Carate Brianza), origini napoletane, salentino di adozione. Dopo due anni di stop a causa della pandemia, è tornato fra il pubblico. Due concerti con l’Orchestra della Magna Grecia diretta dal Maestro Pasquale Veleno, domenica in piazza a Fasano, lunedì al teatro Orfeo. Dunque, Roberto, il tuo rapporto con il “live” e un ritorno alle tue origini, il Salento che tu ami così tanto.

«Con il “live” ho un rapporto bellissimo, lo stesso con il Salento, la Puglia in generale. Castro, Leuca e Gallipoli le considero casa mia. E’ lì che vado al mare. E poi, le basiliche e le cattedrali, una meraviglia. Il rapporto “dal vivo” è molto più bello di quello col “morto”, che poi sarebbe lo studio, la realizzazione di un album. Il “live” ti dà modo di cambiare ogni sera, di dare altre inflessioni a una canzone, di emozionarti in modo diverso. E poi il “live”, quello con una orchestra così importante, è molto particolare…».

 

Quando si fa un album, le canzoni si pensa al come metterle in sequenza. Nel concerto come funziona?

«Prima si studiano le canzoni da riprodurre; a volte capita che alcune voglio ricantarle io; altre, stranamente, restano lì, non le canto per anni, ma poi mi piace recuperarle. Vengono fuori tre, quattro scalette, fino a quando alla fine non viene fuori quella giusta. Non è mai capitato, però, di avvertire la sensazione che il pubblico non trovasse di suo gradimento la scelta definitiva».

 

Il rapporto con il passato discografico com’è?

«Non è importante, ho scritto trecentoventi canzoni, prima o poi le ricanto tutte. C’è tempo…».

VECCHIONI 01 - 1Foto Aurelio Castellaneta

 

Con “Luci a San Siro” e “Samarcanda” come siamo messi?

«“Luci a San Siro” è sempre una cosa diversa, è un happening, un divertissement, ormai va e viene sulla mia voce, l’accompagnamento è libero al massimo. E’ diventata una song molto intensa. “Samarcanda”, il più delle volte, resta uguale…».

 

A proposito di “Luci a San Siro”, bel tributo Aldo Giovanni e Giacomo, in “Tre uomini e una gamba”.

«Sono miei amici da sempre. Ci conosciamo da prima che il successo li consacrasse attori di alto livello. Siamo interisti tutti e quattro, poi… Prima del Covid ci incontravamo spesso allo stadio. Presto torneremo ad abbracciarci. “Luci a San Siro” è il nostro inno. La mia reazione alla scena in cui Giovanni è in auto, sfila dal mangianastri “Anima mia”, per mettere “Luci a San Siro”? Mi aveva avvisato Giovanni, ma quando quello spezzone l’ho visto al cinema ho riso come un pazzo!».

 

Il rapporto con i colleghi?

«Invecchiando si ha sempre meno tempo di vederli. Ci si rende conto che nella vita non è tutto far musica e canzoni. Quando hai trenta, quarant’anni hai passione e voglia di lottare, poi con gli anni vengono fuori cose che contano molto di più: gli amici, la famiglia, la vita privata. Questo avviene nel teatro, nel cinema, nella canzone. Vedo poche persone a cui voglio bene: Guccini e Branduardi per esempio, loro mi stanno nel cuore, gli amici del “Tenco”, che rivedo più o meno ogni anno. Ma, di sicuro, ma con gli altri non c’è più quel rapporto che esisteva un tempo».

 

Il rapporto con Sanremo.

«La prima volta ci sono andato quando ero piccolo e incosciente, era un’altra cosa. Dovevo uscire dal mio bozzolo e fare qualcosa. Oggi la vedo come una cosa divertente, una kermesse di italianità perduta: va vista così, in quella forma».

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Foto Aurelio Castellaneta

 

Jannacci, dietro le quinte, in uno stesso Sanremo incrociando Gino Paoli, pronunciò la seguente frase: “Anche tu, qui, Gino, a fare ‘ste puttanate?”.

«Ah! Ah! Ah! – risata esagerata – però vedi, servono comunque, perché Sanremo è una rassegna popolarissima. Quelle “puttanate” in passato le hanno fatte anche Dalla, Vasco, Zucchero, Cocciante, Jovanotti; le ho fatte pure io, come Ron e Barbarossa, che il Festival lo abbiamo anche vinto. C’è stato un momento della nostra vita artistica in cui siamo “usciti” tutti con quelle “puttanate”…».

 

Un giorno dicesti “Se non vendi settantamila copie sei fuori mercato”, solo dieci vendono di più.

«Oggi anche quelle settantamila non si vendono più, saranno rimasti in cinque a venderne così tante. Il mercato, purtroppo, è calato dell’80%, il cd è superato, c’è Internet: si prende tutto da lì. Sono contento, però, di essere fra i pochi a resistere, io che di copie una volta ne vendevo anche trecentomila. Le cose sono cambiate parecchio. Non basta più fare un bell’album, ci vuole sempre un’idea straripante che faccia ascoltare a tutti un pezzo per vendere l’intero disco. A me non piace questo sistema, ho rispetto di quel pubblico che se trova un disco bello lo compra…».

 

Qual è il sistema per stare accanto ai giovani, tu che sei un “pensionato non pensionato” e “docente senza portafoglio”?

«E’ divertentissimo, mi permette di insegnare una materia sulla quale ho lavorato per anni: quanto contano le parole nelle canzoni, dall’antichità ad oggi, un tema che a Scienze della comunicazione ha interessato anche cinquecento, seicento studenti per volta, non pochi; questa cosa mi ha sempre dato straordinarie sferzate di vita. Stare con i giovani? Tutti sono giovani, anche i cinquantenni, i sessantenni sono giovani, basta volerlo; non è un problema di acciacchi: ma, attenzione, per mantenerti giovane devi tenere anima e cuore in costante allenamento».

«Filippino da ridere…»

Marco Marzocca, Guzzanti e la sua vocazione

«Ariel è uno dei personaggi più amati, anche se adoro il “notaio”: ho ribaltato il concetto, il collaboratore domestico prende per il naso il suo datore di lavoro. Comico per scelta, mi sono laureato in Farmacia, ma il richiamo di teatro e tv è stato decisivo. “Distretto di polizia”, la mia fortuna e la mia storia d’amore, ma quanta riconoscenza per Corrado e Serena Dandini…»

 

Molti lo conoscono per essere stato, e ancora lo è, pandemia e apertura dei teatri permettendo, “spalla” di Corrado Guzzanti. Non c’è spettacolo che il popolare comico non affronti se non con Marco Marzocca. Romano, sessant’anni, laureato in Farmacia alla Sapienza di Roma, artista a tutto tondo. Con Guzzanti, fra tv e teatro, è protagonista con “Tunnel”, “L’Ottavo nano”, “Il caso Scrafoglia” e “Aniene”, dunque con “Millenovecentonovantadieci” e “…la seconda che hai detto!”. Altra botta di popolarità, l’agente Ugo Lmbardi in “Distretto di polizia”. Da solo o con il barese Stefano Sarcinelli e il romano Max Paiella, porta in scena “Ma è possibbole”, “Da giovidi a giovidi”, fino a “Due botte a settimana”, prima che il covid spettinasse i giochi e facesse segnare il passo. Al suo tour come a quello di decine di colleghi e compagnie teatrali.

Marzocca ha i tempi giusti, la battuta pronta. All’artista molti riconoscono qualità non comuni, fra queste misura e discrezione. Caratterista per vocazione, sa stare un passo indietro al protagonista, senza che questa scelta venga vista come una rinuncia al proprio carattere, alla propria cifra attoriale, sicuramente straordinaria.

