Creare spazi di socialità e recuperare un ruolo attivo

E’ possibile sentirsi soli anche fra tanta gente?

Certo!

In molti riconducono erroneamente il concetto di solitudine ad una dimensione circoscritta, quasi domestica, spaziale. In realtà, così non è, e oggi ci lanciamo in una breve e forse anche superficiale riflessione su questa malattia sociale latente quanto prossima e permeante del quotidiano: ci si sente soli sul posto di lavoro seppure circondati da colleghi, in famiglia nonostante la presenza di persone care, per strada, a scuola, ovunque ci si può sentire soli, senza differenza di età e a prescindere dal contesto spaziale.

Ciò che di per se può apparire come una contraddizione ha, in verità, una matrice, un’origine, una causa.

Il senso di solitudine affonda le proprie radici nella mancanza di condivisione, o meglio, nella mancata trasformazione dell’incontro in scambio, nell’instaurarsi di relazioni asettiche, ovvero prive del dinamismo del dare e ricevere di cui devono nutrirsi le relazioni per raggiungere una dimensione emozionale.

Al cospetto di questo termine di per se portatore ed intriso di un senso di angoscia si origina una associazione mentale frequente e quasi spontanea che lega a doppio nodo solitudine e anzianità seppure, in realtà, l’espansione di questo aspetto umano investe un quadro intergenerazionale: vive una dimensione di solitudine chiunque sia al di fuori dell’interfaccia dare-ricevere in qualsiasi contesto esprimendo, all’interno di esso, un ruolo passivo privo di interrelazione e di interlocuzione.

Ma, se concentriamo l’attenzione sull’età anziana emerge un quadro di sintesi di tale fenomeno che sostanzia quanto fino ad ora sostenuto nella perdita di un ruolo attivo all’interno del contesto e nella marginalizzazione delle potenzialità relative alla sfera del dare.

Infatti, se solo si costruissero contesti capaci di promuovere e stimolare il trasferimento di saperi e di competenze, formali ed informali, si darebbe origine ad un processo di restituzione di un senso di utilità sociale riconducendo le dinamiche nell’alveo delle relazioni emozionali.

Nel processo di trasferimento (dare) è insito il ricevere, fosse anche solo in termini di gratificazione derivante dal sentirsi parte attiva all’interno di un contesto.

E’ come dire che vivere in una situazione è diverso dal vivere una situazione.

E ad una malattia sociale non si può che rispondere con azioni sociali capaci di scardinare le origini del male stesso: creare luoghi, spazi, dinamiche che favoriscono l’incontro, la socializzazione, la condivisione, lo scambio reciproco, la produzione di relazioni emozionali pare essere l’unica via per combattere la battaglia contro la solitudine.

Concludo con una breve carrellata di fotografie immateriali che vanno dalla signora anziana che insegna ai più giovani come si fa la pasta fresca, al signore in età avanzata che insieme ad un bambino aggiusta la bicicletta o un giocattolo rotto, alla narrazione di vecchi giochi dei quali si è persa memoria che, con un pezzo di legno e un pizzico di esperienza possono anche prendere corpo restituendo dignità al materiale tenendo da parte, anche se per poco, tutto ciò che è virtuale e digitale.

L’incontro e l’incrocio intergenerazionale producono sempre ricchezza sociale!

Basta creare le condizioni.