L’atleta afghana, ultima nelle qualificazioni, vince per coraggio
Mostra al mondo intero un messaggio a favore delle donne del suo Paese contro la repressione del governo dei talebani: educazione e diritti. Non è salita sul podio insieme alle donne più veloci del mondo, ma ha corso con un peso sulle spalle che molte sue colleghe non avevano. A lei va la nostra riconoscenza. Un gesto che la spinge sul gradino più alto dell’intera Olimpiade
Ultima nelle qualificazioni alla finale dei cento metri, prima nel coraggio. Kimia Yousofi, fra i sei atleti in gara alle Olimpiadi di Parigi per la Nazionale dell’Afghanistan, mostra il suo volto contrito. E’ triste, fra il temere ripercussioni una volta tornata nel suo Paese o approfittare di quell’occasione, unica, per lanciare un messaggio, non ci pensa su due volte. Ora o mai più, dice a se stessa, così tira fuori quel messaggio che ha scritto velocemente e di nascosto sul retro del suo pettorale, per mostrarlo al mondo intero: “Educazione” e “I nostri diritti”. In una sola parola, “Rispetto”.
In Afghanistan le donne hanno pagato (e continuano a farlo) un prezzo esagerato da quando, nell’agosto di tre anni fa, i talebani sono tornati al potere. Secondo un rapporto delle Nazioni unite, è bene ricordarlo, sostiene che l’Afghanistan è, al mondo, il Paese più repressivo per le donne, che vengono private di ogni diritto.
«VOGLIAMO I DIRITTI FONDAMENTALI!»
Penso di sentirmi responsabile per le ragazze afghane perché non possono parlare – ha dichiarato a fine gara Yousofi – non sono un politico, dico e faccio solo quanto ritengo sia giusto: posso parlare con i gli organi di informazione; dare voce delle ragazze afghane; dire alle persone cosa, queste, chiedono: vogliono diritti fondamentali, istruzione e sport».
“Educazione”, “Sport” e “I nostri diritti”, si diceva. Le parole di Kimia Yousofi, non sono, dunque, destinate alle sole donne afghane, ma a tutte quelle donne i cui diritti vengono negati, calpestati in ogni parte del mondo. Sono giunte quando meno te lo aspetti, venerdì 2 agosto, nei preliminari della gara dei 100 metri femminili. Questa gara ha un senso: è destinata alle atlete e agli atleti dei Paesi più piccoli (o più poveri) che non hanno possibilità di svolgere attività agonistiche sostenendo i talenti sportivi. Così, grazie a questa gara, Kimia è riuscita a protestare con grande coraggio contro l’oppressione delle donne sostenuta dal regime talebano in Afghanistan. Non è un caso che gli stessi talebani, pare, non volessero che Kimia fosse lì.
KIMIA, LA PIU’ GRANDE
Prima della nascita di Kimia, i genitori di Yousofi sono scappati dall’Afghanistan e hanno cresciuto lei e i suoi tre fratelli in Iran. Nel 2012, a 16 anni, Yousofi ha partecipato alle selezioni riservate alle ragazze immigrate in Iran. Nel 2016, nel periodo in cui i talebani erano esclusi dal potere, Kimia è tornata in Afghanistan per allenarsi e avere la possibilità di rappresentare il Paese alle Olimpiadi del 2016. Quelli di Parigi sono i suoi terzi Giochi.
Dopo che i talebani sono tornati al governo è fuggita in Australia con l’aiuto del Comitato Olimpico Internazionale. A Sydney ha cercato di migliorare la sua conoscenza dell’inglese e finite le competizioni di Parigi inizierà a cercarsi un lavoro. Se lo avesse già fatto avrebbe potuto gareggiare con la squadra olimpica dei rifugiati, ma il suo obiettivo era rappresentare l’Afghanistan, con il desiderio di dare voce a chi non ne ha una, le donne del suo Paese.
Non è salita sul podio insieme alle donne più veloci del mondo, ma ha corso con un peso sulle spalle che molte sue colleghe non avevano. A lei va la nostra riconoscenza, il più grande applauso (purtroppo solo virtuale) per essere campionessa di coraggio, con un gesto che la spinge sul gradino più alto dell’intera Olimpiade.