Marzocca, artista che Serena Dandini e Corrado Guzzanti hanno spesso raccomandato. Meglio, segnalato, per non cadere nel divertente equivoco. La prima, autrice di trasmissioni di successo come “Tunnel” e “Pippo Chennedy Show”; il secondo per essere stato protagonista, si diceva, anche insieme allo stesso Marco, di sketch e trasmissioni rimaste nella storia di una tv che di colpo si sfilò giacca e cravatta.

 

Marzocca, comico per scelta. 

«Non ci posso far niente, il richiamo del palcoscenico è stato più forte di qualsiasi tipo di studio, nonostante abbia cominciato come farmacista».

 

Dovesse spiegarsi in una, due battute al massimo. 

«Amo la musica, il golf, la pasta, pescare a mosca, il cinema: tutti i generi, in particolare la fantascienza, ma soprattutto amo videogiocare».

 

Marzocca e i suoi cavalli di battaglia. 

«Devo la popolarità al notaio del Pippo Chennedy Show, poi al pupazzo Sturby, il bambino Mikelino, padre Federico, il filippino Ariel da Zelig Circus: ora che ci penso, cose ne ho fatte».

 

Come nascono personaggi così singolari e diversi fra loro. 

«Casualmente, dall’osservazione della realtà. Nulla è premeditato. Mai studiato a tavolino: ci ho provato, lo ammetto, ma il risultato è stato sempre una mezza delusione. Dunque, quello che mi colpisce nella vita e mi diverte, lo elaboro».

 

Dovesse darsi una definizione.

«Mi vedo come un pittore che guarda un paesaggio e lo interpreta, a modo suo evidentemente. Un comico, se mi lasciate passare il termine, scova una situazione, la elabora, infine la restituisce modificata. Sostanzialmente i personaggi che interpreto me li ha ispirati la realtà, volutamente esagerati o comunque modificati».

 

Marzocca, il suo punto di vista sul dilemma tv o teatro. 

«Teatro, tutta la vita, nemmeno a chiederlo. Le tavole del palcoscenico ti offrono il modo di prenderti tutto il tempo che vuoi ed esprimerti come ti pare. In tv hai vincoli, intanto perché ci sono tempi da rispettare e altri attori che, giustamente, reclamano il loro spazio. E, per dirla tutta, a volte c’è anche chi ti dice quello che devi e non devi dire».

 

Marzocca, monologhi e dialoghi trattati a colpi di forbici. 

«Siamo in Italia, dunque non è difficile che capiti anche questo. Ma se non fai televisione non ti conosce nessuno, nessuno viene a vederti a teatro, ergo: la tv sei costretto a farla».

 

Distretto di polizia, una delle sue soddisfazioni professionali.

«Enorme, poliziotto a parte, è un po’ come se recitassi il ruolo che ho nella vita. Gli sceneggiatori hanno voluto riprendere la mia vera storia. Ho sposato Liliana, una ragazza colombiana conosciuta in chat, esattamente come “Ugo” di Distretto”: insieme abbiamo tre figli, collezioniamo nazionalità: lei colombiana, americana e italiana; io, per ora, solo italiana e americana, anche se conto di pareggiare il conto».

 

La sua storia d’amore, singolare.

«Non erano i tempi delle chat di oggi, da “cuori solitari” e via discorrendo: più di venti anni fa su internet c’erano gruppi di discussione, io che ho amato sempre viaggiare sono entrato in uno di questi temi; io e Liliana abbiamo cominciato a chattare una, due, tre volte, ad orari impensabili, fino a quando non ha accettato il mio invito, raggiungermi in Italia, a Roma. C’era del tenero, ma da lì in poi è nata la nostra storia d’amore e tre figli. che parlano correntemente spagnolo, inglese e italiano…».

 

Un artista, si dice, sia legato a tutti i suoi personaggi, lei Marzocca?

«Ariel, il filippino è fra i personaggi più amati dal pubblico: ho ribaltato il concetto, ildomestico prende per il naso il suo datore di lavoro innescando una serie di divertenti incomprensioni. Però amo il “notaio”, quel tipo che sbuffa e smadonna. Mi ricorda i nonni che non ho più, così diciamo che quando lo interpreto penso spesso a loro e a tutti quegli anziani, amabilissimi brontoloni».

«Puglia, amore infinito»

Bungaro, a breve pubblica un nuovo album

«Devo tanto alla mia terra, l’avermi trasmesso la passione, dato il coraggio di partire senza mai dimenticare le mie radici», dice il cantautore brindisino. «Fiorella Mannoia, rapporto straordinario, poi le mie altre stelle: Ornella Vanoni, Antonella Ruggiero, Malika Ayane, Rakele…». Intanto pensa all’estate. «Voglio tornare a riabbracciare il pubblico, come ho fatto con “Maredentro”, concerti senza sosta per due anni…»

«Uscirò a breve con un nuovo album del quale non svelo per motivi scaramantici, ma anche perché certe cose potrebbero concretizzarsi in queste ore: ho però anticipato questo lavoro composto da undici brani con un duetto con Fiorella Mannoia, “Il cielo è di tutti”, omaggio al grande Gianni Rodari nel centenario della nascita del grande poeta che molti conoscono come autore di letteratura per l’infanzia tradotta in tutto il mondo».

Non lo frena nemmeno il Covid. Certo, gli manca il rapporto diretto con il pubblico, i tanti concerti come accaduto con album e spettacolo “Maredentro”, ma Bungaro, brindisino, Antonio Calò all’anagrafe, prosegue la sua attività doppia, di autore e interprete. Tripla, di mezzo c’è anche quella di produttore, Rakele, altro personaggio scoperti e portati alla ribalta. Tirato per la giacchetta, Bungaro, nonostante amicizia e feeling tutto pugliese, non si sbilancia più di tanto.

Ci regala, però, qualche anticipazione. «Il mio ufficio stampa – ci dice – mi invita ad essere moderato nelle anticipazioni, posso dire, magari, di “Malia”, canzone dedicata ad Amalia Rodriguez; oppure “Anna siamo tutti quanti”, eseguita con l’Orchestra del San Carlo di Napoli e “L’appartenenza”, altro inedito, da qui dovrebbe prendere le mosse uno spettacolo con il quale spero di ricominciare a girare dal prossimo luglio così da ripetere l’esperienza di “Maredentro”, due anni di concerti». E poi, per dire quale sintonia abbia con la Mannoia, la collaborazione a “Padroni di niente”, album uscito di recente, con le sue “Eccomi qui” e “Olà”».

Bungaro, insomma, torna quando può. Si prende tutto il tempo di cui ha bisogno. Col benestare di amici e discografici che lo corteggiano. Ha mano e fantasia. Un cellulare che nelle due battute sul suo nuovo album, squilla almeno un paio di volte per richiedere una canzone. E Bungaro, che non è una radio, tantomeno un juke-box, ma un autore, prende tempo. E, finalmente, se ne dedica un po’ perché attendeva da tanto l’occasione di godersi questo momento.

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Torniamo a Fiorella Mannoia. Nel suo ultimo album, “Padroni di niente”, canta le sue“Eccomi qui” e “Olà”.

«Sentir cantare una tua canzone da Fiorella, è una grande emozione che avevo già provato quando aveva accettato di interpretare la mia “Fino a che non finisce”; duettare con lei, poi, è una doppia emozione. La Mannoia è una voce pensante. Quando scrissi “Il deserto” con Pino Romanelli, pensai subito a lei. Conosco il suo codice: nella canzone c’è l’amore come tema sociale. Mi recai a casa sua per farle sentire il brano. L’ascoltò in silenzio, alla fine tirò su una manica della maglietta che indossava, come se volesse trasmettermi i brividi che le aveva appena trasmesso sulla pelle quella canzone: “…quando andiamo in studio?”, mi disse. Fiorella è un’emozione infinita».

 

Le manca un “sì” per completare il suo parterre di voci femminili?

