Morena, l’esperienza a “Costruiamo Insieme”
Studi in psicologia, è passata dalla teoria alla pratica. «La diversità fa paura solo a chi non conosce. Ai ragazzi africani insegno qualcosa, ma da loro imparo anche. Mai porsi condizioni mentali, complicano le relazioni umane. Faccio un lavoro che mi aiuta a crescere, anche sotto l’aspetto professionale»
«La diversità, come quello che non conosciamo, fa paura: se solo riuscissimo ad affrontare con sensibilità ognuno di quelli che consideriamo, a torto, “problemi”, ce ne gioveremmo tutti». Morena, laureata in psicologia clinica, dallo scorso anno operatrice di “Costruiamo Insieme”, fa il punto della sua esperienza all’interno della cooperativa sociale che la porta quotidianamente al cospetto di realtà che meriterebbero più di una riflessione. Lei lo fa ad ogni occasione. «Faccio, né più né meno, quello per cui ho studiato: rivolgere la massima attenzione all’altro, a chi ci sta di fronte, chiede di essere ascoltato; il colore della pelle preoccupa solo chi ha preconcetti: prima di pronunciarsi su qualsiasi cosa, bisognerebbe approfondire, sempre; non accetto considerazioni tout-court, specie su un argomento delicato come quello dell’immigrazione».
Morena, ventinove anni, vive ad Adelfia, vicino Bari. Da marzo a settembre dello scorso anno si è occupata dei ragazzi ospiti dei Centri di accoglienza straordinaria di Bitonto e Modugno. Seguiva per loro conto le diverse pratiche, dal permesso di soggiorno al codice fiscale. Poi le strutture diventano troppo grandi e impegnative per ospitare poche decine di ragazzi. «Quando i due Centri sono stati chiusi – ricorda l’operatrice – molti di questi ragazzi hanno cominciato a preoccuparsi seriamente; come se stessero per compiere un secondo viaggio, dopo quello in mare, verso l’incognito: sarebbero stati trasferiti al CARA, il Centro di accoglienza richiedenti asilo; lì, da quello che so, esistono tensioni, gerarchie non scritte, episodi di bullismo e nonnismo; anche questo è stato motivo di riflessione per me: ragazzi che avevo conosciuto e manifestavano sensibilità e fragilità non comuni, rischiavano di finire in pasto ad elementi privi di scrupoli».Quando si fa questo lavoro, con la giusta partecipazione, non si può restare insensibili a simili svolte. «Mi compenetravo in quello che stavano per affrontare, ragazzi fuggiti da guerre etniche e persecuzioni politiche, che ne avevano viste di tutti i colori, non avevano finito di fare esperienza; ci ripenso ancora, ai saluti, gli abbracci e l’augurarci “buona vita”; io che avrei dovuto avere il giusto equilibrio per gestire anche un doloroso addio, non riuscivo a non emozionarmi, a commuovermi».
Quando si parla di questi e altri episodi, Morena appare misurata. Inutile infilarsi nei meandri della politica, di slogan coniati più per impressionare che per aiutare a comprendere un fenomeno. «Non parlo dei politici, ma non inviterei chiunque a stare un giorno con noi, a farsi un’idea dei nostri ragazzi, del modo in cui si porgono, si muovono, in un contesto nuovo e talvolta ostile».
Un episodio che aiuta a comprendere. «A Modugno, la scorsa estate – ricorda l’operatrice – una di quelle giornate dal caldo insopportabile: ero in auto, quando riconobbi un ragazzo ospite del nostro Centro camminare per strada, sotto un sole cocente; accostai il mezzo, tirai giù il finestrino e gli dissi di salire, lo avrei accompagnato per quel tratto di strada che lo divideva dal Cas: risposta quasi imbarazzante la sua, “Sicura che posso sedermi?”; insomma, era così stupito che facessi una cosa che ritengo normalissima: avere un passaggio in auto, evidentemente, a lui, come ai suoi conterranei, era sembrata una cosa enorme: “Sicura che posso sedermi?”, ci rendiamo conto?».Torniamo al punto di partenza. «Colpa anche nostra – riprende Morena – evidentemente non siamo riusciti ad entrare perfettamente in relazione con i loro sentimenti; se pensano che a qualcuno “pesa” offrire loro un normale passaggio in auto, ma è solo un esempio, qualcosa non va a cominciare dal nostro modo di comunicare; non tutti gli italiani sono così, ma se i ragazzi – che in quanto a sensibilità non sono secondi a nessuno – avvertono forte la discriminazione, evidentemente a sbagliare siamo anche noi: mi ripeto, non dovremmo mai pronunciarci su quanto non conosciamo».Chiaro il concetto. «Lo stesso atteggiamento, in molti, lo hanno nei confronti delle altre religioni, come se uno straniero dovesse pregare come meglio fa comodo a noi, incredibile solo il parlarne: fa paura quello che non conosciamo!». Morena, che i ragazzi hanno affettuosamente ribattezzato “Morella”, ha ripreso a parlare anche inglese. «Lo studiavo sui banchi di scuola – dice – con molti di loro, padroni della lingua, ho ripreso a masticare l’inglese, ma anche a parlare “nigeriano”». Pronuncia qualche frase – del tipo “Ciao, come stai?”, “Tutto bene, fratello?” – che un ragazzo nigeriano, accanto a noi, comprende tanto da lasciarsi andare ad un sorriso. I ragazzi e il loro modo di fare. «Non lo scopriamo oggi, ma i ragazzi africani sono solari, espansivi, la loro voglia di starti a stretto contatto fa parte della loro natura, quando si incontrano e parlano fra loro è un continuo gesticolare, spingersi, toccarsi: qui subentra il mio, il nostro di lavoro, far capire che nella nostra società, giusta o sbagliata che sia, esistono linee comportamentali che possono essere interpretate in modo non sempre condivisibile: se per strada fermi qualcuno con un “normale” strattone, rischi il litigio; un altro paio di maniche è, invece, rivolgersi a chiedere una indicazione con un “Mi scusi…”; una volta che hanno compreso certi limiti, che appartengono a un Paese, un modo di pensare, tutto fila liscio…».
Morena e il suo lavoro. «Non potevo chiedere di meglio – torna sulla sua esperienza di operatrice – sono passata dallo studio sui banchi dell’università a quelli della vita, a discutere sui comportamenti umani, non avevo ancora avuto occasione di passare – come si dice – dalla teoria alla pratica: di questo sarò eternamente riconoscente a “Costruiamo Insieme”».