Siriman, venti anni, maliano

«Una notte fanno irruzione in una cascina uomini in divisa, ci picchiano, svuotano le tasche e portano in carcere». Quattro anni lontano da casa, ha lasciato l’anziano papà e due fratelli più grandi di lui. «Non potevano più mantenermi, così a quindici anni sono andato via: Algeria e Libia a fare il muratore, finalmente l’Italia, gli studi, un corso di formazione…».

«Brusco risveglio, un uomo in divisa mi scuote con la canna di un fucile puntato a un palmo dalla faccia, “Sei in arresto!”, mi urla». L’esperienza libica di Siriman, nato in Mali, all’epoca più o meno sedicenne, lontano da casa, subisce presto una grave sterzata. Oggi, venti anni, ospite nel CAS di Modugno, aiutato dalla cooperativa sociale “Costruiamo Insieme”, lavora e studia. E a breve parteciperà a un corso di formazione.

Torniamo a quella notte. «La disperazione l’avevo già avvertita, ma per la prima volta sento, forte, la paura; lavoravo insieme con altri ragazzi, connazionali e non, in una ditta edile; quindici ore al giorno, cominciavamo alle prime luci dell’alba e finivamo solo all’imbrunire, quando sfiniti ci lanciavamo sul primo pagliericcio libero all’interno di un casolare». Preciso, circostanziato il racconto di Siriman. «Militari, con il pretesto delle divise indossate – ricorda – ci rovesciano le tasche, ci alleggeriscono di qualsiasi cosa somigliasse a danaro, perfino gli spiccioli; ci invitano con modi violenti a seguirli, io sono fra i più giovani della compagnia, chiedo a qualcuno più grande cosa stia accadendo: i compagni di lavoro interpellati, mi fanno cenno con una mano, come se dovessi cucirmi la bocca; insomma, non dovevo fiatare, le cose potevano mettersi ancora peggio rispetto alla piega che stava prendendo la storia». Ricorda tutto il giovanotto fuggito minorenne dalla sua terra. A casa lascia padre, anziano, con risorse economiche pressoché inesistenti, e due fratelli, più grandi di lui, che mantengono le rispettive famiglie lavorando nei campi. Purtroppo la mamma è deceduta a causa di una lunga malattia. «Feci silenzio, ci trascinarono a spintoni, calcioni sui fondoschiena, giusto per farti capire che aria tirasse se solo avessimo fatto una qualsiasi domanda».

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TUTTO COMINCIA ALL’ALBA DEL 2014…

La storia del piccolo, grande Siriman, comincia all’alba del 2014. «Papà non aveva più la forza di mantenermi – spiega – una bocca da sfamare, anche solo a pane e acqua, è un bell’impegno; pensate in quali condizioni eravamo, tanto che i miei due fratelli, sposati e con famiglie da sostenere, mi presero da parte e mi fecero un lungo discorso: “Devi andartene!”. Così, senza tanti giri di parole, non è che la cosa fosse balenata inavvertitamente dal cielo: mi aspettavo qualcosa di simile. Me lo dissero con il dolore nel cuore, lo capii dall’espressione del loro volto, dalle lacrime di mio padre e dall’abbraccio: durò più del discorsetto con il quale le nostre strade, per il bene di tutti, si sarebbero separate».

Una quindicina di anni, più o meno compiuti, non fa differenza. Pensiamo ai nostri ragazzi che arrivano anche a trent’anni e non si staccano dalla famiglia. I quindici anni di Siriman sono più complicati, li matura la fame, la fuga dallo schiavismo. Là fuori esistono mille traffici, finisci in un giro di droga o traffico di organi umani ed è la fine, hai vita breve. «Scappo dal Mali – riprende il ragazzo – arrivo in Algeria, mi invento muratore: apprendo in fretta, qualcosa l’avevo imparata nel mio Paese, il resto me l’aveva insegnato di corsa la fame, lo stomaco che brontolava da giorni: impastavo, intonacavo e stuccavo, senza un attimo di sosta; non vedevo l’ora di mettere qualcosa sotto i denti, gettarmi in un angolo dei locali che ci ospitavano e addormentarmi come un sasso».

