“Sole 24 Ore”, diecimila posti di lavoro a rischio
Secondo l’ex ministro Calenda, oggi all’opposizione, la chiusura del siderurgico manderebbe a casa il doppio dei dipendenti (cifre allargate all’indotto). Fra le due tesi, una città divisa fra quanti difendono l’occupazione e quanti la salute.
Quanto perderebbe l’Italia in fatto di ricchezza se l’ex Ilva chiudesse i battenti. La riflessione scaturisce da un articolo apparso nei giorni scorsi sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” che ha pubblicato un’analisi econometrica commissionata allo Svimez, associazione privata per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. Secondo lo studio svolto dall’organo di informazione di Confindustria, dal sequestro (luglio 2012) a oggi si sarebbero persi ventitré miliardi di euro di Prodotto interno lordo (1,35% della ricchezza nazionale). Fra il 2013 e il 2018, la perdita sarebbe stata ogni anno fra i tre e i quattro miliardi di euro l’anno.
Secondo Il Sole 24 Ore, la riduzione delle ricchezza nazionale proseguirebbe anche quest’anno, in virtù della decisione di ArcelorMittal nel mantenere a poco più di cinque milioni di tonnellate la produzione di acciaio, anziché i sei milioni tondi promessi al momento dell’insediamento a nella capitale dell’acciaio italiano. Secondo lo stesso studio, pertanto, la ricchezza nazionale bruciata nell’arco dell’intero anno corrente sarà superiore ai tre miliardi e mezzo.
IPOTESI CHIUSURA…
Nell’ipotesi che l’intero stabilimento chiudesse, l’azzeramento della produzione di acciaio (i sei milioni di tonnellate anzidetti) sarebbe di una perdita vicina ai ventiquattro miliardi di euro. In buona sostanza, secondo l’ex ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, se l’ex Ilva di Taranto dovesse chiudere, si perderebbero 20 mila posti di lavoro e un punto di Pil.
L’attuale europarlamentare del Pd fa riferimento a una stima, dunque non a un dato ufficiale: 8.200 (oltre 10 mila se si considera l’intera società ArcelorMittal Italia), sono invece i dipendenti dello stabilimento, dunque meno della metà del numero indicato da Calenda (ma ci sarebbe l’indotto…).
Tre giorni fa, ospite a Zapping su Radiouno, infatti, l’ex ministro dello Sviluppo economico ha dichiarato che “chiudere l’Ilva – parole sue – vuol dire perdere un punto di Pil e mandare a casa ventimila persone”.
Un giorno prima, dunque il 26 giugno, l’amministratore delegato del ramo europeo di ArcelorMittal (multinazionale guidata dall’indiano Lakshmi Mittal), ha dichiarato che a settembre l’ex Ilva rischierà di chiudere a causa di una norma contenuta nel cosiddetto “Decreto Crescita” (convertito in legge dal Senato il 27 giugno).
IMPUNITA’, DI MAIO AVEVA AVVERTITO
Un dossier del Servizio studi del Senato che fa riferimento a un articolo contenuto nel Decreto, infatti, stabilisce che dal prossimo per i responsabili dello stabilimento non varrà più l’impunità per la violazione delle disposizioni a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, elemento per l’amministratore delegato europeo indispensabile per risolvere i problemi ambientali dell’ex Ilva fino al completamento del Piano ambientale.
Detto in soldoni, secondo i critici di questa misura, sostenuta dal ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro Luigi Di Maio, il rischio è che i manager dell’ArcelorMittal vengano esposti a rischi di carattere legale per una situazione che hanno ereditato (dunque non causato) e quindi non vengano messi in condizione di poter mettere in regola una volta per tutte lo stabilimento.
Secondo quanti sono invece favorevoli, lo scopo dell’abolizione dell’impunità è quello di garantire la tutela della salute per i cittadini di Taranto. Il ministero presieduto da Di Maio in una nota aveva affermato che “ArcelorMittal era già stata messa al corrente del provvedimento a febbraio 2019 e che il governo è al lavoro affinché l’azienda continui ad operare nel rispetto dei parametri ambientali”.
DIECIMILA (ARCELORMITTAL), VENTIMILA (EX ILVA, PIU’ INDOTTO) POSTI A RISCHIO
Ma vediamo quanti sarebbero i posti di lavoro a rischio. L’intesa sottoscritta lo scorso settembre prevedeva che l’azienda si impegnasse ad assumere in totale 10.700 lavoratori (secondo l’esistente inquadramento contrattuale). Per i circa tremila dipendenti restanti, ArcelorMittal si era impegnata a finanziare un piano di incentivi per l’esodo volontario e ad assumere tra il 2023 e il 2025 qualsiasi lavoratore fosse rimasto nell’Amministrazione straordinaria di Ilva.
Allo stato, cifre alla mano, lo stabilimento dell’ex Ilva di Taranto conta circa 8.200 dipendenti (e non ventimila come detto da Calenda). Se si considerano tutti i dipendenti del gruppo ArcelorMittal in Italia, questo numero si aggira intorno agli 11 mila, anch’esso inferiore alla cifra riportata dall’ex ministro Calenda. Ma, diecimila o ventimila che siano i posti di lavoro in ballo, di certo fra le schermaglie Governo-Industria-Calenda, in mezzo esiste una città che trema. Messa al centro fra salute e occupazione, Taranto vive in una situazione contrastante: migliaia di famiglie che vivono di Ilva, e migliaia di famiglie che, fra passato, presente e futuro, vivono quotidianamente l’angoscia di un male già manifestato o che potrebbe manifestarsi a causa di un inquinamento industriale combattuto, ma ancora non debellato. Dal suo canto, ArcelorMittal ha avviato attività di contrasto al fenomeno inquinante con la copertura dei parchi minerali.
Ancora due mesi, infine sapremo quale sarà il futuro di una città di cui tutti parlano, ma che si sente sempre più sola.