Tonio Attino, scrittore, racconta gli emigranti italiani

“Il pallone e la miniera”, storie umane di operai e minatori, e imprese calcistiche. Scenario Esch-sur-Alzette, Lussemburgo, miniere e altoforni. «La Jeunesse, squadra di dopolavoristi, un giorno inchioda i giganti del Liverpool. Bill Shankly, ex minatore, monumentale tecnico dei “reds”, fa una lavata di testa ai suoi: quei ragazzi, un esempio di umiltà».

Tonio Attino, giornalista e scrittore, ha scritto per “Quotidiano di Taranto”, “Stampa” e “Corriere del Mezzogiorno – Corriere della sera”. Il suo ultimo libro, appena pubblicato per Kurumuny, è “Il pallone e la miniera – Storie di calcio e di emigranti”.

Cosa fa di un uomo un emigrante?

«Di solito il bisogno di lavoro. E questa storia racconta di italiani che all’inizio del Novecento partono per il Lussemburgo per lavorare in miniera e nelle acciaierie. Ci fosse stato lavoro a casa propria, non esisterebbero emigranti; stesso discorso per le guerre, che hanno generato fughe e flussi altrove».

Autore anche di “Generazione Ilva”, “Il pallone e la miniera” è sostanzialmente un altro libro.

«Sarebbe un’altra storia se non ci fosse di mezzo l’acciaio. Racconto di “Esche”, seconda città lussemburghese con i suoi trentamila abitanti. Fino agli anni Cinquanta, in un raggio di circa venticinquemila chilometri quadrati, esistevano quarantanove altiforni; è un racconto che somiglia ad altre storie italiane, Bagnoli e Taranto per esempio».

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Una storia che emoziona di più rispetto alle tante altre.

«Mi ha emozionato l’intera vicenda, una matrioska, tante storie una nell’altra: calcio, miniere, acciaierie, resistenza, campi di prigionia nazisti; tante storie con un unico filo conduttore: l’emigrazione italiana in Lussemburgo; gente che partiva da Umbria, Romagna, Friuli, poco dal Sud, e finiva in un posto che sostanzialmente la rifiutava. Solo col passare dei decenni gli emigranti hanno poi trovato una dimensione tutta italiana, sentendosi lì più a casa di quanto  non lo fossero in Italia»

Italiani “mangiaspaghetti”. Non c’è comprensione per chiunque cerchi un sistema di vita umano?

«Esiste un respingimento psicologico da parte delle popolazioni indigene. Anche in questa storia, al centro il Lussemburgo, gli italiani appena arrivati venivano considerati “mangiaspaghetti” e “orsi selvatici”: delinquenti in buona sostanza; solo con il passare di decenni gli italiani vengono considerati un grande esempio di integrazione».

Una prima partita di calcio segna la storia di una squadra, la Jeneusse, maglia a strisce bianconere.

«Nome e maglia rimandano alla Juventus, ma li lega il solo fatto che i due club abbiano vinto il maggior numero di titoli nei rispettivi campionati nazionali: in realtà, la Jeunesse era la squadra che riuniva operai e minatori con talento calcistico e nella quale militavano molti italiani; curiosità: negli anni in cui esistevano ancora miniere ed acciaierie, non c’era grande differenza fra il calcio e le due stesse attività in cui quella gente era impegnata; gli operai consideravano la squadra la naturale sintesi lavoro-industria-calcio.

L’impresa calcistica coincide con la chiusura della stupenda parabola economica di “Esch”. E’ il ’73, in Coppa Campioni la Jeunesse incontra e ferma sull’1-1 il titolato Liverpool: in svantaggio, i padroni di casa raggiungono il pareggio allo scadere. Un risultato inatteso, che nemmeno gli stessi Shankly e Hughes, tecnico e capitano dei “reds”, non avevano lontanamente preventivato».

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Shankly, scozzese, ex minatore, monumentale tecnico del Liverpool a fine gara compie un gesto di grande umiltà.

«E’ l’episodio che mi ha emozionato di più. Me lo ha raccontato René Hoffman, portiere della Jeunesse. A fine gara, vide Shankly che quasi trascinò Hughes, dalle parti del loro spogliatoio. Al suo capitano, il tecnico indicò i ragazzi che avevano appena scritto un pezzetto di storia: “Quelli, domani, andranno a lavorare in fabbrica!”. In quel gesto c’era la rampogna al calciatore del Liverpool e, allo stesso tempo, l’ammirazione nei confronti degli operai e dei minatori, che appartenevano alla storia umana dello stesso Shankly, nato in un villaggio minerario della Scozia da cui era iniziata anche la sua storia sportiva. Bill si definiva “uomo del popolo”, era socialista, amava gli operai. Quell’occasione celebrò un inconsapevole “matrimonio” fra Shankly e i giocatori della Jeneusse, all’oscuro del passato da minatore dell’allenatore di una delle squadre di calcio più forti d’Europa».

Il libro, un sottotitolo: storie di calcio e di emigranti. Il suo punto di vista sull’accoglienza.

«Non so come si possa arginare e gestire un fenomeno planetario come il flusso di emigranti. Non si può non aiutare persone in difficoltà, fra quanti arrivano potrebbero esserci soggetti poco raccomandabili, ma non dimentichiamo che noi italiani abbiamo esportato parecchi delinquenti. La storia che abbiamo conosciuto e possiamo ancora studiare ci insegna che le cose non possono essere tagliate con un colpo secco: questa storia lussemburghese è la vicenda di italiani in principio rifiutati e successivamente considerati un grande esempio di integrazione; prima brutti e cattivi, oggi belli e buoni. Prima di pronunciarsi sui migranti, dunque, bisognerebbe pensare a queste antiche vicende e ragionare in termini più costruttivi».