Dodi Battaglia, “Nelle mie corde – Canzoni e sorrisi”
Successo per lo spettacolo teatrale scritto con il regista Fausto Brizzi. «Lasciai la fisarmonica abbagliato dal suono della chitarra. “Atlantis” degli Shadows e “Foxy Lady” di Hendrix mi hanno cambiato la vita. Gli assoli con i Pooh, i tour, gli studi, i mei preferiti. Le mie lauree: Honoris causa a Matera e la Dodicaster, un “regalo” della Stratocaster, come Clapton, Satriani, Beck…»
di Claudio Frascella
«Adolescente, suonavo benissimo la fisarmonica che mi avevano regalato all’età di quattro anni, entrai in un negozio di strumenti musicali nel centro di Bologna e sentii il brano che mi cambiò la vita». Il pezzo che folgorò Dodi Battaglia: “Atlantis” degli Shadows. «E’ quello che voglio fare nella mia vita: suonare la chitarra, mi dissi; potrei dire che abbandonai a malincuore la fisarmonica, ma non è così, la scelta fu convinta, un amore al primo ascolto». E quel brano, Battaglia, settant’anni superati, più che una storia un’enciclopedia alle spalle, lo ripropone nel suo nuovo spettacolo, un successo: “Nelle mie corde – Canzoni e sorrisi”. Uno spettacolo non solo teatrale che nasce dall’incontro con il popolare regista Fausto Brizzi, fan di Battaglia e dei Pooh. «Abbiamo cominciato a pensare a qualcosa che non fosse il solito spettacolo, preso appunti, poi stesa e allargata un’idea dietro l’altra: e poi, perché non ci mettiamo un elemento di disturbo? Qualcuno che faccia incursioni, provi anche a spiazzarti, in fondo sei un musicista che ha scritto e fatto delle robe che la gente canta e suona da più di cinquant’anni: aggiudicato; ma non un attore, non un uomo, ecco: una ragazza, sveglia, irriverente se vuoi, che talvolta – quando ci vuole – arrivi anche a prenderti per i fondelli, dandoti del “lei”, chiamandoti “Signor Battaglia…”: tutti gli indizi portavano ad Eleonora Lombardo, la mia compagna di viaggio teatrale, aggregatasi a tutte le mie chitarre sulle quali metto mano durante lo spettacolo».
E “lei”, Battaglia, la corregge? Le dice, giacché ci siamo, mi dia pure del “dottore”? Ne ha i titoli.
«La laurea Honoris causa – sorride Battaglia, pensando al “lei”, ma anche al titolo di studio – è una delle mie più grandi soddisfazioni, non solo professionali: prima mi chiamavano “Maestro”, non mi voltavo, sarebbe stato un eccesso di presunzione, al massimo rispondevo: “Maestro sarà lei!”; in realtà quel “pezzo di carta” – come la mia generazione chiamava il titolo di studio – è stato il coronamento di una carriera, una soddisfazione che non ha pari, se non l’amore che provo verso figli e nipoti, incommensurabile».
Cosa succede sul palcoscenico?
«Quello che accade ogni benedetta sera, da sessant’anni: non vorrei più scendere, mi piacerebbe suonare all’infinito, quelle tavole sono la mia vita, ma mi tocca: mi aiuta la leggerezza con la quale insieme a Fausto, uno come me, battuta acuta, fulminante, mi ha preso le misure confezionandomi un abito di scena che non fosse un “corpo a corpo”, seppure interessante, con una, due, sessanta chitarre, che poi è il punto di partenza di questo progetto che sta andando come un treno: “Le mie 60 compagne di viaggio. Le chitarre di Dodi Battaglia”, un libro che mi ha aperto questo nuovo orizzonte».
Battaglia, le fa più effetto la laurea o che la Stratocaster le abbia dedicato una chitarra, cosa accaduta a pochi nel mondo?