«Sono strafelice così. Oltre a Fiorella hanno cantato mie canzoni anche Ornella Vanoni, Antonella Ruggiero, Nicky Nicolai, Malika Ayane. Qualcuno mi chiede di Mina: rispondo che ci stiamo corteggiando a distanza, ho parlato con il figlio Massimiliano che di me ha grande stima. Vedremo, se son rose…Come per le altre “star”, anche per lei ci vorrà qualcosa che faccia la differenza. Me ne accorgo quando sta nascendo una cosa importante: il mio cuore batte forte, è il momento giusto. Avete presente quando scocca la scintilla agli innamorati?».

 

C’è una canzone che sembra scritta da lei.

«Ci penso un attimo: forse “Una notte in Italia” di Ivano Fossati. Sembra scritta da me, o meglio, avrei voluto scriverla io. Dello stesso Fossati, amo la straordinaria “C’è tempo”, anche questa vicina alle mie frequenze. Ci metterei anche “Povera patria” di Franco Battiato: canzoni che restano nel cuore di chi ama la qualità».

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Fra gli omaggi alla sua terra, in dialetto salentino.

«Quando si è trattato di animare, dare ritmo e passione ad alcune canzoni, l’ho fatto: è stato così per “Madonna di lu finimundu”, con lo straordinario canto appassionato di Lucilla Galeazzi che si unisce all’organetto di Ambrogio Sparagna, fino a diventare una danza frenetica, liberatrice come una taranta. Penso anche a “Piccenna mia”, una ninna nanna che a suo tempo dedicai a mia figlia Giulia».

 

Cosa pensa di avere imparato in tutti questi anni?

«Ascoltare gli altri, guardarmi intorno con curiosità, avere la percezione della lealtà: lo devo a mio padre».

 

Cosa pensa, invece, di avere insegnato?

«Forse ad essere credibili, a non nascondersi mai; insegno composizione e uso della voce: ai ragazzi provo a spiegare che cercare il successo è, in qualche modo, il rapporto con la propria fragilità, perché poi è da lì che parte tutto».

«A metà dell’opera…»

Domingo Stasi, tarantino, duemilacinquecento volte in scena in Italia e all’estero

«Quando sei tenore e, per giunta italiano, all’estero ti acclamano, purché dimostri il tuo valore. A venti anni ho sfiorato il sogno del professionismo. Devo a papà e mamma l’amore per il Belcanto. Debutto da protagonista al “Regio” di Parma, ma che emozione cantare al Valle d’Itria e all’Orfeo di Taranto…»

Domenico Stasi, “Domingo” in arte e sui borderò Siae. Tarantino, cinquantatré anni, da trenta è tenore professionista. Debutta al teatro Regio di Parma con la Compagnia del grande Corrado Abbati. Gira prima l’Italia, poi il resto del mondo. Una, due, tre volte. Milleottocento recite teatrali,  più di settecento concerti. Non si finisce mai di imparare, né di studiare, è questa la lezione del Maestro Domingo Stasi, tanto che, come ci spiegherà, ottimista per natura, il Covid per lui è stato un bicchiere mezzo pieno tanto da dedicarsi ad attività e studi che non aveva mai svolto fino a questo momento.

 

Partiamo proprio da qui, come fa un cantante lirico a tenersi in esercizio.

«Periodo difficile, occorre avere una grande forza mentale; positivo per carattere, attendo la ripartenza, svolgo i miei esercizi quotidiani per tenere le corde vocali in costante allenamento: a ripetere un repertorio consolidato, ma anche a studiare quanto potrebbe essere di particolare interesse per uno, come me, alla costante ricerca della perfezione e di nuovi stimoli».

 

Quanto manca ad un artista quella sana tensione che lo relaziona al pubblico?

«Abituarsi, piegarsi ad un periodo così complicato come quello che stiamo attraversando a causa della pandemia, è l’esercizio mentale più difficile: passione e amore per questa professione ti schiudono nuovi mondi, orizzonti culturali che ti aiutano sicuramente a crescere; fino a quando è stato possibile salire su un palcoscenico, interpretando un numero indescrivibile di recite in costume non mi sono mai trovato davanti a platee con sessanta, ottanta spettatori…».

 

Per non parlare con dei tour all’estero.

«All’attivo milleottocento recite teatrali, dunque in costume, e qualcosa come oltre settecento concerti. Con la mia compagnia cantavo davanti a platee dai duemila ai quattromila spettatori: cantare, recitare davanti a una media di seicento, piuttosto che ottocento persone, è una prova di carattere non indifferente, fatta di esercizi e massima concentrazione. Con il pubblico ogni sera è una bella sfida che, a fine rappresentazione, provi a chiudere con un grande abbraccio».

 

Quando ha capito che la sua grande passione stava diventando una professione?

«Quando ho capito che i grandi cantanti lirici non si fermavano ad ascoltarmi non di certo per compiacermi o per piaggeria: ecco, lì ho avuto l’esatta sensazione che potevo provare a realizzare un sogno cominciato a coltivare a tredici, quattordici anni: allora cantavo sui dischi suonati allo stereo, spinto dall’amore trasmessomi dai miei genitori, in particolare da mio padre, patito della lirica. Dovessi dire un’età precisa, bene, i vent’anni: è allora che gli insegnanti si sono accorti di me; a quel punto ho capito che la passione cominciava a trasformarsi in qualcosa di più concreto, posto che la crescita doveva però passare attraverso sacrifici, tanta gavetta. Infine, il primo passo importante, il debutto in qualità di tenore protagonista al “Regio” di Parma e, a seguire, tournée nei più grandi teatri italiani con la prestigiosa Giovane Compagnia di Operette di Corrado Abbati».

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Un concerto che incornicerebbe?

«Risposta imbarazzante, come se mi chiedesse qual è il cantante che amo: dovessi fare sintesi, l’elenco comprenderebbe almeno una decina di nomi; lo stesso dicasi per recite e concerti, ma se fossi costretto a una risposta secca tornerei certamente al “Regio”, Ciclamino in “Cin Ci Là”, come a dire che la prima emozione non si scorda mai; accanto a questa ci metterei il debutto al Festival della Valle d’Itria, del quale ero stato spettatore da ragazzino; come la “prima” all’Orfeo di Taranto, giocare in casa provoca grande emozione, in un attimo può demolire quelle certezze messe insieme giorno dopo giorno con l’esperienza».

 

Ha girato il mondo più volte. Volessimo fare un distinguo fra pubblico e pubblico?

«Quando ti presenti come “tenore italiano” all’estero, puoi considerarti già a metà dell’opera, il pubblico considera il nostro Paese la culla del Belcanto: ma, attenzione, anche qui l’arma è a doppio taglio, a cominciare da una responsabilità maggiore; oggi esiste una più spiccata conoscenza delle opere e delle romanze anche grazie ai grandi interpreti della nostra canzone: negli Anni Settanta e Ottanta la lirica esercitava un certo fascino, oggi invece il pubblico devi convincerlo; un po’ come i calciatori ingaggiati negli Stati Uniti o in Cina per dare spettacolo. A proposito, proprio in Cina, confesso, in modo inatteso, ho trovato calore e grande competenza; lo stesso in Russia, senza dimenticare il Messico, Paese nel quale la cultura latina gioca un ruolo fondamentale».

 

Cavalli di battaglia?

«Tenore lirico spinto, mi sono adattato anche in ruoli da lirico leggero, come nell’operetta, tanto che quelle più indicate alla mia voce in questa forma di spettacolo sono quelle da “baritenore”, autentici gioielli scritti da Emmerich Kalman e Franz Lehar, fra i principali compositori dell’operetta viennese; nella lirica, invece, Cavalleria rusticana, Pagliacci, Tosca, Traviata, tutte in repertorio, in attesa di Turandot e Aida, interpretazioni di pari ardimento con le quali prima o poi mi misurerò».

 

Quando pensa a Taranto?

