Mahdi, nigeriano, trent’anni
Prima uno zio, poi il papà, assassinati da malfattori, nessun colpevole assicurato alla giustizia, scappa per evitare ricatti. «Voglio vivere sereno, come tanta gente, riabbracciare mia moglie e i miei figli al più presto: intendo lavorare, non elemosinare. In Libia, ho fatto di tutto per mettere insieme i soldi per pagarmi il viaggio verso la libertà. Poche ore di mare, una nave mercantile spagnola, finalmente l’Italia»
«Prima zio Mansur, poi papà Sunday, aggredito e accoltellato il primo, assassinato a colpi d’arma da fuoco il secondo. Uno e l’altro, in momenti diversi, muoiono a breve distanza di tempo, uno dall’altro». Brutte storie. «Chiedevano soldi, le scuse più strane, come comprarsi da mangiare, studiare, pagarsi un viaggio per l’Europa: non sempre potevamo elargire danaro, ma si erano fatti insistenti, con mio zio e mio padre».
Non tutta la Nigeria è così, ma le gang di malfattori sono più o meno all’ordine del giorno. Ragazzi che non hanno grande voglia di lavorare, mettono in conto che possano essere ammazzati, proprio durante un “chiarimento”. «Durante una resa dei conti – spiega Mahdi, nigeriano, trent’anni – proprio come accade nei film, tirano fuori di tutto, coltelli, scimitarre e pistole, qualche fucile: non sono armi all’ultimo grido, qualche volta non funzionano, ma quando parte un colpo, vi assicuro che sono dolori: è la fine…».
«Zio Mansur era un avvertimento – ricorda Mahdi – ci è cascato come una frutta matura cade da un albero fra le braccia: l’ultimo sguardo rivolto al cielo, gli assassini se la danno a gambe levate, la mia famiglia è avvisata!». Non c’è tregua da queste parti, comanda il più forte, gang organizzate, guidate da pazzi scatenati come fosse una riedizione, tutta africana di “Pulp fiction”. Questa è la storia di Mahdi, trent’anni, fisico possente, uno che non si tirerebbe indietro di fronte a qualsiasi cosa, tranne che a un paio di pistole puntate sulla faccia. «E’ un attimo – ricorda – è come se la pellicola del film della tua vita scorresse di corsa, questi ci mettono poco a premere un grilletto, lo hanno già fatto, una vittima in più è solo un numero, uno che non ha nemmeno un nome».
ELEMOSINARE, MAI!
Mahdi, non trascina le giornate, si industria, fa quello che può fare. Lavora saltuariamente, il fisico gli permette di non passare inosservato e un paio di braccia come le sue fanno comodo al mercato come nei campi. «Di sicuro – spiega – non chiederei mai l’elemosina, non rientra nell’educazione che mi hanno impartito mia madre e mio padre». Mahdi, non una, ma tre famiglie. Quella dello zio, che l’ha cresciuto come fosse un figlio, prima che fosse ferito a morte; quella di papà, fino a quando anche lui è campato, prima cioè che tre, quattro proiettili, non li ricordo nemmeno, lo strappassero per sempre all’amore dei figli; infine, la sua di famiglia, quella di Mahdi, moglie e quattro figli.
«Ho assistito mio padre – racconta – gravemente malato, come ho potuto, trascurando anche il mio lavoro, riparavo auto e moto; papà Sunday doveva essere seguito tutto il giorno, la malattia lo stava divorando, anche se riusciva a fare le cose più importanti in modo autonomo; avevo già perso mia madre per una malattia simile, una di quelle che dalle nostre parti sembrano incurabili e, invece, potrebbero essere curate come se fosse un’influenza; ma è così che funziona lì, dalle nostre parti: l’assistenza sanitaria è insufficiente, così le malattie prima si complicano, poi diventano casi estremi, infine incurabili».
Trent’anni, quattro figli, una famiglia numerosa. «Quattro fratelli, rimasti tutti a casa, erano zio e papà ad avere cura di noi tutti: non che navigassimo nell’oro – avessimo avuto tanti soldi, avremmo affrontato cure costose – ma vivevamo bene, per come può essere una vita tranquilla dalle nostre parti; quando papà si è ammalato, mio zio era stato già ammazzato; avevamo voluto risparmiare questo dolore a papà, ma il mio genitore lo capì quasi subito non vedendo più suo fratello fargli visita come invece accadeva tutti i giorni; morto papà, ecco i problemi: lavoravo, ma dovevo stargli accanto, finì che dovevo trascurare la mia attività di riparatore; poi il suo assassinio, nonostante fosse in quelle condizioni: qualcuno fuori controllo lo aveva condannato».
ADDIO ZIO, ADDIO PAPA’
Niente più zio, né genitori. Solo la sua famiglia. «Sono sposato – rivela Mahdi – mia moglie e i miei quattro figli, tre ragazzi e una ragazza, fra i nove e i tre anni, sono rimasti a casa: ci sentiamo quando è possibile, ogni volta è una forte emozione, sentirli tutti insieme è un’impresa: le telefonate costano, oggi non posso permettermelo».
Mahdi parla della fuga. «Rappresaglie continue – ricorda – un problema fare fronte a gang senza scrupoli e che agiscono con una polizia assente; proveresti anche a difenderti, ma poi rischieresti la tua vita e, soprattutto, quella dei tuoi cari; così due anni fa sono partito senza un obiettivo preciso, se non quello di provare a ricostruirmi ovunque capitasse una vita normale e, appena possibile, tornare a casa, ma solo per riprendermi moglie e figli e portarli nella mia nuova casa».
Mahdi e la Libia. «Posso ritenermi fortunato, non sono stato vittima di bande di sequestratori che ti prendono in ostaggio e ti svuotano le tasche, ti affidano a persone che ti danno lavoro e riscuotono i soldi al tuo posto; nella sfortuna posso ritenermi fortunato: non mi sono mai tirato indietro quando c’è da prendere fra le mani attrezzi da lavoro; in Libia ho fatto praticamente di tutto: lavorato nei campi, costruito mobili, perfino fatto il giardiniere, il custode e lo spazzino; l’unico scopo era mettermi da parte quei soldi necessari per pagarmi il viaggio verso l’Italia, una volta qui avrei visto cosa fare, se restare o ripartire, verso Francia o Germania; raggiunta una certa somma ho contattato qualcuno che mi mettesse su uno dei tanti gommoni in partenza per il vostro Paese».
Finalmente Mahdi il mare, una grande emozione. «L’ho vissuto come un senso di liberazione: pensavo a quanto accaduto a casa, provando ad accarezzare una sorta di riscatto, perfino un futuro: quello che è stato, quello che potrebbe essere, con mia moglie e i miei figli».
Il trentenne nigeriano muove, dunque, il primo passo verso una nuova vita. «Arrivo in spiaggia, un gommone che potrebbe ospitare non più di una quarantina di persone, ne imbarca centocinquanta: dopo aver salpato ci troviamo in mare aperto, otte ore di mare, quando una nave mercantile spagnola ci avvista e ci viene incontro: tutti sani e salvi. Trovo un primo lavoro, mi piacerebbe studiare, dimenticare il dolore e tornare un’ultima volta a casa per riabbracciare mia moglie, i miei figli e portarli via con me e, finalmente, riabbracciare la speranza di una vita normale».