Nando Popu, Sud Sound System

«Ho conosciuto Carmelo, grande attore e regista, la musica dell’immenso Bob, re del reggae, e una cultura popolare che fa crescere. E un dialetto che avvicina e non allontana. Orgogliosi delle nostre radici, ai giovani dico: non emigrate, studiate e sappiate che siete con i piedi su una miniera, come turismo e masserie, tradizioni e gastronomia. Nord e sud, bianchi e neri? Mi sembra di tornare indietro di secoli…»

 

«Ma come si fa, oggi, a parlare ancora di neri e bianchi, di sud e nord, certe volte mi sembra di tornare indietro nel tempo: cultura e tradizione, quanto arricchiscono un popolo, purtroppo vengono considerati come superfluo, qualcosa di cui si può fare a meno, a vantaggio di un consumismo che indica il futuro nell’abbigliamento costoso piuttosto che nell’iPhone».

Le origini, il dialetto, la Magna Grecia, l’emigrazione, reimpossessarsi di tradizioni e di una lingua, il salentino, tornato ad essere lingua universale. Di questo ed altro parliamo con Nando Popu, uno dei fondatori dei Sud Sound System, formazione che nel tempo ha mescolato e servito, insieme, ritmi giamaicani e sonorità locali, con l’uso del dialetto e le ballate di pìzzica e tarantella.

 

Dunque, Nando, come si vive – anzi, non si vive – questo periodo di pandemia?

«Per noi è un vero problema, siamo sospesi in un limbo. Viviamo nell’incertezza; unica certezza: la nostra attività, quella in cui ci si sforza per fare arte, cultura, se vuoi, ma sulla quale gravano incognite sulla ripresa.  Stiamo perfino seguendo con ansia le due fasi del vaccino che dovrebbe restituirci parte di una serenità che mai avremmo pensato di perdere in questo modo. Dovesse finire domani la pandemia, non sappiamo quando potrebbe riprendere l’attività concertistica».

 

Cosa fa un artista in questo momento? A cosa si dedica, da cosa attinge risorse per scrivere, campare?

«I Sud Sound System sono anche un’etichetta, quello che abbiamo guadagnato nel corso degli anni non lo abbiamo messo in tasca, ma reinvestito, nello studio di registrazione e nelle produzioni. Oggi le risorse per mantenere questi due aspetti le attingiamo dai risparmi. I ristori? Lasciamoli perdere, se non altro per una forma di rispetto nei confronti di quanti se la passano peggio. Non vediamo l’ora che tutto questo finisca e si possa finalmente riprendere dal “Dove eravamo rimasti?”».

 

Domanda che non ci facciamo sfuggire. I Sud Sound System hanno reso il salentino una lingua universale: avvertite più soddisfazione o più responsabilità?

«E’ una missione ancora in corso. Comincia negli Anni 80, quando davano per spacciato qualsiasi dialetto. Erano i tempi dell’omologazione, della “Milano da bere”, si dava peso alla leggerezza. Il dialetto era considerato, invece, un linguaggio interiore, un lessico familiare, quasi si temesse a renderlo pubblico: erano gli anziani a parlare il dialetto, tanto che il nostro slang veniva visto come qualcosa di superato, vetusto. Il dialetto era vissuto in netto contrasto con le filosofie spesso frivole di quei tempi; così abbiamo provato a farlo rivivere, coltivandolo, imparandolo e traendone insegnamento. Abbiamo dimostrato che non era qualcosa di antico, ma empatia, fratellanza, un linguaggio che avvicinava; c’erano famiglie che avevano quasi vergogna di parlare il dialetto, obbligavano i ragazzi a parlare solo l’italiano, perché secondo loro dava modo di accedere con meno complicazioni al mondo del lavoro».

 

Il dialetto visto come risorsa, perché no, economica.

