Non voglio essere la rana nel pozzo
Da stamattina giro intorno ad una idea per scrivere la rubrica domenicale ma niente che mi sia passato per la testa mi ha appassionato.
Scrivo degli eventi che stanno riaccendendo il conflitto in Palestina? Dei roghi che stanno devastando il patrimonio ambientale italiano? Di quei Paesi europei, Austria in testa, che hanno chiesto all’Italia di chiudere i porti a garanzia anche dei loro confini? Delle donne vittime di femminicidio che si moltiplicano? Della mafia che a Roma non c’è (perché non uccide per strada ma nei Palazzi)?
Tutte cose che passano e ripassano in televisione e sui giornali senza destare più neanche indignazione.
Apprezzo quei commentatori di alto rango capaci di intrattenere per ore, in trasmissioni televisive interminabili, la gente che ormai «sente» più per l’abitudine di avere la Tv accesa che per la voglia di capire.
Avrei scritto ascolta dicendo una grande bugia.
La mia cartina di tornasole è la casa dei miei genitori: il primo pulsante a essere spinto è quello del telecomando della televisione. Prima i telegiornali locali, poi quelli nazionali.
Alle 8:00 della mattina hai l’impressione di sapere tutto ciò che, mentre eri distratto o dormivi, è successo sotto casa tua o nel resto del mondo.
Le voci dei giornalisti o degli invitati a commentare (che sembrano avere sottoscritto un contratto perché sono quasi sempre gli stessi) diventano familiari, abitudinarie.
Di fronte a questo atteggiamento largamente diffuso, accettante, acritico, mi tornano in mente le parole del Presidente Mao:
«Noi pensiamo troppo in piccolo. Come la rana in fondo al pozzo che pensa che il cielo sia grande quanto il cerchio in cima al pozzo. Se giungesse all’esterno avrebbe una visione interamente differente».
Nel chiuso delle proprie case o del proprio quotidiano, matura e cresce la visione della rana nel pozzo dentro quell’alveo di sopravvivenza nel quale la gran parte della popolazione è costretta, spesso sentendosi anche fortunata rispetto alle storie che passano la soglia di ogni limite civile che arricchiscono quella che dovrebbe essere informazione.
Allora penso di essere una persona fortunata per il lavoro che faccio, perché senza filtri, attraverso il contatto diretto con le persone, i migranti dei quali tutti parlano ma quasi nessuno ha mai incontrato, raccolgo storie e ricostruisco situazioni che nessuno racconta.
Alla televisione che parla di numeri e di scaramucce fra capi di Governo, io preferisco le persone: i loro occhi lucidi durante il racconto, il loro modo di tenere fra le braccia figli sottratti alla morte, il loro coraggio nell’immaginare un futuro nonostante tutto, la loro voglia di vivere contro ogni rassegnazione.
E apprezzo il loro modo di salutare che finisce sempre con la mano che tocca il cuore.