«Rapporto di amore e odio, amo la mia città, la sua storia e le sue tradizioni. Fin dal liceo, però, ho sempre desiderato che i miei concittadini avessero uno spirito diverso, fossero più consapevoli delle proprie potenzialità; vorrei, in qualche modo, che il tarantino non ostentasse solo l’orgoglio di appartenenza, ma si impegnasse nel provare a costruire un sogno. Nella mia vita ho realizzato un 70-80% dei miei progetti, la restante percentuale la lascio a quel desiderio di imparare sempre qualcosa di nuovo».

“Spalla” si nasce…

Enzo Garinei, novantaquattro anni, una vita dedicata al “tavolaccio”

«Amo questa terra, gli occhi delle donne del Sud», confessa il grande attore romano. «Palcoscenico, cinema e tv; Pietro, mio fratello, e Sandro Giovannini, star del “Sistina” e delle commedie musicali. Gino Bramieri, un grande. Totò e le due anime, attore e principe». Non ha paura dell’età, «vivo alla giornata, penso a Peppino, Fabrizi, Taranto, Modugno e Manfredi che “lassù” stanno allestendo lo spettacolo più bello del mondo».

Novantaquattro anni e non sentirli, settanta spesi sulle tavole dei palcoscenici italiani. Tra un impegno e l’altro, il cinema, i film con Totò, poi Sordi, Celentano, Pozzetto, Tomas Milian, Bud Spencer e Terence Hill, rivista e commedie brillanti, la tv con Bramieri e Vianello. Spalla ideale, generoso comprimario, fratello di Pietro, della Premiata ditta “Garinei e Giovannini”, come dire la commedia musicale italiana (Rinaldo in campo, Rugantino, Aggiungi un posto a tavola), Enzo Garinei è uno che ama il teatro e questo angolo d’Italia.

«Il teatro è galantuomo”, attacca infatti, quando parla del lavoro che tanto gli ha dato, in termini di soddisfazioni professionali e tanto ci ha dato in fatto di allegria e divertimento. Affascinato dal Salento, confessa che il lavoro, complicato dal covid da oltre un anno, “è stato sempre ripagato dall’affetto del pubblico”. Anche doppiatore, tono riconoscibile e familiare, è stato la voce fuori campo (“Dio”) nell’ultima edizione di “Aggiungi un posto a tavola».

 

Di episodi, anche legati al nostro territorio ha da raccontarne a non finire.

«Brindisi, aeroporto. Quella sera in scena a Casarano, non sappiamo come risolvere il problema di spostamento, telefono in albergo, al “Silver” per chiedere informazioni: risponde un signore gentile, mi rassicura in un attimo. In aeroporto, poco dopo arriva un’auto. A bordo del mezzo, bordo proprio l’uomo della reception. Aveva appena staccato dal lavoro: nessun taxi da chiamare, accompagna personalmente in albergo me e i miei colleghi. Non c’è alcun verso di fermarsi in una stazione di servizio perché io possa ricambiare un gesto così gentile, non so con un “pieno”».

 

Senza dubbio un bel gesto, maestro.

«Non finisce qui, all’indomani lo stesso signore ci riaccompagna in aeroporto. Cosa volete che vi dica: benedico questo lavoro, la gente che va a teatro, che quasi come un debito di riconoscenza compie gesti così affettuosi; “Il nostro è solo un modo per ricambiare quanto ha fatto e farà per noi”, mi dicono spesso, e io vado fiero di tutto questo».

 

TOTO’, PRINCIPE E COMICO

Garinei, ama passeggiare per le strade delle nostre città.

«Nella provincia, anche piccola, ci sto bene; se il teatro non è molto distante dall’albergo, esco e faccio lunghe passeggiate: amo guardare le vetrine, entrare in un bar, fare colazione e scambiare due chiacchiere con la gente; poi gli occhi delle donne di qui non li trovi tanto facilmente in giro, esprimono bellezza e solarità».

 

Attaccare con una domanda è un’impresa, non sai da dove cominciare. Proviamo, Totò?

«Il mio debutto nel cinema risale a “Totò le Moko”, poi tanti altri film. Ho interpretato anche una gag che tutti ricorderanno, “Totò cerca moglie” il film: la mia fidanzata e i suoi genitori praticamente miopi, occhiali con lenti spesse. Quando Totò partiva con le sue proverbiali improvvisazioni le risate scoppiavano anche sul set, primo segnale di quello che sarebbe diventato un film di successo. Una grande scuola la sua, con Totò dovevi stare sempre in campana, ti rovesciava un copione come un guanto e dovevi seguirlo con mestiere».

 

Totò e il Principe de Curtis, dicono che fossero diversi fra loro.

«Grande attore sulla scena, uomo riservato nel privato, lontano da pettegolezzi quando appendeva al chiodo bombetta e frac. Un esempio su tutti: non si è mai saputo per chi avesse scritto “Malafemmena”, se per sedurre Silvana Pampanini o perdonare la moglie Franca Faldini per la sofferenza provocatagli prima di cedere alla sua corte spietata. Quando arrivava a Cinecittà, accompagnato dal suo autista, non appena Totò metteva piede sul set e indossava gli abiti di scena diventava un altro, si trasformava nel grande attore comico che tutti conosciamo. Parlo al presente, perché Totò vive nelle cose che ha fatto».

 

Direttore artistico del “Sistina”, a Roma, nella capitale ha aperto una scuola di recitazione, “Ribalte”.

«Un tempo arrivavano folate di ragazzi e ragazze dal Salento. Mi auguro tornino a credere nel teatro, perché è da lì che parte tutto. I miei ragazzi me li trovo ovunque, sono cresciuti professionalmente, diventati star del teatro e della tv.  Quando li incontro faccio loro sempre la stessa raccomandazione: se fate la tv, ma amate il teatro, dovete decidervi: il contatto con il pubblico è fondamentale, dunque, tornate a misurarvi con “il tavolaccio”».

 

VECCHIA GUARDIA…

Quando le pongono più o meno le stesse domande, dica la verità, a cosa pensa?

«Che sono uno dei superstiti di una vecchia guardia. Capisco il lavoro dei cronisti. Ripeto spesso, e lo dico sinceramente, non ho paura della morte: tanti colleghi mi hanno solo preceduto. Gli stessi Pietro Garinei, mio fratello, e Sandro Giovannini, il mio grande amico Gino Bramieri. Penso a Totò e Peppino, Fabrizi e Taranto, Modugno e Manfredi. Penso che “lassù” stanno allestendo lo spettacolo più bello del mondo. Per quanto mi riguarda, faccio programmi a scadenza solo per il giorno dopo, per il domani; il dopodomani lo vedo già un po’ più distante».

 

Gino Bramieri, ci dica.

«Gino, un fratello. Grandissimo attore, uomo di enorme statura. L’ho assistito nel suo ultimo tratto di vita, nel ’96, con la morte nel cuore: il Premio alla carriera a lui intitolato, consegnatomi a Taranto dal direttore artistico Renato Forte, è uno dei riconoscimenti che conservo con maggiore affetto. Di premi ne ho vinti, molto importanti anche, ma Gino… Gino è una cosa difficile da spiegare».

 

A lui la univa e la divideva la passione per il calcio.

«Lui tifoso dell’Inter, io della Lazio. Ricordo nel ’64 lo spareggio Bologna-Inter per lo scudetto. Andammo all’Olimpico insieme:  io, lui e Pietro, mio fratello. Purtroppo per lui, vinse il Bologna, 2-0. Io, non la davo a vedere, ma tifavo più che per il Bologna, per Fulvio Bernardini, allenatore dei rossoblù. Romano come me, Bernardini era stato calciatore della Roma, ma nel passato anche della “mia” Lazio. Alla sconfitta Gino reagì lanciandomi un’occhiataccia, come a dire: “anche tu…”».

 

Una delle ultime commedie portate in scena a teatro, “Facciamo l’amore” di Arthur Miller. Compagni di viaggio, fra gli altri, Gianluca Guidi e Lorenza Mario.