«Attraverso il dialetto abbiamo scoperto di essere Magna Grecia, a scuola un tempo non ti aiutavano a comprendere le tue tradizioni: tempo perso, dicevano. Di solito nascere al Sud era come crescere insieme all’idea dell’emigrare. Quando, invece, attraverso il dialetto abbiamo compreso di avere un’appartenenza e di essere un’espressione culturale, abbiamo spiegato ai ragazzi quanto sia importante studiare per capire chi siamo. E, perché no, trasformare lo studio in economia, in turismo e masserie, tradizioni e gastronomia; studiare, un giorno, ti permetterà di fare un mestiere che ti piace e rimanere nella tua terra senza cercare soluzioni altrove, lontano dalle tue radici che devi, invece, rivendicare, sostenere, aiutando i giovani a comprendere, accorgersi che hanno i piedi poggiati su una miniera».

POPU - 1

Quanto vi sentite parte dell’esplosione di un genere, la taranta, diventata poi rassegna?

«Ci siamo sentiti partecipi nel promuovere un genere coniugato alla musica giamaicana, caraibica; dal punto di vista canoro ci esprimevamo in chiave-reggae prendendo spunto dai nostri nonni con la pìzzica, gli stornelli. Pino Zimba, Uccio Aloisi e gli artisti di quella generazione di colpo si sentirono incoraggiati, tanto da affiancarci in questa operazione culturale non ancora conclusa: c’è ancora da lavorare. Ma oggi il Salento non è più reggae e pìzzica, c’è anche il funk, il soul, il blues, il rock; ci sono i SSS, ma anche Negramaro, Emma Marrone, Alessandra Amoroso e quanti hanno promosso la nostra terra attraverso la musica. E’ nata Puglia Sound, che sostiene gli artisti, li aiuta nella produzione e nella promozione. Oggi, per noi, sembra una cosa normale, ma quando ci confrontiamo con artisti bolognesi, milanesi, avvertiamo un senso di invidia per le cose che abbiamo fatto in tutti questi anni.

Lusingati per gli inviti, andiamo nelle scuole a parlare con gli studenti, raccontiamo la nostra esperienza, cercando di capire come ragionano i ragazzi, una generazione nuova, fino a trarre noi stessi insegnamento dalle loro esperienze per costruire insieme il nuovo».

 

In studio per un nuovo album. L’uscita dipende sempre dal maledetto virus.

«Certo, ci autoproduciamo, ma non avrebbe senso realizzare un album e restare a casa non potendo fare concerti e, dunque, promuoverlo, tanto in Italia quanto all’estero, dove trovi i nostri fratelli emigranti, ma anche curiosi che vogliono comprendere cosa sia successo nel Sud dell’Europa. Pertanto aspettiamo che questo periodo finisca per incontrare il nostro pubblico».

 

Hai parlato di migranti, la vostra musica è un linguaggio universale. Come vedete, ancora oggi, certe posizioni che fanno distinguo fra Nord e Sud, bianchi e neri?

«Quando sento cose simili, mi sembra di essere tornato nei secoli scorsi: sarebbe il caso, invece, di parlare di futuro e proiettarsi in cose che la stessa musica ha migliorato; dipende molto dalla cultura, in questi anni vista come un accessorio del quale si può fare a meno. Papà, zii, nonni, tutti figli di contadini magari mangiavano meno per assicurare ai propri figli le risorse per studiare, diventare medici, avvocati, architetti, ingegneri, chirurghi, professionisti che avrebbero cambiato la loro terra. E tutto ciò va visto sotto l’aspetto di progresso economico, ma anche umano. Personalmente, preso un titolo di studio in informatica, ho avuto modo di conoscere dal punto di vista artistico personaggi che vanno da Carmelo Bene a Bob Marley.

Ripeto, oggi, a torto, la cultura viene intesa come consumismo, comprare vestiti e iPhone costosi, quanto stiamo conoscendo attraverso le canzoni di questi ultimi anni. Ecco il razzismo, un sentimento di ritorno causato da come si perda di vista la cultura che, ripeto, non è un fardello, ma qualcosa che ti permette di aprire il cuore e la mente insieme, ripartendo da sentimenti che avvicinano e non allontanano».