Ismaila, ventuno anni, operatore di “Costruiamo Insieme”

«Ho realizzato un sogno: trovare lavoro in una struttura che fa accoglienza. Il dolore è una realtà che conosco bene, sono scappato dal Gambia, una politica inflessibile. Il viaggio in mare, una nave militare italiana, il porto di Taranto, finalmente a “casa”»

Ismaila, gambiano, ventuno anni, operatore di “Costruiamo Insieme”. «Primo sogno, realizzato», dice. «Trovare un lavoro in una struttura che si occupa di accoglienza non può che riempirmi di gioia: posso contare su un’autonomia economica e svolgere un’attività che mi porta a stretto contatto con realtà che conosco molto bene».

Non solo accoglienza, Ismaila si riferisce all’aspetto umano di storie diverse fra loro, ma molto simili. Ragazzi, come lui, fuggiti da un’Africa povera e arida di politiche democratiche. «Ci sono passato anch’io – ricorda – quando un brutto giorno, ancora giovanissimo, ho dovuto prendere una decisione: lasciare il Gambia, il mio Paese; brutto, perché mi aveva e mi stava riservando ancora dolore: non avevo più papà e mamma, ero diventato subito orfano, lì non c’è assistenza sanitaria, se non hai denaro puoi scordarti qualsiasi tipo di conforto medico».

Niente papà e mamma, pochi familiari. «Ho lasciato lì due miei fratelli, che sento ogni tanto; ci raccontiamo quanto ci accade, io dico della fortuna che ho avuto nell’aver guadagnato subito la stima della cooperativa per la quale oggi lavoro; loro mi raccontano dei sacrifici ai quali devono ancora sottoporsi per andare avanti e vivere una vita dignitosa: non è un bel vivere in Gambia, non è una novità sapere che lì si patisce un grave disagio, aspetto dovuto a una incertezza politica durata fino a poco tempo fa…». Non si sbilancia, Ismaila. In tutti questi anni il suo Paese è stato spettatore passivo di una corsa al potere. Prima un colpo di Stato, poi elezioni democratiche, non senza qualche colpo di coda. Oggi, dopo anni di sofferenza, è stato ristabilito il principio di democrazia.STORIE Articolo - 1UN GIORNO TORNERO’ AL MIO PAESE, FORSE…

«Un giorno tornerò a casa – confessa – ma non ora, in Italia sto bene, è un Paese accogliente, ho un ottimo rapporto con la gente del posto: quello che si dice in giro, l’intolleranza per esempio, in Italia non si avverte; mi ritengo fortunato, per essere arrivato qui, ospitato in un Centro di accoglienza straordinario, ed essermi subito inserito in società trovando un posto di lavoro che mi inorgoglisce».

La fuga di Ismaila. «Via dal Gambia, ho attraversato Senegal, Mali, Burkina e Niger, prima di arrivare in Libia». Il ventunenne gambiano ha stampata in mente la sua cartina geografica. Quella che possiamo osservare in un attimo, colorata, con tanto di confini, Ismaila l’ha vissuta sulla sua pelle. «Mi sono fermato in Libia – riprende – l’unico modo di mettere un po’ di soldi da parte per il viaggio era darsi da fare, mettersi sul mercato, trovare qualcuno che mi aiutasse a trovare lavoro: così ho trovato un impegno giornaliero, in campagna, sei ore al giorno, dalle 8 alle 14… lavoro sodo, sotto un sole che non perdona, ma è una condizione che si supera, basta non pensarci: il segreto sta nel rivolgere il pensiero a quello che un giorno sarebbe stato, una volta messi insieme i soldi per pagare il viaggio per l’Italia…».

Dunque, il tanto sospirato viaggio verso libertà, ma anche l’incognito. «Arrivare sulla sponda opposta all’Africa era comunque un passo avanti rispetto a giorni e giorni di sofferenza; avevo il denaro giusto per staccare il biglietto per l’Italia, una volta lì ne avrei parlato con connazionali e amici: restare o partire par altri Paesi; settantacinque persone su una imbarcazione: non sapevamo quanto sarebbe durato il viaggio, non era scontato che tutto andasse in fretta e bene; non sai mai quale sia il carattere del mare: partimmo con il batticuore, le onde facevano paura, ma per fortuna fu sufficiente un giorno di mare, ci venne incontro una nave militare italiana».STORIE Articolo - 2…QUI STO BENE, MI SENTO A CASA 

Ricorda come se fosse ieri. «L’equipaggio fece salire tutti noi a bordo: era l’ottobre del 2015, arrivammo direttamente al porto di Taranto, fui ospitato in una struttura del quartiere Salinella per un mese, poi passai a “Cavallotti”: parlavo inglese e mandinka, lingua che si parla in Gambia, ma anche in Guinea-Bissau e Senegal, mentre perfezionavo il mio italiano; fu così che da “Costruiamo Insieme” mi chiesero se mi avesse fatto piacere impegnarmi per i ragazzi in arrivo dall’Africa; sarà stato il carattere, il mio essere gioviale, anche nei momenti più critici, ad aver convinto chi mi ha offerto un’occasione che non mi sono lasciato sfuggire».

Infine un pensiero rivolto ai due fratelli rimasti in Gambia. «Loro due sono la mia famiglia, ormai: non ho più papà e mamma, scomparsi giovanissimi; la domanda che mi rivolgono più spesso è su come mi trovo in Italia e se un giorno potrei tornare a casa; sempre uguali le mie risposte: ho nostalgia di loro, del mio Paese, ma in Italia sto bene, un giorno forse tornerò, chi può dirlo». Indipendentemente da quello che sentiamo e leggiamo in questi mesi, l’Italia è un Paese ospitale. «Non ho mai subito gesti di insofferenza, non c’è tutta quell’intolleranza di cui si parla; poi ho trovato lavoro e, oggi, “Costruiamo Insieme” è la mia seconda famiglia».