«Una intervista, una foto, a che servono?». Non è sempre facile alleggerire un migrante di una storia il più delle volte drammatica. Un extracomunitario si pone più o meno le stesse domande che gira con garbo a chi vuole conoscere meglio le ragioni che lo hanno spinto in una terra lontana da casa. Non è diffidenza, ma prudenza. Dopo quello che uno, dieci, cento hanno passato, tornare a fidarsi subito, ciecamente, non è semplice.

Magari serve parlarne. Alleggerirsi, far conoscere una storia simile, ma diversa a tante altre. Simile, cominciata da una fuga. Dalla miseria, dalla guerra, dalle persecuzioni. Diversa, scandita da episodi drammatici. Da un grilletto puntato, colpi di fucile, la prigionia, le torture, il ricatto.

Ma la storia, lo convinciamo, la racconta lo stesso. Per scelta non dà enfasi, vorrebbe scordarsene il più presto possibile. Qualche passo indietro, forse, non aiuta a liberarsi da un peso; è come se puntasse un dito su una piaga quasi impossibile da rimarginare. Le cose che ci racconta, gli diciamo, vanno invece scritte, segnalate lo stesso. Aiutano anche gli altri a conoscersi meglio. Servono ad accorciare le distanze con i residenti, per esempio, talvolta sospettosi senza una precisa ragione.

La parola “integrazione” passa anche da una storia, una delle tante, che hanno lo scopo di accorciare le distanze. Anche mentali, se ci fossero ancora riserve nei confronti di chi chiede asilo, fugge da guerra e prigionia, vuole assaporare l’immenso piacere di un’altra parola-chiave che accompagna questa gente in cerca di un futuro finalmente sereno: “libertà”.

Non un’altra, questa storia

Dunque, una chiacchierata, una delle tante. Seduti a un tavolo, con uno, due mediatori a spiegare che parlarne fa bene. A qualcuno verrebbe in mente di dire: «Va bene, non vuole parlarne: lasciamo stare, troviamo un altro, storie da raccontare ce ne sono e tante anche!». Qui, invece, scatta un fattore diverso. L’insistenza. Una storia che non vuole essere raccontata, insegnano anziani cronisti, è una storia che invece va marcata stretta, presidiata, raccontata. Bisogna entrare in ogni piega, sono quelle alla fine che insegnano tanto.

Giovane, una ventina di anni, arriva dal Senegal. «Scappato da un campo di prigionia, ostaggio di banditi senza scrupoli, in Libia – ricorda tenendo il capo basso, quasi voglia sfuggire a espressioni di stupore quando attacca con i dettagli – lì accadevano cose che solo ricordarle provocano dolore, anche fisico: riportano alla memoria umiliazioni di ogni genere, giorni e giorni a pane e acqua; una intera giornata con un tozzo di pane, scorza e mollica; e acqua, non quella di un normale rubinetto, ma quella del bagno…».

Il dramma con cui convive in quei giorni, quelle settimane. «Non sapere che fine possa fare – dice – ogni giorno sembra quello fatale, l’ultimo della tua vita: ho visto partire fucilate per mille motivi, sempre uno più strano e disonesto dell’altro, l’idea che ti fai in quei momenti è che tu sia un niente, meno che zero: non sei un essere umano, sei una risorsa, forse; chiedono soldi, se non puoi pagare, allora ti fanno lavorare duro, da mattina a sera, fino a spezzarti la schiena e stancarti così tanto da toglierti anche la forza di pensare per trovare una via di fuga e riappropriarti della tua vita e, se possibile, della libertà».

Un viaggio infinito e un sogno

Un viaggio durato tanto. «Un anno – racconta – partendo dal Senegal, dove sono rimasti moglie e figlio, con i quali voglio ricongiungermi; nel mio villaggio continue persecuzioni e violenza, la gente che veniva torturata e uccisa sotto i miei occhi e altrove era lo stesso: l’unica alternativa era fuggire, per me stesso, ma anche per la mia piccola famiglia; partito dal Senegal, Africa del Sud, sono passato attraverso Mali, Niger e Libia, dove sono stato imprigionato due volte: la mia e quella dei miei compagni è stata una vita di fughe, dalla povertà e dalla miseria, dalla violenza e dallo sfruttamento».

Una vita non facile fin da bambino. «A nove anni sudavo in una conceria, lavoravo le pelli e a un telaio per confezionare maglie insieme a tanti altri bambini come me: la paga, un pezzo di pane e una bocca in meno da sfamare per papà e mamma, persa giovanissima». Riabbraccerà moglie e figlio quando avrà trovato un lavoro. Per ora ha un sogno. «Lavorare, tanto – conclude – il lavoro sodo non mi spaventa, ho muscoli, tanta forza da scaricare con la tanta rabbia che ho ancora dentro: mettere insieme risparmi, comprare le attrezzature per confezionare maglie e mettermi in proprio; vero che il lavoro mi ha spezzato la schiena, ma quella voglia di creare e vestire la gente è rimasta la stessa».