Quel primo lavoro glielo manda la provvidenza. A sedici anni impara a spezzarsi la schiena, per un tozzo di pane e pochi spiccioli che Siriman mette da parte. «Uno sull’altro, li nascondevo, mi sarebbero serviti per pagarmi un altro pezzo di viaggio verso la libertà; l’Algeria, a modo suo, era stata ospitale, mi aveva dato un lavoro, ma io e i miei compagni di viaggio e di speranza, cercavamo altro, qualcosa di umano».

NON SEMPRE VA COME VORRESTI

Altro cambio di programma. La fuga verso una imbarcazione che ti porti dall’altra parte del Mediterraneo, passa dalla Libia. Anche lì la musica non cambia, anzi, stona, diventa insopportabile, alle orecchie, come alla pelle e alle ossa. «C’è da diventare matti per il ritmo con il quale veniamo impiegati in un cantiere edile in Libia – documenta Siriman – non c’è giorno che qualcuno non ti dica che c’è da lavorare e che i tempi di consegna stringono: ci svegliano all’alba, dobbiamo stare sul cantiere già alle prime ore del mattino, secondo loro si lavora meglio perché a mezzogiorno il sole picchia forte; ma la cosa buffa è che non stacchiamo un solo attimo e anche nella morsa di un caldo soffocante ci sbattiamo, diamo anche di più, se possibile».

Schiena a pezzi, i soldi per il viaggio quasi ci sono, quando nella notte irrompono uomini in divisa. «Militari, non so a quale corpo appartenessero, un aspetto e un modo di fare spavaldi, sicuri: ci sfilano i soldi, a qualcuno sottraggono il telefonino e via, ci sbattono fuori da quei locali; torniamo al lavoro, dobbiamo rimettere insieme i soldi per pagarci il viaggio verso l’Italia e farci più furbi, nascondere meglio il frutto del nostro lavoro».

Ancora militari, gli uomini in divisa scovano daccapo Siriman e i suoi compagni di lavoro. Stavolta gli tocca la galera. «Non trovano i soldi, così ci sbattono “dentro” per qualche giorno; intanto quei libici che avevamo contattato per imbarcarci per l’Italia, stavano organizzando il viaggio: quando veniamo a sapere il giorno in cui stavano per partire, escogitiamo un piano di fuga, arriviamo al punto di imbarco, paghiamo la nostra quota e via…».

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UNA NOTTE E UN GIORNO, POI UNA NAVE MILITARE ITALIANA

Il viaggio dura una notte e un giorno, fino a quando il gommone sul quale viaggiamo in mare aperto non viene avvistato da una nave militare italiana. Salvi. «Sbarco a Lampedusa, il 16 febbraio di due anni fa arrivo, invece, al Centro di accoglienza straordinaria “Costruiamo Insieme”. Temevo mi trasferissero altrove considerando la mia giovane età. Per una serie di episodi fortuiti, resto a Modugno, dove risiedo tutt’oggi: qui ho studiato, conseguito la licenza media e mi sono iscritto al primo anno di scuola superiore; da settembre frequenterò un corso di formazione, vorrei fare il barman o il cameriere: mi dicono che potrebbero esserci occasioni, considerando che conosco tre lingue; ogni sera rivolgo una preghiera al Cielo perché mi assista, nel frattempo al mattina faccio il muratore, la sera il lavapiatti in un ristorante, niente a che fare con i ritmi di lavoro e lo stile di vita libico: parte di quello che riesco a guadagnare lo mando a mio padre perché possa vivere decorosamente; mi guardo indietro, i brutti ricordi restano brutti ricordi; non vorrei più pensarci, la mia vita però ha subito una svolta positiva, ogni giorno faccio di tutto per realizzare il mio sogno: restare in un Paese ospitale e bellissimo come l’Italia».