«Non lo dico per piaggeria, sono stati splendidi. Fra le proposte che mi sono piovute generosamente, con un pizzico di sano egoismo ho sempre scelto la più indicata per me: il lavoro, lo spessore del personaggio, ma soprattutto loro, i miei compagni di viaggio. Guidi è un attore brillante, un regista sapiente e generoso, la Mario una showgirl completa. Quella commedia si apriva con un mio lungo monologo. Non sono un monologhista, amo il botta e risposta, il dialogo serrato, incalzare e attendere. Spalla si nasce e io, modestamente, lo nacqui…».

«Caro Mac Roney…»

Intervista al Mago Forest

«Mi sono ispirato a lui, poi sono peggiorato per conto mio. Amo la Puglia, ho lavorato con Toti e Tata, il mio primo manager è di queste parti. Mi chiamassero insieme Arbore e la Gialappa’s, chi sceglierei…»

Ci sono artisti con cui stabilisci una certa empatia, subito. Avverti netta la sensazione quando li vedi in scena, riesci a leggere fra le pieghe del loro carattere, che non può essere un’altra cosa rispetto alle “luci del varietà”. Uno di questi è, sicuramente, Michele Foresta più noto come Mago Forest, comico, showman e conduttore televisivo. Periodo complicato quello del covid, non ci resta che il telefono.

 

E’ un piacere risentirla.

«Vedessi il mio di piacere, sono tutto un brivido: ma non ci davamo del “tè”? Ti prego, mi sento più a mio agio: ci conto…».

 

In estrema sintesi, da Arbore alla Gialappa’s, passando per Zelig, da ospite a presentatore. C’è un momento decisivo nel quale hai avvertito la svolta?

«Se momento decisivo possiamo chiamarlo, può essere quello di venti anni fa, quando i Gialappa’s vennero ospiti a Zelig: mi videro presentare e mi ritennero “abbastanza deficiente” per propormi il loro programma “Mai dire Maik”; chiuso in anticipo partì, comunque, la nostra collaborazione che durò nove anni ininterrottamente. Mi hanno rubato i miei migliori anni, mi hanno rubato, ma li perdono…».

 

Non riesce proprio a prendersi sul serio. Quando ti presentano, ti “lanciano” come fossi il parente povero di Silvan e Copperfield. Detto che nella realtà, sei un abile illusionista, non credi di ricordare in qualche modo anche un tuo antesignano collega, certo Mac Roney?

«Certo che sì, lui è stata la mia prima ispirazione, anzi diciamo che copiavo pari-pari le sue gag che vedevo in televisione, poi ho studiato molto e finalmente ho imparato a fallire da solo».

 

Un giorno, sbagliando un gioco di prestigio e sentendo il pubblico ridere, hai pensato di cambiare mestiere. Cosa ti ha portato a usare carte e piccioni per scatenare risate?

«Sinceramente no, fin da subito la mia intenzione è stata quella di cercare di far ridere, mi ha sempre affascinato il ruolo dell’antieroe e del mago al quale i suoi stessi attrezzi si rivoltano contro».

 

Arbore, Gialappa’s, Frassica, Chiambretti, Bisio. Quale ritieni possa essere il tuo partner ideale? Ma anche uno con cui non hai ancora lavorato, ma con il quale ti piacerebbe fare coppia? 

«Coppia, non accoppiarmi, dici. Perché ho avuto belle colleghe, Hunziker, Incontrada, la Marcuzzi. Glissiamo, dai. Diceva il poeta brasiliano Vinicius De Moraes: la vita è l’arte dell’incontro. E io incontri sul palco ne ho avuti, e tanti: ammetto di essere in debito con la fortuna. Per un comico il contesto è tutto e rare volte mi sono trovato nel posto sbagliato. Se potessi scegliere mi piacerebbe lavorare con Homer dei Simpson!».

 

Battuta veloce. I testi, li studi, li prepari o è un work in progress, nel senso che uno spettacolo dopo l’altro improvvisi, scremi e tieni le migliori battute?

«Parto da un’idea e poi la osservo con la lente distorta della comicità. Visto come parlo bene? Posso continuare, se vuoi. Mi preparo molto, ma mi piace lasciare margini all’improvvisazione, lasciarmi trasportare dagli umori del pubblico. Quello del comico è uno spettacolo sartoriale cucito ogni sera su misura».

 

Fra gli spettacoli più applauditi, “Motel Forest”, ospiti e comprimari sul palco. Qual è il canovaccio sul quale si snoda l’intera rappresentazione?

«Motel Forest è stato un luogo magico e bizzarro, in realtà un mio investimento sul futuro: De Niro apre ristoranti, Sting un agriturismo in Toscana, Antonio Banderas un mulino e io un Motel. Ci può stare, no? ».

 

Mago Forest, sei uomo del Sud, una volta si diceva che il pubblico fosse più passionale, mentre al Nord più attento e snob. E’ ancora così, secondo te?

«Devi rifarmi la domanda quando riapriranno le frontiere, pardon i teatri, i locali. La storia del pubblico caldo o freddo, tiepido, credo sia un luogo comune: detto questo in Puglia mi sono sempre trovato bene fin dai tempi della “Dolce Vita” di Bari gestita in passato dai mitici Toti e Tata, che mi presentarono il mio primo manager, che è di Nardò. Il pubblico che va a teatro sa cosa va a vedere e cosa si aspetta, io mi pongo il problema di dare sempre il massimo, perché al giorno d’oggi non è così scontato – e alla ripresa ho la sensazione che il pubblico sarà ancora più esigente – che la gente compri un biglietto, esca di casa d’inverno e vada a trovare parcheggio intorno a un  teatro per vedere uno show».

 

Finisse domani la pandemia, chiamassero Arbore e la Gialappa’s, a quale telefonata risponde per primo “Arrivo!”?  

«Se chiamano insieme trovano occupato e mi salvano da una decisione in qualche modo complicata. Meglio non lo sappiano, non gli venga davvero di telefonarmi nello stesso periodo: una confessione voglio proprio fartela: sarei molto, ma molto in imbarazzo».

«TV, amore a prima vista»

Antonio Caprarica, giornalista e volto noto del piccolo schermo 

Salentino, settant’anni appena compiuti e non sentirli. «Anche se il traguardo è sempre più vicino», scherza il popolare corrispondente Rai da Londra e Mosca, Kabul e Beirut. «Fossi costretto a scegliere fra le mie esperienze lavorative, direi senza dubbio la televisione». Venti titoli in libreria, laureato in filosofia, gli manca il contatto con i suoi lettori. «Ho avuto il “blocco dello scrittore”, forse privato della libertà a causa di questa sciagurata pandemia»

Antonio Caprarica, giornalista, scrittore e saggista italiano. Leccese di nascita, molti lo conoscono come corrispondente Rai, soprattutto da Londra, tanto che molti dei suoi titoli (una ventina i libri pubblicati)  hanno come soggetto l’Inghilterra, la politica, lo stile di vita, il romanzo dei Windsor. E’ stato, fra l’altro, corrispondente da Mosca e Parigi, ma anche dal Medioriente, in piena crisi del Golfo, da Kabul a Beirut.

 

Prima di porle qualche domanda riguardo la sua attività di giornalista e scrittore, domanda d’obbligo: come vive la pandemia, cosa ha tolto, cosa pensa abbia insegnato questa sciagura?

«La vivo con sollievo guardandomi attorno, felice di essere scampato – facendo gli scongiuri – a quella tragedia che purtroppo, solo in Italia, ha interessato decine di migliaia di vittime; dunque, sollievo perché finora l’ho scampata, ma costernazione e tanta solidarietà verso quelle famiglie per la sofferenza provata nel perdere le persone amate. E un po’ di rabbia, avendo compiuto il 30 gennaio scorso settant’anni. A quest’età i mesi, i giorni, le ore, in realtà valgono per due, se non per tre rispetto al periodo della gioventù: mi sembra di essere defraudato da questa dannata pandemia. La cosa che più mi manca è il viaggiare, pertanto spero che questa sciagura possa avere una fine, arrivi un vaccino e si possa riprendere la vita di tutti i giorni».

