Soulemane, ventidue anni, guineano
«Non contiamo nulla, non esiste rispetto. Perseguitato, picchiato selvaggiamente, costretto a scappare a causa di conflitti etnici». Un titolo di studio, la voglia di imparare, a cominciare dall’italiano. «Riconquistare la serenità: missione impossibile».
«Le persone nel mio Paese non contano». «E il senso di disperazione: anche quello non finirà mai». Soulemane, guineano, ventidue anni, in Italia da appena un mese, si assicura che la traduzione sia conforme all’originale. Come fosse una dichiarazione da mettere agli atti. Atti di dolore, nel suo caso. In fuga da Conakry, capitale della Guinea, perseguitato da militari e civili. Motivi politici, ci spiegherà. Gli stessi che hanno spinto altri suo connazionali a compiere una scelta dolorosa, tagliare le proprie radici e darsi alla fuga. «Il modo peggiore di lasciare la tua terra – spiega – la propria famiglia; un gesto amaro, che sa di resa, che mai avrei pensato di fare quando da ragazzino ho cominciato a stare fra i banchi di scuola: non è questo che ci insegnavano, il rispetto era alla base di tutto, invece ecco come è andata a finire».
Allahssane, senegalese, comprende l’amarezza del ragazzo. Ci fa da interprete. Soulemane parla dialetti arabi, ma anche francese, lingua ufficiale della “sua” Guinea. O, almeno, l’idea che fino a qualche tempo fa aveva dello Stato in cui è nato ed aveva vissuto, studiando fino alle scuole superiori, con lo scopo di diventare qualcuno. Certamente non uno che scappa di fronte a minacce e continue percosse. «Ho lasciato a malincuore la mia città – riprende, amaro – e mio padre e mia madre, non c’erano alternative: da tempo è in atto un conflitto etnico, nonostante sia nato e vissuto lì, chi ha un’estrazione diversa da quella “eletta”, viene quotidianamente minacciato e picchiato: è quanto accadeva a me personalmente e gente del mio stesso quartiere; non c’era giorno che non facessero un blitz».
E il brutto è che Soulemane le prendeva dai militari e dai civili, milizie in qualche modo autonome, che fanno il bello e il cattivo tempo. Questi, in buona sostanza, fanno il lavoro sporco. Non hanno alcuna divisa, ma girano armati e, impuniti, picchiano chiunque a loro giudizio non sia un vero guineano. «Sono stati i miei genitori a spingermi ad andare via, non ne potevano più di vedermi tornare a casa pieno di sangue, ferite ed escoriazioni, risultato di accerchiamenti e botte, picchiato fino a quando non mi usciva sangue dal naso, dal viso; escoriazioni ovunque, perché l’aggressione continuava fra le risate generali dei miei aguzzini, che mi pestavano, mettevano in ginocchio, mi rifilavano calcioni ovunque facendomi rotolare a terra».
I genitori scuotono Soulemane che ha chiaro nella mente che, prima o poi, arriverà il giorno in cui qualcuno gli pianterà in corpo una pallottola. Storie, purtroppo, già viste. Costate la vita ad amici e conoscenti del ventiduenne guineano. «Papà e mamma, un brutto giorno, dopo l’ennesimo pestaggio, dopo essersi presi ancora una volta cura di me, mi dissero che non c’era alternativa alla fuga: meglio saperti lontano con un sorriso, la voglia di vivere e non tenerti qui, dolorante e addolorato, una continua maschera di sangue».
Scappa Soulemane. «Qui le persone non contano – ripete – fossero numeri all’esterno si avrebbe la percezione di quanto accade nel mio Paese, ma non si sa che fina facciano in molti: scomparsi nel nulla; devi camminare a testa bassa, se vedono che alzi lo sguardo, è la fine, ti prendono e te le danno di santa ragione, quella è la punizione inflitta – secondo loro – “a chi non ha rispetto per i veri guineani”; e questa, francamente, a oggi non l’ho ancora capita».
La scuola, gli studi. «Fra i banchi ti insegnano l’educazione civica, la storia del tuo Paese, un’idea che più avanti sarà disattesa dai fatti delittuosi molti dei quali non sono a nostra conoscenza: chi non fa ritorno a casa, invece di essere dato per scomparso, viene dato per disperso o, nella migliore delle ipotesi, in fuga dalla Guinea; ho imparato il francese, la lingua ufficiale del mio Stato, ora voglio imparare l’italiano, questo sta diventando il mio chiodo fisso, da quando lo scorso 11 luglio ho messo piede in Italia».
La fuga e l’arrivo in Italia, non comincia e si conclude in un breve lasso di tempo. «Due anni – ricorda Soulemane – è durato il mio lungo viaggio verso la libertà, passando da un villaggio all’altro, da uno Stato all’altro, fino a quando pensi che arrivando in Libia, qualcosa che assomigli alla libertà stia per arrivare: invece, niente…».
La Libia dovrebbe essere la porta d’accesso all’Europa, alla speranza. «Dopo un anno e mezzo di viaggio, alle spalle la mia Guinea, non pensavo dovesse andare peggio: ancora civili armati, pistole e fucili, a tracolla o infilati nei pantaloni; mi fermano e mi imprigionano; la musica è sempre la stessa: “…Rovesciati le tasche, spogliati, vogliamo i tuoi soldi: chi fugge ha sempre del denaro con sé!”; non avevo nulla se non attacchi di paura ogni volta che qualcuno di questi si avvicinava con fare minaccioso: ci scappava sempre un calcio nel fianco o un violento colpo con la canna del fucile, dolori atroci; la prigionia durò sette, otto mesi a pane e acqua, ogni tanto un piatto di pasta, ma la razione di cibo una sola volta al giorno, quando ci andava bene».
Finalmente la fuga, un imbarco di fortuna e, infine, l’Italia. «Voglio riprendere a studiare, ricomincio dall’italiano, non c’è cosa che non riesca a fare: il mio impegno è totale, qualcosa sto imparando; sto conoscendo gli italiani: gesticolano, alzano il tono della voce, ti ripetono le frasi poco per volta; comincio a comprendere il senso di rispetto dal suono delle parole, dal sorriso».
Soulemane ricomincia dal rispetto e dal sorriso, qualcosa che gli mancava da tempo. «Non chiedetemi, però, se mai mi sentirò completamente sereno: con quello che ho passato non sentirò mai in pieno cosa significhi la tranquillità, di questo ne sono certo».