Da Gao a Taranto per amore dello studio

«Qualche giorno fa ho letto la notizia di un attentato terroristico a Gao, la città del Mali in cui sono nato a cresciuto: la mia mente è tornata a quel giorno in cui hanno bombardato la mia scuola e ho deciso di partire».  Alhassane parla piano. Le sue mani si stringono mentre passa in rassegna i ricordi per raccontare l’esperienza che lo ha portato in Italia. Ha 21 anni ed è arrivato in Italia nel 2014 con la voglia di studiare «perché per poter vivere in un Paese nuovo hai bisogno prima di tutto di imparare bene la lingua: è l’unico modo – racconta mentre tira fuori il cellulare dalla tasca – per farti capire anche e soprattutto da chi vede con diffidenza l’accoglienza di noi migranti. Conoscendo l’italiano posso raccontare come stanno la cosa e aiutare a capire perché tanti scelgono di partire: posso confrontarmi con loro, spiegare e capire le loro ragioni».

alhassane diakiteLa sua mente torna velocemente al 22 aprile 2012 quando una delle tante fazioni impegnate nella guerra che sta devastando il suo Paese sganciò una bomba sulla sua scuola: «Ero andato a scuola quella mattina, ma non sapevo che non sarei mai più tornato a casa. Quando ci lasciarono uscire dalla scuola, capii che non potevo tornare indietro, che non potevo rimanere lì. I gruppi in guerra arrivano all’improvviso e reclutando anche i giovanissimi: li lasciano fare in servizi più umili e li privano delle loro famiglie per mandarli a combattere. Io volevo studiare e con la scuola in quelle condizioni, sapevo che non c’era più alcuna speranza». A mezzogiorno di quel giorno di aprile è partito da Gao e a bordo di un veicolo pick up ha raggiunto la frontiera con l’Algeria. «Non ho nemmeno salutato la mia famiglia: sono partito immediatamente e sono arrivato in una città algerina, ma sono stato per tre giorni: perché alcuni dei gruppi in guerra nel mio Paese arrivavano proprio da lì e quindi non potevo rimanere a lungo». A bordo di un autobus è arrivato a Ghadames in Libia: «Guarda è qui che ho vissuto per un anno – dice mostrando sul cellulare la mappa del nord Africa – e ho lavorato come giardiniere. Anche qui, però la situazione non era sicura e quindi mi sono spostato a Dirj, una città distante 100 chilometri: «ho trovato lavoro anche qui: manovravo gli escavatori. Sapevo parlare bene l’arabo e in quelle zone sono le aziende che ti vengono a cercare per lavorare, ma i problemi arrivano quando devono pagare: non importa quanti giorni hai lavorato e quello che avevano promesso: decidono loro quanti giorni pagarti e a volte non ti pagano nemmeno. Così decisi per l’ennesima volta di andare via. Sapevo di non poter tornare nel mio Paese perché in Libia se ti fermano al confine con i soldi te li portano via dicendo che stai facendo uscire dalla nazione i loro soldi. Decisi di venire in Italia e così andai a Zuara». In quei viaggi Alhassane ha conosciuto tante persone, ma non ha amici: «abbiamo condiviso una parte del viaggio, ma poi ognuno ha preso la sua strada». Resta in contatto telefonico con la madre e i suoi fratelli fino a poco prima di salire sul barcone: «eravamo più di 600 persone a bordo: per due volte sono stato a un passo dalla morte perché non riuscivamo a respirare. I bambini, i più piccoli, piangevano, ma non potevamo fare nulla».

È stata una nave della Marina italiana a intercettare il barcone e a condurli in salvo a Catania. Da lì, Alhassane è giunto a Taranto: «la prima cosa che ho pensato è quella di riprendere a studiare. Avevo interrotto gli studi al terzo anno delle scuole superiori e così mi sono iscritto al quarto anno. Non sono ancora riuscito a diplomarmi, ma lo farò presto – dice con ottimismo – Io fortunatamente ho un lavoro e non è facile lavorare e studiare». Oggi è un operatore di Costruiamo Insieme, ma per lui la cooperativa non è un luogo di lavoro: «oggi Costruiamo Insieme è la mia vita: Nicole, la presidente, mi ha trattato come un figlio ed è una cosa che non si dimentica. Mai nella mia vita questo dono sarà cancellato. Questo posto è la mia nuova famiglia: provo emozioni che mi fanno sentire a casa».

La sua famiglia d’origine, intanto, ha lasciato Gao e si è trasferita: «Mi piacerebbe averli qui e magari, quando un giorno sarò ingegnere riuscirò a farli arrivare in Italia. Avrei le mie due famiglie con me. Sarebbe davvero il mio sogno».