«Mettiamola così: anche la Dodicaster è una laurea, chitarre sono state dedicate ad Eric Clapton, Joe Satriani, Jeff Beck, parliamo di chitarristi che hanno fatto la storia e non solo quella, ma la laurea, la laurea con tanto di esame e discussione a suon di accordi al Conservatorio “E.R. Duni” di Matera è davvero un’altra cosa. Detto questo, non datemi del “lei”, ma non chiamatemi nemmeno “dottore”, ci ho messo una vita ad annullare le distanze fra musicista e pubblico: sono e resto Dodi, Dodi Battaglia».
Quanto c’è dei Pooh, Facchinetti, D’Orazio e Canzian, nello spettacolo “Nelle mie corde”?
«Tanto, è il mio mondo, non me ne sono mai staccato: certo che dedico spazio alle cose che ho fatto con i miei compagni, i miei “amici per sempre”, ma giacché ci sono, entro con tutto me stesso nello strumento che è stato il compagno di viaggio della mia vita: la chitarra; ne imbraccio una dietro l’altra, ognuna una sua storia, ognuna un suono, a partire dalla Eko Anni 60 che suonai al concerto di Jimi Hendrix: che incoscienza, salire sullo stesso palco con un mito e non averne ancora idea; “Foxy lady” l’ho suonata anche io, mi dicono bene, ma lui l’aveva pensata, studiata, eseguita da par suo, come solo una leggenda può fare».
Quali sono gli assoli della sua vita?
«Intanto dico “Parsifal”, prendo un attimo di tempo, ci penso: l’assolo de “La mia donna”, ma anche “L’altra donna”, poi “Uomini soli”; ecco, quest’ultima, ancora oggi, la sento eseguita da chitarristi bravissimi, ma bravi, bravi, bravi, ma manca sempre qualcosa, forse perché sono pignolo; senza “forse”: sono pignolo».
Le sue dita suonano in un altro modo. Basta sentire le collaborazioni con Vasco.
«Se un collega, un amico nel caso di Vasco, mi invita in studio, devo per forza metterci qualcosa di mio, così credo che i miei assoli in “Una canzone per te”, “Toffee” e “Va bene così” siano perfettamente riconoscibili, sul riproducibili avrei qualche riserva, insomma vale il discorso che facevo su Hendrix, fra le mani dell’autore ha il suono giusto, è quello, punto».
Torniamo allo spettacolo. Senza svelare troppe sorprese.
«Intanto è da vedere e sentire, allo stesso modo, perché una cosa è raccontarlo, un’altra è stare in poltrona e assistere al racconto di una vita: i tour, tanti, dunque i concerti; gli studi di registrazione, come un pezzo scritto in un modo può anche cambiare fisicamente; perfino i Caraibi, dove andammo a realizzare uno dei nostri album più fortunati: “Tropico del Nord”; ci sono aspetti, però, che tutte le sere mi rendono felice: gli applausi del pubblico, i sorrisi che percepisci, le risate che scatenano in platea i dialoghi fra me ed Eleonora, il “guastatore” ufficiale di “Nelle mie corde”; ogni volta è una grande soddisfazione, tutte le volte hai la sensazione di aver fatto la cosa giusta, qualcosa che ha il potere di rigenerati sera dopo sera».
Con Brizzi, grande feeling.
«Ci abbiamo messo un attimo ad entrare in grande empatia e non solo perché è uno che ha sempre apprezzato il mio lavoro e quello dei Pooh: è un “cazzaro” come me, penso che se ci fosse ancora D’Orazio, tutti e tre insieme sapremmo quando ci siederemmo a un tavolo, ma non quando ci alzeremmo, se non con le mandibole indolenzite causate delle risate. Ci siamo messi subito al lavoro, alla fine è venuto fuori lo spettacolo che avevamo in mente e il bello è che la gente, tutte le sere, condivide la nostra idea di racconto e di emozioni».