Lucky, venti anni, nigeriano

«Mia moglie, incinta, morta durante il viaggio della speranza. L’avevo anticipata nella traversata. Poi una telefonata: problemi al gommone, è stata ingoiata dal mare assieme a decine di persone. Di lei mi resta John, tre anni, unica ragione della mia vita. In fuga da sortilegi e accuse infamanti, esorcismi e torture» 

«Mia moglie, incinta del nostro secondogenito, è morta in mare, durante il viaggio della speranza!». Lucky, nigeriano di Deta State, venti anni, ospite del Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”, si lascia andare in un pianto senza fine. Una storia tragica la sua. La giovane moglie, una creatura in grembo, perde la vita durante la traversata. I due, marito e moglie, si imbarcano in giorni diversi. Lei, in Libia, resta ostaggio di taglieggiatori, quando Lucky, aiutato dal padre di un amico, si imbarca per l’Italia. Porta con sé altre storie, violente anche quelle, da cui prova a fuggire insieme a quel poco che ha. Violenze, accuse infamanti, torture, imposizioni agghiaccianti.

Singhiozza Lucky. Con le mani copre il viso e la disperazione della quale non deve vergognarsi. «Problemi!», aveva anticipato l’uomo del gommone sul quale viaggiava Blessing, diciannove anni, con in grembo il fratellino di John, primogenito della famiglia Ibeh, tre anni, rimasto con lo zio in Africa.

Sperava un futuro migliore, Lucky, paradossalmente in italiano “fortuna”, per sé e per la sua famigliola. Il giovane nigeriano aveva sentito parlare di Italia, guardava alla terra separata da una interminabile distesa di mare, come a un’esplosione di gioia e libertà insieme. Invece, il dramma, dopo una fuga durata mesi, e una telefonata che mai avrebbe voluto sentire. «Problemi». E’ la seconda parola che i ragazzi venuti dall’Africa imparano a loro spese. La prima è «Amico», come a dire «Vengo in pace, aiutami!». Quel «problemi», fa palpitare il cuore e l’anima. Non porta mai niente di buono. Malattie, decessi, documentazioni che si complicano. I ragazzi africani ospiti dei Centri di accoglienza, temono come nessuna questa parola. Nella vita di Lucky, un brutto giorno, quell’espressione che mette paura, arriva dritta allo stomaco con violenza inaudita. «Chiama un mio compagno di fuga, che mi passa il cellulare: “Ho avuto un problema con la barca, non so come dirtelo…”, mi sento dire; un lungo silenzio, indimenticabile; strana la vita: ricordi una frase, un’espressione, un posto, una persona, bella o brutta che sia, ma un silenzio no, come fai a dargli un senso; non ci avevo pensato fino a quel momento, poi l’uomo della barca trova coraggio e fiato: “Tua moglie non c’è più; scomparsa in mare, insieme con decine di altre persone, una tragedia!”, il breve racconto, il peggiore che abbia mai sentito fin da piccolo;  la mia famiglia non c’è più: di Blessing mi resta il solo John che ora ho voglia di riabbracciare al più presto».

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UN PIANTO A DIROTTO, POI IL RACCONTO

Aprirsi con qualcuno, raccontando questo e altro, lo aiuta. «Una storia lunga la mia – chiarisce Lucky – è il contrario di un romanzo a lieto fine: della mia famiglia mi resta una sorella e il mio piccolo John; mio padre e mia madre non ci sono più». Anche i genitori scomparsi in circostanze drammatiche. «Mamma dopo una lunga malattia, incurabile come tante malattie che in Paesi civili si possono curare come si fa con una pillola per il mal di testa; papà morto in un incidente, secondo me provocato da chi ci voleva male, tanto che provano ad addossarmi le colpe di quello che si rivela un omicidio; nel mio, come in tanti villaggi, si vive ancora di credenze popolari e sortilegi, misture e veleni, esorcismi: tutto questo l’ho sempre disconosciuto, roba antica, vecchie usanze; quando mamma è morta hanno provato ad obbligarmi a dormire accanto al suo cadavere per giorni: “Non è normale una cosa del genere!”, ripetevo a questi “stregoni”: dormire per giorni accanto a un corpo che invece andava seppellito, la trovavo una cosa folle: al mio rifiuto rispondono con violenza inaudita, vengo frustato e picchiato, dicono che questa sia la punizione per chi pecca, si oppone al volere dello stregone, una specie di capo del villaggio, inaudito!».

Per questa e altre ragioni, Lucky scappa, prende moglie e figliolo e va via, aiutato da uno zio al quale più avanti lascerà in custodia il piccolo John. «Non c’è altra soluzione, fuggo allora con mia moglie, arriviamo in Libia, veniamo fermati da gente priva di scrupoli: sanno che non vogliamo restare lì, il nostro scopo è arrivare almeno in Italia, così occorrono soldi e l’unico modo per farli è lavorare nei campi: restiamo ostaggio di questa gente armata fino ai denti, pistole, fucili, coltelli; sette mesi di lavoro, i miei soldi servono a pagare affitto, cibo e viaggio: il primo a partire sono io, poi toccherà a mia moglie, che lavora ancora nei campi nonostante sia incinta; prima di partire la saluto, versiamo qualche lacrima, ma ci riprendiamo subito: questione di settimane – pensiamo in quel momento – poi la nostra vita cambierà; invece è l’ultima volta che vedo la mia Blessing…».

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MI RESTA JOHN, VOGLIO RIABBRACCIARLO PRESTO 

Un dolore immenso. «Mi sono imbarcato su un gommone – riprende il racconto Lucky – con decine e decine di miei connazionali, sembravamo una scatola di sardine tanto eravamo stretti uno all’altro: in mare aperto cominciamo a rivolgere le nostre preghiere al Cielo; veniamo ascoltati, in lontananza scorgiamo una nave, ci sbracciamo, urliamo, salvi!».

In Italia da pochi giorni, Lucky trova la forza di pensare a come possa essere il suo futuro. «Vorrei restare qui, dal primo giorno sono stato trattato bene, assistito in tutto, vorrei ricambiare queste attenzioni con il lavoro: nel mio villaggio mi occupavo di lavori idraulici, pitturazione e altri lavori manuali; ho lavorato anche nei campi spezzandomi la schiena, ripagato con minacce, botte e frustate, niente mi fa paura».

Uno sguardo al futuro, immediato. «Sono appena arrivato – conclude Lucky – sento la necessità di gettarmi sui libri e studiare, imparare l’italiano, presto; ho una licenza media, ma devo fare gli esami perché, se sarà possibile, il prossimo anno scolastico voglio sedermi fra i banchi: devo riprendere a pensare al futuro, al mio John che sentirò a breve, glielo devo, è questo che avrebbe voluto la mia Blessing che sognava per noi e i nostri piccoli una vita migliore».