Patrick e il suo lavoro con “Costruiamo Insieme”

Operatore, da circa tre anni è impegnato come operatore. Fuga dal Ghana, muratore in Libia da muratore, carrozziere in Italia, finalmente un’attività che gli ha restituito il sorriso. «Cinque fratelli, mamma che sento spesso, ho vissuto momenti drammatici, le bande ti svuotavano le tasche e la testa…»ARTICOLO Storie - 3«Sono felice da circa tre anni, in tutto questo c’entra il lavoro trovato con “Costruiamo Insieme”: ho attraversato l’Africa, ho visto ammazzare gente perché non aveva danaro per pagarsi la libertà!». E’ uno dei tasselli del racconto drammatico di Patrick, ghanese, ventinove anni, cristiano, che per fortuna ha avuto un lieto fine. Un posto di lavoro, una prospettiva che può cambiarti la vita, in senso fisico e psicologico. «Sono passato attraverso un lavoro di muratore in Libia – dice Patrick – quando quel Paese, ai tempi di Gheddafi, per noi che venivamo da zone in cui c’erano persecuzioni politiche e focolai di guerra civile, rappresentava la salvezza: il lavoro, a fronte del quale il titolare dell’impresa – piccola o grande che fosse – ti pagava, uno stipendio non esagerato, comunque accettabile: insomma, non morivi di fame; poi è successo quello che non ti aspetti, la scomparsa del Colonnello, del lavoro e il valore del denaro che non è più lo stesso».

Cominciano le rappresaglie, i civili, fra questi bande di ragazzini, si armano e aggrediscono qualsiasi cosa si muova. «Sparavano a vista – ricorda Patrick – un po’ per metterti paura, un po’ perché eri il bersaglio mancato: alzavi le braccia in segno di resa, svuotavi le tasche e mentalmente pregavi che lasciare le tue ultime risorse in danaro potesse salvarti la vita; a volte era così, altre volte no: ho visto morire sotto i miei occhi gente che avevo appena conosciuto; un dolore straziante, e non perché pensavi che potesse capitare a te – questo lo avevi già messo in conto dal momento della crisi libica, un “Si salvi chi può!” – ma perché ognuno di noi era ostaggio di un grilletto sul quale premeva il dito di un ragazzino, quasi giocasse a fare il cattivo, come in un film, un videogioco».ARTICOLO Storie - 2VERNICIATORE, IN GHANA E IN ITALIA, POCO DENARO…

Un passo indietro, qualche anno prima. Un villaggio del Ghana, un segno tribale sul viso. «Questo me lo hanno fatto a un mese dalla nascita – sorride – è il segno di appartenenza alla mia comunità, forse non è venuto bene, tanto che mi hanno lasciato un segnaccio, ma serve a distinguermi dagli altri connazionali e a riconoscere i “fratelli”; a proposito di fratelli, veri: io ne ho due, con me tre, e tre sorelle, sei figli in tutto; mio padre non c’è più, aveva settantatré anni quando è scomparso a causa di una malattia curata male: lì non abbiamo medicinali che ci permettano di combattere sintomi che qui, invece, si debellano con una semplice cura; ho mamma, però, la sento spesso: ci facciamo le solite domande, io le chiedo come stia, lei mi chiede come me la stia passando, poi tocca al resto della famiglia che, però, sento meno».

Patrick aveva un buon lavoro in Ghana. «Lavoravo in una autocarrozzeria – racconta – ero abbastanza bravo, a giudicare dai complimenti che mi faceva il padrone dell’officina, mi occupavo della verniciatura di qualsiasi cosa riparassimo e mettessimo di nuovo su strada: il lavoro era tanto, i soldi erano pochi; una volta andato via dal mio villaggio, non senza dispiacere – perché togliere le proprie radici dal tuo passato suona come una ritirata – ecco la Libia: “Vedrai, lì un lavoro lo trovi di sicuro: abbandonai il sogno di carrozziere e mi detti ai lavori nell’edilizia, in Libia costruivano tanto: facevo lavori in muratura, anche qui me la cavavo bene; evidentemente quando le cose cominciano ad andare bene, ecco l’inversione, succede qualcosa: morto Gheddafi il Paese si indebolisce, la zona in cui lavoravo e abitavo comincia a desertificarsi; non ci sono più negozi, il cibo scarseggia, molti lasciano le abitazioni, vanno via, restare lì diventa pericoloso».ARTICOLO Storie - 1LIBIA, LA CRISI E UNA SECONDA FUGA

Dunque, il viaggio per l’Italia, settembre 2014. «Non c’era altro da fare: indietro non potevo più tornare, come facevo, rischiavo seriamente; mi toccava pensare all’Italia, per arrivare qui da voi occorrevano soldi per pagare il viaggio: qualche risparmio lo avevo salvato dalle scorribande di quei briganti; mi imbarco su un gommone, eravamo in novantasette, tutti stretti uno all’altro: inesperto l’uomo alla guida a quell’imbarcazione di fortuna; l’impressione che avevamo dopo tre giorni di mare era che fossimo più o meno sempre allo stesso punto, fino a quando non arriva il primo colpo di fortuna: veniamo avvistati dalla nave “Mare Nostrum”; saliamo a bordo, salvati e rifocillati, ci accompagnano nel porto di Taranto: mi mandano al quartiere Paolo VI, poi al Bel Sit».

Un primo posto di lavoro, poi il secondo colpo di fortuna. «A nero – ride, riferendosi al colore della sua pelle – in una carrozzeria, l’intera giornata, qualche volta tutta la settimana, una faticaccia: cinquecento euro al mese, non ce la facevo più, avevo le tasche vuote; questo, fino a quando non arriva il secondo colpo di fortuna della mia vita: “Costruiamo Insieme” mi propone un lavoro da operatore: oltre al dialetto ghanese, conosco l’arabo, l’inglese e, ovviamente, l’italiano; da due anni e sette mesi ho ripreso a vivere felicemente: forse si vede anche dal sorriso, mia madre se n’è accorta, quando parliamo dice che è come se fossi rinato; vero, la mia vita è cambiata, ho negli occhi e nel cuore il dolore della morte, della guerra e della nostalgia, ma adesso ho ripreso a vivere».