Andrew, nigeriano, racconta il suo fuggi-fuggi
«Non potevo più vivere nel mio Paese, se denunci spariscono gli atti e da quel momento cominciano a perseguitarti. Dovevo scappare, ho lasciato mamma, che sento quasi tutti i giorni, un fratello e una sorella: se alzi la testa, per bene che vada ti picchiano. Su un gommone sul quale potevamo stare a malapena in cento, eravamo in trecento. Una motonave ha evitato una sciagura»
«Non puoi essere ostile a niente, a nessuno. Non te la cavi con una sonora bastonata; per bene che ti vada, ti mandano dritto in ospedale, altrimenti…». Segno della croce. Andrew, nigeriano, cattolico praticante, ci mostrerà la sua grande fede quando svuoterà su un tavolo il suo zainetto con dentro tutto l’occorrente per una “preghiera fai da te”.
«Nel mio Paese è così, non esiste una legge uguale per tutti spiega Andrew – per alcuni è uguale, per altri meno uguale. Una tua denuncia contro chi ti minaccia o vuol toglierti quel poco che hai e che tuo padre ha costruito faticosamente, svanisce nel nulla: e non perché i tempi della giustizia sono lunghi, non, è peggio: la tua denuncia sparisce misteriosamente. Lo capisci quando le minacce di chi hai provato a denunciare si fanno più insistenti; si sentono imbattibili, protetti da un sistema che garantisce il più forte, non solo dal punto di vista fisico, ma soprattutto da quello economico».
E’ il “denaro facile”, sembra di capire, che agita una parte dell’economia di un Paese comunque in forte crescita. «Ma, si sa, i soldi non bastano mai: più ne hai, più vuoi guadagnarne, comunque; chi ha vissuto la fame ha paura di tornare in condizioni disumane, così prende quello che può, come può…».
Non lo dice, ma il messaggio di Andrew, che ha ripreso il sorriso, si intuisce. «Vivo una seconda vita, grazie a “Costruiamo Insieme”: ho imparato un mestiere, ora sono uno che sa stare con una certa disinvoltura dietro ai fornelli; ho fatto corsi di formazione, uno in Confcommercio, pratica anche grazie alla stessa cooperativa che non finirò mai di ringraziare per avermi dato un futuro».
Una storia simile a tante altre, e come tante altre con sfumature diverse. «Sono scappato dal mio Paese, l’aria nei miei confronti si era fatta pesante, fin da piccolo ho sempre avuto sete di giustizia e questo, evidentemente, dalle mie parti non va bene; ho lasciato lì un fratello e una sorella, e mamma, che non è in grandi condizioni di salute: la sento spesso, benedetti cellulari: mi informo come stia e lei, piuttosto che preoccuparsi del suo stato di salute, mi chiede invece come stia io…».
Prega molto Andrew. «Tanto, il Signore ci dà la croce ma anche la forza per sopportarla, così mi dedico molto alla preghiera, perché faccia stare bene tutti, a cominciare da quello che resta della mia famiglia: per ciò che mi riguarda, ora vivo serenamente e appena posso mando qualcosa ai miei familiari, voglio che stiano bene, che abbiano cura di se stessi, più di quanto non ne abbia avuta io nei miei stessi riguardi…».
Ventisette, uno zainetto dal quale non si separa mai. «Ecco cosa ho – svuota il contenuto su una scrivania – tutto quello che mi serve per stare bene con gli altri e me stesso: una immagine di Papa Francesco, che Dio lo faccia stare bene in eterno; altre immaginette, un vangelo, una coroncina, non riesco a stare senza pregare…».
Alza gli occhi al cielo, Andrew. Prima di raccontare il suo viaggio, la sua odissea in mare. «E’ stato un viaggio lungo – spiega, sorvola dettagli – quello per l’Italia, non molto semplice, fuggito dalla Nigeria sono passato attraverso il Niger, altra esperienza pericolosa, prima di arrivare finalmente in Libia. Ora, quel Paese non è più come ai tempi di Gheddafi, quando esisteva sì un regime, ma c’era lavoro per tutti; ho dovuto lavorare mesi e mesi in un autolavaggio, sedici ore al giorno, a stretto contatto con l’acqua e detersivi per sgrassare, dunque potenti e maleodoranti; la sera avevo appena il tempo per mangiare, la stanchezza mi stendeva: sentivo dolori ovunque, a volte ero assalito da conati di vomito: ma che detersivi e sgrassatori erano quelli che mi facevano usare?!».
Quel lavoro massacrante era servito a mettere un po’ di soldi da parte. «Pagare? Mi pagavano e non mi pagavano, le mance erano poca cosa, ma alla fine ho messo da parte quei soldi che mi avrebbero permesso di pagarmi il viaggio per l’Italia; mi imbarcai su un gommone enorme sul quale potevamo stare, più o meno comodi, in cento: eravamo tre volte tanti, da non crederci; pregavo il Signore perché ci facesse incontrare una imbarcazione che ci tirasse a bordo: fossimo andati a picco, nessuno di noi si sarebbe salvato, sarebbero stati guai seri…».
Poi l’arrivo in Italia, conclude Andrew. «Una motonave, per fortuna, ci salvò; viaggio a Lampedusa poi a Taranto, l’arrivo quattro anni e mezzo fa; i primi lavoretti per guadagnare qualcosa, non grandi cifre, ma sempre meglio della Nigeria e dell’autolavaggio in Libia». Infine, l’occasione della vita. «Un corso di formazione, ho imparato a cucinare italiano, ma anche nordafricano; i “fratelli” mostrano di apprezzare, ma non devo mai cucinare le stesse cose, altrimenti anche il piatto migliore alla fine ti viene a nausea; vero che ho sofferto, ma speranza e preghiera mi hanno dato coraggio, oggi la mia vita è cambiata in meglio, molto meglio, e alla cooperativa che mi ha accolto, insegnato un lavoro, sarò eternamente riconoscente».