Sambou, gambiano ricorda per noi, una delle tragedie del mare

«Donne incinte che galleggiavano, non potrò mai rimuovere dalla mia mente quelle immagini: centotrenta su un gommone che galleggiava per scommessa, poi tutti in acqua, salvi in cinquanta. Avevo una grave malattia respiratorio e un destino segnato…»

«Corpi di donne incinte che galleggiavano, prive di vita, davanti ai miei occhi: la Guardia costiera italiana non ce l’aveva fatta; avvertita di due imbarcazioni strapiene di africani che se la stavano vedendo brutta in un mare agitato, aveva fatto quello che aveva potuto; anzi, il Cielo li ringrazi, perché altri superstiti di quella tragedia avrebbero rischiato la stessa fine di donne, uomini e bambini, scomparsi a decine fra quelle onde esagerate per quanto erano alte: ottanta morti, cinquanta in salvo!».

Sambou, gambiano, più di ventiquattro anni, affetto da continue crisi respiratorie, a fine dramma ospitato in un Centro di accoglienza di “Costruiamo Insieme”, racconta qualcosa di cui poco si è parlato. Non si dà pace, dice di non aver letto molto della vicenda costata la vita a una buona parte di una imbarcazione che avrebbe potuto trasportare appena poche decine di persone e, invece, a bordo di persone ne avevano fatte salire centotrenta. «Erano due i gommoni, roba da non crederci, galleggiavano per scommessa: io non potevo fare troppe cerimonie, dovevo cogliere l’occasione al volo, stavo sempre più male e non avevo soldi per pagarmi i medicinali, figurarsi il viaggio!». Due le imbarcazioni. Già una trentina a bordo sarebbero tanti. «Eravamo centosedici sul mio gommone, sull’altro centotrenta: c’era chi aveva contato per dare un certo equilibrio ai due enormi “salvagente”: eravamo pazzi, molti di noi erano al corrente che avremmo corso seri pericoli, non potevamo spostarci da prua a poppa; intanto, non c’era spazio, poi avremmo fatto “ballare” più di quanto non lo facesse già di suo quel gommone; non ci perdevamo di vista, quando un’onda più alta delle altre fece un solo boccone dei centotrenta…».Sfondo colore 02CORRI SAMBOU, CORRI…

Perché Sambou scappa. La salute, dice. «Avevo crisi respiratorie, asma. Da noi quelle cure costano tanti soldi, eppure papà cercava di fare il possibile per aiutarmi, lavorava dalle prime luci del mattino a tarda sera, un uomo che aveva il senso del sacrificio». Poi le cose cambiano. Sulla sua famiglia si abbatte una seconda sciagura. Niente in confronto alla malattia di Sambou che lo sta trascinando verso una strada senza uscita. «Muore mio padre, il sostegno della nostra famiglia: noi lavoravamo, facevamo quello che potevamo, ma era lui il motore di tutto; si spremeva come un limone, non si riposava un attimo: spezzarsi la schiena per tante ore al giorno, alla fine ti sfianca, ti indebolisce; purtroppo, un brutto giorno, papà si abbatté: non ce la fece a superare una crisi, l’ultimo suo sguardo rivolto ai figli e un attimo dopo al Cielo, quasi lo chiamasse a testimoniare che lui aveva fatto il possibile per sfamarci e farci stare tutti insieme».

Le cure, costano. «Non ce la può fare la famiglia, non che fossi un peso, ma avevo bisogno di medicinali, molto costosi dalle nostre parti; dovevo provare a imbarcarmi per l’Italia, anche perché le crisi respiratorie erano ad intervalli sempre più brevi; mia madre, per amore dei figli si era risposata: così sarebbe stato più facile sfamare i più piccoli; io, intanto, mi ero allontanato da casa con la sua benedizione, tanto che quando possibile sento lei, i miei fratelli e i miei amici; nel cuore un grande dolore: quando mi ero rassegnato a morire nel letto di casa mia, dovevo andare via, con il timore che durante il viaggio potesse capitarmi qualcosa e non essere seppellito nel mio Paese».

C’è stato un momento in cui Sambou ha pensato che fosse davvero finita, in un Paese che non era il suo Gambia. «La Libia. Ci ero arrivato letteralmente distrutto, non ce la facevo a stare in piedi: non avendo denaro in tasca e, dunque, impossibilitato a pagare il riscatto a banditi senza scrupoli, ero stato prima rinchiuso in qualcosa che somigliava a un carcere, poi gettato per strada: un mese in un angolo di quella prigione improvvisata, fra colpi di tosse e crisi sempre più gravi. Una sera non ce la fecero più, due sorveglianti mi presero mani e piedi e mi scaraventarono per strada. Era la fine. Non riuscivo a pensare a un epilogo diverso: crisi di asma, dolori e ferite ovunque a causa della violenta caduta, mi trascinai verso un marciapiedi per aspettare lì la mia fine…».

QUANDO TUTTO SEMBRA FINITO…

Invece, miracolo. «Qualcuno mi svegliò, forse impietosito nel vedermi moribondo. “Ci sono due imbarcazioni per l’Italia, se si stringono un altro po’, c’è posto anche per te”, mi disse l’uomo della provvidenza. Speranze ridotte al lumicino, mare agitatissimo, i due gommoni che sembravano due galleggianti sbalzati dalle onde; anche stavolta invocai il Cielo: io e altri centoquindici su un gommone, centotrenta sull’altro, appena più grande, ritenuto più sicuro tanto da ospitare donne incinte e bambini».

Un attimo e a metà del viaggio l’imbarcazione dei centotrenta, a poca distanza da Sambou, non regge l’urto di un’onda alta quanto un palazzo di dieci piani. «Sotto i miei occhi vedo sbalzare fuori dal gommone tutta quella gente: tutti in mare, urla strazianti, ognuno invoca aiuto nella sua lingua; braccia che si agitano sempre con più forza e quando questa abbandona quella povera gente, quelle braccia spariscono fra le acque: è finita».

Un dolore e una morte annunciata. Uomini, donne e bambini scompaiono uno dietro l’altro. «Dei centotrenta, vengono tratti in salvo appena cinquanta, e sono tanti, perché la Guardia costiera rastrella quelli che riescono a malapena a reggersi a galla, qualcuno aggrappato al nostro gommone, quello “sopravvissuto” al mare in tempesta; arriviamo finalmente in Italia, veniamo assistiti, io vengo accompagnato in ospedale e sottoposto a una serie di cure: sano e salvo!».

Sambou prosegue le cure fuori dall’ospedale. «Adesso va meglio, mi rimetto in sesto e poi sotto con il lavoro: ho imparato a fare l’elettricista, una cosa che mi è sempre piaciuta fin da piccolo. Forse perché dalle mie parti qualcuno che porta luce viene visto come uno spiraglio di speranza».