 

Cosa fa un giornalista attivo come lei quando non risponde alle domande di un collega?

«Non posso viaggiare, dunque non posso incontrare lettori dei miei libri, attività che amo moltissimo, avendo una media fra i cinquanta e i cento incontri l’anno; non incontro, dunque, gente che aveva la cortesia e la pazienza di leggere i miei libri. Per dirla tutta, da questo punto di vista siamo più fortunati rispetto ai nostri antenati che hanno vissuto la “spagnola” perché oggi c’è internet, così una parte del mio tempo se ne va in collegamenti, dibattiti, interventi in talk-show televisivi. E’ una limitazione che, per fortuna, l’ingegnosità dell’uomo negli ultimi vent’anni è riuscita a ridurre fortemente. Leggo molto e scrivo, anche se nel primo periodo ho accusato il cosiddetto “blocco dello scrittore” legato probabilmente a quella privazione della libertà cui mi sono sentito sottoposto».

 

Ha scritto per l’Unità, direttore di Paese sera, dei notiziari di Radiouno, direttore della stessa Radiouno. La differenza fra radio, tv, carta stampata. Avesse dovuto fare una scelta?

«E’, in qualche modo, il gioco della torre al quale non vorrei espormi, proprio perché sono state tutte esperienze importanti; ho iniziato con la carta stampata, dalla quale non pensavo di staccarmi; poi sono passato alla tv ed è stato amore a prima vista: stare davanti a una telecamera mi è sembrata una cosa naturale, come appropriarmi subito del linguaggio televisivo senza che lo avessi studiato; la radio è stata un’esperienza tardiva, ma meravigliosa, perché l’effetto evocativo della voce ha il suo fascino: il pubblico ti riconosce dalla voce, ha questa capacità mnemonica che resta anche quando le notizie si dimenticano; stampa, tv e radio sono sostanzialmente tre modi di comunicare straordinari».

 

Fosse costretto a scegliere, non ci sentono.

«Fossi costretto, beh, la televisione: ha una capacità, una totalità di registri che le altre non possono offrire; gli occhi, la voce, dunque il tono e l’accumulo di informazioni che derivano dalla conoscenza, è una ricchezza, una panoplia così ampia e così vasta da essere, forse, imbattibile rispetto alla carta stampata e alla radio».

 

Provo a porle la domanda in altro modo. Cosa l’affascina della scrittura, i tempi brevi o quelli mediamente più lunghi, considerando che i suoi servizi dovevano restare nel perimetro dei tre minuti.

«…Anche meno, purtroppo. Mi rendo conto, a volte, di aver suscitato un certo odio, rabbia nei miei giornalisti ai tempi dei notiziari radiofonici da me diretti: costringevo i miei collaboratori a servizi da un minuto, un minuto e dieci secondi al massimo; esagero, anche la Divina commedia si può sintetizzare in un minuto, ma perdiamo il meglio, le straordinarie sfumature del Sommo poeta; la sintesi è una delle esigenze fondamentali della comunicazione, e non solo perché la famosa soglia di attenzione viene meno dopo venti secondi: la rapidità nella comunicazione audio-video è essenziale per il linguaggio, la grammatica del mezzo. Nella scrittura, invece, rivendico sempre la possibilità del tempo medio-lungo con il compito di riflettere un po’ di più prima di mettere una parola su carta».

 

Fosse stato direttore, avrebbe ritenuto superflua, per amore di sintesi, la domanda sul suo Salento.

«Qui, invece, la sintesi gliela faccio in due parole: amo il Salento. La mia vita, il mio lavoro, la mia passione e la mia curiosità mi hanno portato inesorabilmente lontano dal posto in cui sono nato, però quando è possibile torno volentieri; e non è detto che negli anni che mi restano – il mio amico Walter Veltroni quando parla di età dice che “lo striscione del traguardo è più vicino” – possa trascorrere più tempo nel luogo in cui sono nato e cresciuto».

 

«Taranto, ciak si gira!»

“Pluto”, da oggi le riprese del “corto” diretto dal tarantino Ivan Saudelli

Gianmarco Tognazzi fra i protagonisti. Prodotto da Clickom srl e Programma Sviluppo, vincitore del bando “Apulia Film Fund”. «Felici che finalmente il grande lavoro di preparazione fatto in questi mesi stia per confluire sul set, soddisfatto che possa prendere vita a Taranto, la mia città», dice il regista. 

Sono iniziate questa mattina le riprese del cortometraggio “Pluto”, scritto e diretto dal regista tarantino Ivan Saudelli, un’opera che vede, fra gli altri, la partecipazione di Gian Marco Tognazzi, protagonista, fra gli altri, di “Ultrà”, “Una storia semplice”, “Romanzo criminale”, “Le ultime 56 ore” e “Il Ministro”.

“Pluto”, prodotto da Clickom srl e Programma Sviluppo, è risultato vincitore del bando “Apulia Film Fund” promosso nel 2020 dalla Fondazione Apulia Film Commission. “Pluto” è la storia di Igor, quarantenne disoccupato che cerca di sopravvivere soprattutto alla vigilia della nascita di una figlia, nata dalla relazione con Giulia conclusasi qualche mese prima. Un giorno viene convocato da una importante multinazionale (“Pluto Corporation”) che attraverso il suo vertice, Viktor, interpretato appunto da Tognazzi, lo mette davanti alla più grossa decisione della sua vita, un bivio senza ritorno.

Taranto vecchia 2 - 1

PLUTO, IL CANE DI BORIS…

Con lui ci sarà anche Pluto, il cane di Boris, il defunto figlio di Viktor. Ma perché proprio Igor? Cosa rappresenta il cane Pluto e cosa lo porta ad affrontare questa terribile situazione con apparente passività? Una serie di punti interrogativi che si accavallano e si sviscerano in una storia di sacrifici estremi ai limiti dell’assurdo, portando lo spettatore a ricostruire gli eventi scavando nel passato dei protagonisti.

Da lunedì 8 febbraio, dunque, una nuova troupe cinematografica è al lavoro in città e in provincia. Una squadra di professionisti, composta anche da eccellenze pugliesi: dal regista, Ivan Saudelli, allo scenografo, il martinese Vito Zito, fino alla truccatrice Giorgia Melillo. «Siamo felici – dice Saudelli – che finalmente il grande lavoro di preparazione fatto in questi mesi stia per confluire sul set, ancora più soddisfatto che Pluto possa prendere vita a Taranto, la mia città» .

Dopo la laurea a Roma, Saudelli è tornato a casa, nel capoluogo ionico, dove ha iniziato a lavorare ad una trilogia antologica che a distanza di anni sta per raggiungere il suo completamento. «Tutto – prosegue Saudelli – è cominciato nel 2010 con “Overture”, un lavoro distopico sull’industria e quindi sulla realtà strettamente tarantina; il secondo passo è stato “Icaro”, nel 2013, e ora , grazie a Clickom e Programma Sviluppo, ci apprestiamo finalmente a realizzare l’ultimo capitolo in un territorio che offre bellezze capaci di diventare valore aggiunto nella nostra storia» .

 

BIBLIOTECA, PAOLO VI, IL SET

Sono diverse, infatti, le location individuate da Saudelli per ambientare questo racconto che ha il sapore allo stesso tempo territoriale e futuristico. Dalla biblioteca «Acclavio» alla Circummarpiccolo, fino all’Incubatore ASI al quartiere Paolo VI. Alcune scene saranno infine girate nello stabilimento “Leonardo” di Grottaglie: negli ultimi mesi, infatti, sono stati intensi e frequenti gli incontri e i sopralluoghi durante i quali sono state individuate alcune aree dello stabilimento in grado di rappresentare in modo efficace il futuro, lo spazio e l’eccellenza ingegneristica della “Pluto Corporation”, la multinazionale rappresentata nel cortometraggio.

