Due chiacchiere per conoscersi, comprendere quale storia li abbia spinti in Italia. Poi fari spenti, taccuino chiuso e penna sulla scrivania. Arrivano ragionamenti effimeri, cose così. Si parla di sport. Chi è appassionato di pallacanestro, sport fisico, tutto muscoli e grinta; chi, invece, e sono tanti, tiene per il calcio, anche questo uno sport per uomini duri.
La Juventus, dunque, prima di ogni cosa. E non lo manifestano con il solo sorriso. Indossano la maglietta bianconera e poco importa se lo sponsor sul petto appartiene a un’altra stagione, quelle strisce che scivolano sul petto di Camara e Coulibaly, Austin e Landing, sono una seconda pelle.
Strano a dirsi, i primi due hanno nomi o assonanze con altri calciatori. Sarebbe bello si facessero fotografare con una sciarpa, quella maglietta. Prudenza, tante volte i ragazzi pensassero di essere trattati da fenomeni da baraccone. Non è così. La diffidenza, però, è un viaggio che li accompagna da piccoli. Non sempre sanno con chi, in realtà, hanno a che fare. Ma di noi si fidano. Il calcio, poi, è un linguaggio universale, unisce popoli e passioni e poco importa se divide per novanta minuti, il tempo di una gara.
Kaleem si assume il compito per conto del “CAS Cavallotti”. Fa da interprete, convince i ragazzi in un attimo. «Una foto con la maglia della Juventus?», dice Landing. «Per me è un onore, la giro anche ai “miei”, che ogni giorno mi chiedono come stia». Sta bene il giovanotto che si è tinto un ciuffo biondo, come Kean, il giovane fuoriclasse italiano, nato da genitori ivoriani (adesso in prestito al Verona).
Il calciatore bianconero è uno dei tanti che vuol comprendere dove stia andando la politica italiana, a proposito dello “ius soli”. Nascere in Italia, vestire la maglia azzurra di tutte le nazionali giovanili, dunque dare un contributo sportivo al Paese, è un generoso “dare”; sarebbe, però, anche il caso di “ricevere” qualcosa. Non sentirsi discriminato.
Dunque, Camara, Coulibaly, Austin e Landing. Assumono pose stile album “Panini”, la collezione di calciatori più
famosa al mondo. Furono quattro fratelli, edicolanti modenesi, che sul finire degli Anni 50 inventarono il collezionismo legato al calcio. Fatto di album e bustine, foto da incollare ora con la Coccoina, più avanti con le celline biadesive.
Uno di loro prende sul serio (il calcio talvolta lo è…) la realizzazione di una serie di “scatti” e indica, orgoglioso, il simbolo della squadra del cuore. «Non è un caso che sia cucito proprio lì», dice. «La zebra per noi è un simbolo, unisce, fa squadra, quando una di queste si smarrisce, il branco va a cercarla, a qualsiasi costo: è questo il senso…». Insomma, i ragazzi non si fermano a Dybala, ai gol del fuoriclasse. Vanno oltre, scavano nei significati e se non ce ne fossero, sanno loro come interpretarli.
Sono in molti in via Cavallotti a tifare Juventus. Non ci sono tracce di tifosi di altri club. E anche se ce ne fossero, non è il caso di manifestare simpatia calcistica, sarebbero in forte minoranza. I bianconeri sono i più bravi, difficile perdano. Poi hanno un bel gioco e un vero fuoriclasse, Dybala. «E’ più forte di Messi», insiste Camara, «dategli tempo e la bandiera di questa squadra crescerà, diventerà l’attaccante più forte al mondo». Sembra di assistere a una di quelle trasmissioni televisive a tutto tifo. Non conoscono mezze misure e per questo i loro giudizi tecnici sono sentenze. «Paulo non si discute, è un grande!».
Chiacchierata conclusa, i ragazzi ci hanno portato sul terreno nel quale si sentono veri intenditori. Ma quella
che era una curiosità e poteva sembrare una ricreazione, è finita. Si torna alle storie di tutti i giorni, alla voglia di ricostruire. Dimenticare un Paese invivibile, un viaggio della speranza con paure e tensioni. Provare a candidarsi per un posto di lavoro. «In questo ci sentiamo come la Juventus – dicono insieme – non abbiamo paura di niente, siamo disposti ai sacrifici, a farci in quattro per garantirci un futuro e una vita dignitosa».