Enzo Decaro, ex Smorfia con Troisi e Arena in scena con un De Filippo

A Taranto e Martina Franca la commedia “Non è vero ma ci credo”. «Provo a far conoscere alle nuove generazioni questo tipo di teatro e quanto sia importante  vederlo, riprenderlo, studiarlo, divulgarlo. Un peccato se dimenticassimo un grande artista. Massimo e il trio, spunti per i più giovani, ma Napoli non esistono più i Pino Daniele, Gragnaniello, De Simone, Senese, i Bennato di un tempo…».

Enzo Decaro, un tempo come “il bello della Smorfia”. Non che non abbia ancora il fascino di un tempo, ma è solo per farci capire chi sia il personaggio che stavolta abbiamo intervistato per il nostro sito, ospitandolo con la sua intervista fra le pagine di “Costruiamo insieme”, sul nostro canale youtube e sulla nostra web radio. E’ una chiacchierata interessante, fatta al volo, fra due rappresentazioni. In queste sue considerazioni, fra passato e futuro, l’idea costante di rivalutare un attore amato dal pubblico italiano, ma non del tutto noto alle nuove generazioni.

Per mettere un po’ di ordine nella carriera artistica di Decaro, fatta di tv e teatro, occorre fare un passo indietro. Un bel passo indietro e risalire esattamente a quarant’anni fa. Estate 1979, Yachting Club di San Vito, in scena c’è La Smorfia. Spettacolo in due tempi, protagonisti tre ragazzi baciati dal successo di “Non stop”, i “napoletani” Massimo Troisi, Lello Arena e, appunto, Decaro. Napoletani, anche se in realtà arrivano, nell’ordine, da San Giorgio a Cremano, Napoli e Portici.

E’ il regista Enzo Trapani ad inventarsi una tv tutta nuova, una “ballata senza manovratore”. Quella stagione televisiva irripetibile trascinò al successo anche Carlo Verdone, i “Gatti” Gerry Calà e Umberto Smaila, i Giancattivi Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, Zuzzurro e Gaspare, e altri ancora. Decaro a Taranto, per la Stagione di spettacoli promossa al teatro Orfeo dai fratelli Adriano e Luciano Di Giorgio, a Martina Franca per il cartellone della Stagione di spettacoli al teatro Verdi. In scena uno dei classici di Peppino De Filippo, “Non è vero ma ci credo”.

Almeno tre generazioni, cosa è cambiato nella vita artistica di Enzo Decaro?

«A quarant’anni di distanza, trovare un punto d’incontro fra tradizione e innovazione, con il lavoro che stiamo portando in scena, è estremamente importante, tanto quanto mettere in scena codici e linguaggi, anche questi da salvaguardare».

La scaramanzia “celebrata” nella commedia di Peppino sembrerebbe fuori contesto, invece è drammaticamente attuale. 

«Nello spettacolo produce ancora danni notevoli, è una di quelle credenze che andrebbero picconate per demolire una mentalità tristemente e saldamente radicata nell’inconscio collettivo; ci vorrà molto altro tempo per averne ragione, toccherà alle future generazioni prendere distanza da queste pessime abitudini».

Troisi, compagno di lavoro ne La Smorfia, ha lasciato un vuoto difficile da colmare.

«Ci sono molti attori e registi che presentano progetti, qualcosa che ha a che fare con lo studio, un attento lavoro svolto per mettere in scena un qualsiasi titolo. A me, più modestamente, piace pensare che quanto fatto principalmente da Massimo, anche ai tempi del trio, possa essere stato uno spunto, un incoraggiamento a quanti si avvicinavano a un cinema o un teatro brillante, sicuramente impegnativo indipendentemente da una cifra comica o drammatica».

La tv di oggi, da Zelig a made in Sud. Ci verrebbe da dire: non ci sono più i “Non stop” di un tempo. 

«Non lo scopro io, ma la tv è un prodotto della società in cui viviamo, diciamo che ai nostri tempi pensavamo e ci divertivamo in modo diverso. Tanto che, oggi, nel bene e nel male il piccolo schermo riproduce mediamente quello che circola in questi anni. Sul finire degli Anni 70, e parlo di Napoli, quando esistevano i Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, Roberto De Simone, i Bennato, Senese e altri; si tiravano fuori pensieri e idee, a nessuno balenava nella mente una spregiudicata caccia al successo, a prescindere di come si arrivasse a questo; oggi è tutto cambiato, e non è solo certa teatralità napoletana ad averne risentito».

Peppino De Filippo, autore di “Non è vero ma ci credo”, una scelta meditata o istintiva? 

«Peppino è stato un attore straordinario, mai abbastanza rivalutato, come nel tempo accaduto per il grande Totò; in realtà la scelta di questo copione nasce da una volontà precisa, dedicare lo spettacolo a una grandezza, forse, mai riconosciuta in senso compiuto; lo stesso Luigi De Filippo, figlio di Peppino, aveva in mente un progetto da dedicare alla memoria del padre, nonostante fosse anche vicino allo zio Eduardo, che lui amava immensamente; infatti, “Non è vero…”, fa parte del teatro dei De Filippo, quando ancora Eduardo, Titina e Peppino lavoravano insieme, tanto che risulta naturale che battute e idee, poi maturate in ambiti separati, scaturivano dalla loro incredibile fucina teatrale, artigianale, artistica, una genialità inarrivata e inarrivabile; così considero che la scelta sia stata abbastanza naturale, onorando tanto una tradizione quanto un repertorio, che consentisse anche un salto nell’innovazione, nei codici di linguaggio».

Peppino e un personaggio magistralmente cucitosi addosso.

«Era l’approccio globale ad interessarmi di più, entrare nel progetto, una scrittura e una messa in scena condivisa con Leo Muscato, provvidenziale nel rispettare questa necessità innovativa prestando massima considerazione per la tradizione; per il resto, ho semplicemente cercato di calarmi nel personaggio con il gusto di spettatore, cercando di trasferirne sentimenti e caratteri della commedia, magari rinunciando a qualche atteggiamento di farsa; in sostanza, ho trovato interessante andare nella direzione della disperazione patologica del personaggio che, certo, fa anche ridere, ma che solo alla fine – posto davanti davanti a una scelta importante – si ravvede».

Teatro, tv e cinema. Quale di questi aspetti ti appassiona maggiormente?

«Non faccio calcoli, ritengo sia sempre importante lo spessore di un progetto, in qualsiasi direzione esso vada; proprio come accaduto per onorare la memoria del grande Peppino. Sarebbe un peccato dimenticarsene. Il mio impegno è proprio questo: far conoscere alle nuove generazioni l’esistenza di questo tipo di teatro e quanto valga la pena di andare a vederlo, a riprenderlo, studiarlo, divulgarlo».