Tarantina, infine, è anche Clickom, la casa di produzione cinematografica che dopo l’esperienza di “Dorothy non deve morire” di Andrea Simonetti, con l’attrice Milena Vukotic, e prodotto da “10D Film”, continua a portare avanti la scelta di sostenere le eccellenze pugliesi. «Crediamo fortemente – ha spiegato Celeste Casaula, amministratrice Clickom – che il cinema e la cultura siano una delle strade da percorrere, in particolare a Taranto, per cambiare strada; crediamo nella rete tra soggetti sani e volenterosi e anche per questo abbiamo avviato un rapporto con il nuovo Spazioporto di Taranto: il futuro passa attraverso la valorizzazione delle eccellenze professionali, naturalistiche e umane del nostro territorio».

«Bene, bravo, Marley!»

Nando Popu, Sud Sound System

«Ho conosciuto Carmelo, grande attore e regista, la musica dell’immenso Bob, re del reggae, e una cultura popolare che fa crescere. E un dialetto che avvicina e non allontana. Orgogliosi delle nostre radici, ai giovani dico: non emigrate, studiate e sappiate che siete con i piedi su una miniera, come turismo e masserie, tradizioni e gastronomia. Nord e sud, bianchi e neri? Mi sembra di tornare indietro di secoli…»

 

«Ma come si fa, oggi, a parlare ancora di neri e bianchi, di sud e nord, certe volte mi sembra di tornare indietro nel tempo: cultura e tradizione, quanto arricchiscono un popolo, purtroppo vengono considerati come superfluo, qualcosa di cui si può fare a meno, a vantaggio di un consumismo che indica il futuro nell’abbigliamento costoso piuttosto che nell’iPhone».

Le origini, il dialetto, la Magna Grecia, l’emigrazione, reimpossessarsi di tradizioni e di una lingua, il salentino, tornato ad essere lingua universale. Di questo ed altro parliamo con Nando Popu, uno dei fondatori dei Sud Sound System, formazione che nel tempo ha mescolato e servito, insieme, ritmi giamaicani e sonorità locali, con l’uso del dialetto e le ballate di pìzzica e tarantella.

 

Dunque, Nando, come si vive – anzi, non si vive – questo periodo di pandemia?

«Per noi è un vero problema, siamo sospesi in un limbo. Viviamo nell’incertezza; unica certezza: la nostra attività, quella in cui ci si sforza per fare arte, cultura, se vuoi, ma sulla quale gravano incognite sulla ripresa.  Stiamo perfino seguendo con ansia le due fasi del vaccino che dovrebbe restituirci parte di una serenità che mai avremmo pensato di perdere in questo modo. Dovesse finire domani la pandemia, non sappiamo quando potrebbe riprendere l’attività concertistica».

 

Cosa fa un artista in questo momento? A cosa si dedica, da cosa attinge risorse per scrivere, campare?

«I Sud Sound System sono anche un’etichetta, quello che abbiamo guadagnato nel corso degli anni non lo abbiamo messo in tasca, ma reinvestito, nello studio di registrazione e nelle produzioni. Oggi le risorse per mantenere questi due aspetti le attingiamo dai risparmi. I ristori? Lasciamoli perdere, se non altro per una forma di rispetto nei confronti di quanti se la passano peggio. Non vediamo l’ora che tutto questo finisca e si possa finalmente riprendere dal “Dove eravamo rimasti?”».

 

Domanda che non ci facciamo sfuggire. I Sud Sound System hanno reso il salentino una lingua universale: avvertite più soddisfazione o più responsabilità?

«E’ una missione ancora in corso. Comincia negli Anni 80, quando davano per spacciato qualsiasi dialetto. Erano i tempi dell’omologazione, della “Milano da bere”, si dava peso alla leggerezza. Il dialetto era considerato, invece, un linguaggio interiore, un lessico familiare, quasi si temesse a renderlo pubblico: erano gli anziani a parlare il dialetto, tanto che il nostro slang veniva visto come qualcosa di superato, vetusto. Il dialetto era vissuto in netto contrasto con le filosofie spesso frivole di quei tempi; così abbiamo provato a farlo rivivere, coltivandolo, imparandolo e traendone insegnamento. Abbiamo dimostrato che non era qualcosa di antico, ma empatia, fratellanza, un linguaggio che avvicinava; c’erano famiglie che avevano quasi vergogna di parlare il dialetto, obbligavano i ragazzi a parlare solo l’italiano, perché secondo loro dava modo di accedere con meno complicazioni al mondo del lavoro».

 

Il dialetto visto come risorsa, perché no, economica.

«Attraverso il dialetto abbiamo scoperto di essere Magna Grecia, a scuola un tempo non ti aiutavano a comprendere le tue tradizioni: tempo perso, dicevano. Di solito nascere al Sud era come crescere insieme all’idea dell’emigrare. Quando, invece, attraverso il dialetto abbiamo compreso di avere un’appartenenza e di essere un’espressione culturale, abbiamo spiegato ai ragazzi quanto sia importante studiare per capire chi siamo. E, perché no, trasformare lo studio in economia, in turismo e masserie, tradizioni e gastronomia; studiare, un giorno, ti permetterà di fare un mestiere che ti piace e rimanere nella tua terra senza cercare soluzioni altrove, lontano dalle tue radici che devi, invece, rivendicare, sostenere, aiutando i giovani a comprendere, accorgersi che hanno i piedi poggiati su una miniera».

POPU - 1

Quanto vi sentite parte dell’esplosione di un genere, la taranta, diventata poi rassegna?

«Ci siamo sentiti partecipi nel promuovere un genere coniugato alla musica giamaicana, caraibica; dal punto di vista canoro ci esprimevamo in chiave-reggae prendendo spunto dai nostri nonni con la pìzzica, gli stornelli. Pino Zimba, Uccio Aloisi e gli artisti di quella generazione di colpo si sentirono incoraggiati, tanto da affiancarci in questa operazione culturale non ancora conclusa: c’è ancora da lavorare. Ma oggi il Salento non è più reggae e pìzzica, c’è anche il funk, il soul, il blues, il rock; ci sono i SSS, ma anche Negramaro, Emma Marrone, Alessandra Amoroso e quanti hanno promosso la nostra terra attraverso la musica. E’ nata Puglia Sound, che sostiene gli artisti, li aiuta nella produzione e nella promozione. Oggi, per noi, sembra una cosa normale, ma quando ci confrontiamo con artisti bolognesi, milanesi, avvertiamo un senso di invidia per le cose che abbiamo fatto in tutti questi anni.

Lusingati per gli inviti, andiamo nelle scuole a parlare con gli studenti, raccontiamo la nostra esperienza, cercando di capire come ragionano i ragazzi, una generazione nuova, fino a trarre noi stessi insegnamento dalle loro esperienze per costruire insieme il nuovo».

 

In studio per un nuovo album. L’uscita dipende sempre dal maledetto virus.

«Certo, ci autoproduciamo, ma non avrebbe senso realizzare un album e restare a casa non potendo fare concerti e, dunque, promuoverlo, tanto in Italia quanto all’estero, dove trovi i nostri fratelli emigranti, ma anche curiosi che vogliono comprendere cosa sia successo nel Sud dell’Europa. Pertanto aspettiamo che questo periodo finisca per incontrare il nostro pubblico».

 

Hai parlato di migranti, la vostra musica è un linguaggio universale. Come vedete, ancora oggi, certe posizioni che fanno distinguo fra Nord e Sud, bianchi e neri?

