KEDIRA SECONDA PARTE.
Quando ha lasciato il suo Paese Kedira aveva da poco compiuto sette anni. I genitori le hanno fatto credere che partivano per una vacanza ma a lei era parso strano il fatto che, nelle settimane precedenti quella partenza, il papà era stato impegnato a disfarsi di tutto ciò che era in casa. “Al ritorno troveremo tutto nuovo!” fu la risposta della mamma impegnata a mettere insieme il minimo necessario per affrontare quel viaggio. Anche Kedira preparava le sue cose avendo capito che si sarebbe trattato di un viaggio che l’avrebbe tenuta lontana da casa per tanto tempo. Una lunga vacanza in Europa. Salendo nella macchina che segnò l’inizio del suo viaggio si accorse che mancava un pacco, quello dove aveva riposto i suoi giocattoli, quelli ai quali teneva di più. Quando chiese ai genitori di fermarsi un attimo per recuperare quel pacco il papà le disse che non serviva perché stavano andando in un Paese pieno, ricolmo di giocattoli. Kedira e i suoi genitori sono arrivati in Italia con una nave da trasporto, non su un gommone. L’unico ricordo che ha è quello di aver dormito in una cuccetta mentre i genitori erano accovacciati, spalle alla porta di quello stanzino quasi a protezione della piccola: “Quando ho aperto la porta, papà ha urtato la testa sul pavimento perché dormiva poggiato alla porta”. Lo sbarco all’alba, su una piccola imbarcazione che li ha lasciati su una spiaggia di Lampedusa.
Kedira, sempre estremamente educata, si alza. Questa volta davvero per andare in bagno. Io approfitto per scambiare qualche parola con il papà, per capire quanto fosse vero di quanto mi stava raccontando Kedira, per capire come a soli 12 anni si potesse avere tanta consapevolezza e lucidità nel racconto. “E’ tutto vero! –mi ha detto il padre- Il viaggio è costato 5000 euro e ho dovuto lasciare la macchina, una mercedes al mediatore che ci ha fatti imbarcare. Non potevo portare mia moglie e mia figlia su un gommone. Abbiamo venduto tutto, tranne la casa che ormai non c’è più, ma ora siamo qua. E ci sentiamo fortunati. A Kedira abbiamo dovuto raccontare tutto anche perché le prime settimane trascorse nel campo di accoglienza non avevano nulla che le potesse far credere di essere in vacanza. La televisione, poi, ha fatto il resto. Ha detto ciò che noi non avevamo neanche il coraggio di dire anche solo con le immagini”. Intento ad appuntare qualcosa sui tovaglioli, alzando lo sguardo mi sono accorto che Kedira era tornata a sedersi e sbirciava, con discrezione, fra i miei appunti (come sempre incomprensibili). Quando le ho chiesto se avesse ancora voglia di continuare il suo racconto mi ha sorriso e mi ha fatto notare che il mio bicchiere di vino era ancora pieno. Mi ha fatto una battuta in siriano che ha fatto ridere le persone che erano vicine. Ovviamente non ho capito e il mio sguardo è subito andato al padre che mi ha tradotto le parole di Kedira: “Vuoi vedere che si è già convertito?”. Ho riso anche io, di fronte a quella bambina-donna. Ma mi giravano nella testa le parole che poco prima mi aveva detto il padre: la televisione, poi, ha fatto il resto!
Avevo deciso di non chiedere niente a Kedira, di raccogliere solo il suo racconto se avesse avuto ancora voglia di continuare a raccontare. Avevo di fronte una bambina cresciuta troppo in fretta, che quando ti parla ti guarda dritto negli occhi e ti mette in una situazione di imbarazzo, quasi di sfida! Aspettava che le chiedessi qualcosa, che le facessi qualche domanda e, per non restare con le parole del papà che ancora mi giravano nella testa le ho chiesto cosa le piaceva guardare in televisione. La risposta è stata agghiacciante: “Io la televisione non la guardo. L’ultima volta che l’ho vista c’erano le immagini della mia casa che non c’è più, della strada che percorrevo ogni giorno per andare a scuola ricoperta di pietre e macerie e non c’è più neanche la mia scuola”. E’ diventata triste. Ho pensato che non fosse il caso di andare oltre, di chiudere quella conversazione. Di smetterla di appagare la mia voglia di sapere rievocando fantasmi nella mente di una bambina. Volevo scappare e ho tentato di farlo. Quando le ho accarezzato la mano dicendo che dovevo andare via e che il suo racconto mi era rimasto impresso nella mente e avrebbe trovato un posto nel mio cuore ha voluto dirmi altre due cose: “Scrivi che papà è il mio eroe e che tu sei un bugiardo!”. Quando le ho chiesto perché mi stesse dando del bugiardo mi ha fatto notare che nella mano avevo tanti fazzoletti sui quali c’erano i miei appunti. E’ stato come se avessi tradito la sua fiducia. Con lei ho buttato quei fogli in un cestino. E’ stato un gesto istintivo, sentivo di avere tradito un patto fatto fin dall’inizio. Aveva ragione lei, non serviva registrare o scrivere: il vissuto raccontato ti resta dentro se lo ascolti. Se lo senti, un attimo dopo non c’è più!
Io ho provato a raccontarlo e l’ho fatto solo in parte, ho scritto solo una piccola parte della sua storia. Costringere in una pagina o due il racconto di un’ora per raccontare un vissuto è difficile. Sono tante le cose dette e non scritte di questa storia. Quando manderò a Kedira una copia (che mi ha chiesto) del mio racconto sono sicuro che mi chiederà che fine ha fatto tutto il resto.
In quei fazzoletti che abbiamo gettato insieme in un cestino?
No! E’ rimasto dentro, come aveva detto lei. Non ho dimenticano neanche una parola.
La terza parte, o tutto, la scriverò con lei se me lo chiede. Manca tanto di questo racconto.
Grazie Kedira per avermi regalato la tua storia.