«Quando sento cose simili, mi sembra di essere tornato nei secoli scorsi: sarebbe il caso, invece, di parlare di futuro e proiettarsi in cose che la stessa musica ha migliorato; dipende molto dalla cultura, in questi anni vista come un accessorio del quale si può fare a meno. Papà, zii, nonni, tutti figli di contadini magari mangiavano meno per assicurare ai propri figli le risorse per studiare, diventare medici, avvocati, architetti, ingegneri, chirurghi, professionisti che avrebbero cambiato la loro terra. E tutto ciò va visto sotto l’aspetto di progresso economico, ma anche umano. Personalmente, preso un titolo di studio in informatica, ho avuto modo di conoscere dal punto di vista artistico personaggi che vanno da Carmelo Bene a Bob Marley.

Ripeto, oggi, a torto, la cultura viene intesa come consumismo, comprare vestiti e iPhone costosi, quanto stiamo conoscendo attraverso le canzoni di questi ultimi anni. Ecco il razzismo, un sentimento di ritorno causato da come si perda di vista la cultura che, ripeto, non è un fardello, ma qualcosa che ti permette di aprire il cuore e la mente insieme, ripartendo da sentimenti che avvicinano e non allontanano».

«Teatro, colpo mortale»

Antonio Conte, attore teatrale, dice la sua

«Per bene che vada se ne riparlerà in autunno». Tarantino, da quarant’anni risiede a Roma. Ha lavorato con Verdone e Abatantuono, con Brass e la Wertmuller. «Con Pistoia e Triestino stavamo registrando “sold out”, poi ero pronto per misurarmi con un inedito di Marco Cavallaro: purtroppo ci siamo fermati, nonostante avessimo avanzato la proposta di dimezzarci i compensi…». Da Mario Carotenuto, un maestro, in poi.

 

Antonio Conte, tarantino, da quarant’anni residente nella capitale. Adesso non solo ci abita, ma ci vive anche, costretto dalla pandemia, lui che di mestiere fa l’attore, abituato com’era ad andare per teatri, a viaggiare da una città all’altra. Proviamo a comprendere che vita è, oggi, quella di un attore professionista, che al cinema e in teatro ha lavorato con Verdone, Abatantuono, Panariello e Brignano, Neri Parenti, Tinto Brass e Lina Wertmuller, senza dimenticare Mario Carotenuto, per quarant’anni protagonista della commedia all’italiana, ma che sulle tavole del palcoscenico, dava il meglio.

«Costretto ai domiciliari, devo dire che ci sto bene, anche se come il resto dei miei colleghi e le maestranze che vivono di questo lavoro, non vedo l’ora di riprendere l’attività. Carotenuto? Fantastico, la sua severità sul palcoscenico andrebbe raccontata, una scuola incredibile…».TEATRO 03 - 1Dunque, Antonio Conte, ho provato a contare i titoli: sessanta rappresentazioni a teatro, e fra una pausa e l’altra, una cinquantina di titoli fra cinema e tv: che significa per un attore come te restare un anno a casa?

«Manca e tanto il palcoscenico. Un po’ come quando, anche quando finisce una tournée teatrale, alle sette, sette e mezzo di sera, l’adrenalina comincia a salire: poi fai mente locale e quella carica emotiva ti tocca smaltirla diversamente, sei ai “domiciliari” e non puoi farci niente. Non ci voleva, per me sarebbe stata una stagione importante: io e i colleghi abbiamo lasciato per strada circa sei mesi di lavoro. Dovevo riprendere “Il Rompiballe”, spettacolo pazzesco con Nicola Pistoia e Paolo Triestino, due attori irresistibili: ci attendevano le piazze più importanti, due mesi fra Milano e Roma, per intenderci, poi in giro per l’Italia; lo scorso agosto ci attendeva  il debutto con un testo di Marco Cavallaro, un inedito, “Amore, sono un po’ incinta”; poi quattro mesi dall’autunno in poi: è saltato tutto».

 

Teatro leggero, operetta, commedie e teatro serio. Come si fa a passare dal teatro brillante, penso a “Pallottole su Broadway”, a quello drammatico, per esempio il “Riccardo III”. Non mica sarai anche tu “uno, nessuno e centomila”?

«Potrei in qualche modo autocelebrami. Ciò detto, soffro la sindrome del comico. Avendo la fortuna di farne tanto di teatro comico o brillante che sia, agisco d’istinto: non temo nemmeno un po’ nel passare dal comico al drammatico, lo dice la storia – non mia, intendiamoci – ma quella dei grandi, da Totò a Sordi, da Gassman a Manfredi: quando il comico si misura con il teatro drammatico diventa imbattibile».TEATRO 02 - 1Mario Carotenuto, il tuo maestro. Quanto era severo e quanto divertente?

«Un mostro di bravura, tanto bravo quanto difficile da raccontare. Bisogna avere avuto la fortuna di lavorarci insieme, per conoscere quanto lavoro c’era dietro ad un’opera teatrale. Pratico, ruspante, non stava ad “intellettualizzare” le situazioni: sapeva che il tempo perso, lo pagavi in scena. Proietti diceva che Carotenuto aveva i tempi comici, ma anche il racconto: Gigi era uno di quelli che scoppiava a ridere anche se la barzelletta non era irresistibile, perché Mario aveva la mimica, arte rara, del raccontatore: non c’erano santi. A Carotenuto, attore e regista, dava fastidio una cosa sola: se sbagliavi in scena; non ammetteva repliche, si arrabbiava, perché significava essersi distratti e, al tempo stesso, non avere avuto rispetto del lavoro».

 

Cinema e tv danno popolarità, ma il teatro è sempre il teatro: una volta avevi questa convinzione. Oggi?

«Sono dello stesso avviso. Quello che ti regala il teatro non può dartelo il cinema, né la tv: certo, questi possono darti popolarità, danaro, immortalità, ma nel teatro ogni sera è diversa dall’altra, un salto senza rete ed è un fascino unico, un’emozione che non si può spiegare…». 

 

Il rapporto con i colleghi. Vi sentite, vi vedete, interagite attraverso il web. Cosa vi dite e cosa cercate di non dirvi? 

«C’è poco da raccontarsi: non è tanto quando ripartiremo, quanto l’aver perso dai due ai tre anni di programmazione; nonostante il ministro abbia detto che a metà giugno riapriranno i teatri: il nostro lavoro, con tutto il rispetto per i commercianti, non è fatto di saracinesche e vetrine, riapri e la gente osserva, entra; è fatto, invece, di programmazione. Dovessero dirci “Da domani potete tornare in teatro”, rispondiamo semplicemente “Con cosa?”. La politica deve comprendere che il teatro non è fatto solo di attori: ci sono registi, aiuto regia, le maestranze, dagli scenografi ai macchinisti, dai facchini ai trasportatori, e poi gestori dei teatri, amministratori, autori, musicisti: un botto di gente e dietro ognuno di questi c’è una famiglia…».TEATRO 04 - 1Sostituisciti per qualche istante a un politico, prova a suggerire una soluzione.

«Innanzitutto la distribuzione dei soldi a pioggia, a fondo perduto: non è giusto; esistono teatri, enti di produzione che hanno preso più soldi di quanti ne avrebbero guadagnati esercitando la loro attività. Il teatro è un luogo sicuro, la gente che va a teatro è censibile, in tempo di pandemia siede con la mascherina, a distanza di una sedia dall’altro spettatore; avevamo anche avanzato la proposta di dimezzarci la paga, arrivare a fare due rappresentazioni nella stessa giornata riempiendo per due volte teatri capienti, che secondo il decreto ministeriale potevano disporre solo metà dei posti a sedere».

 

A proposito della pandemia: ottimista, pessimista, possibilista?

«Pessimista. Dovesse andare bene, riprenderemo a lavorare in autunno. Purtroppo molte compagnie non ce l’hanno fatta, altre non ce la faranno, perché il colpo ricevuto dal teatro è stato di quelli mortali».