Luigi Garlando, giornalista della Gazzetta dello sport
«Una volta il contatto con i campioni, ingenuo se vogliamo, era più bello. Con il pretesto dei “profili”, invece di avvicinare, i calciatori allontanano i tifosi. Ma anche questi, che invadenza con i selfie. Più romantico chiedere un autografo». Ripubblicato “L’amore ai tempi di Pablito”, Rossi, i sei gol nel Mundial del 1982, la scommessa di Enzo Bearzot.
Per una volta, ospite di Costruiamo Insieme, sito e canale youtube, lo sport. Quello con la “s” maiuscola, ci verrebbe da dire, considerando Luigi Garlando, prima firma della Gazzetta dello sport, il quotidiano sportivo più letto, uno dei migliori autori delle cronache di calcio, una volta squisitamente domenicali. E’ cambiato il calcio, c’è lo “spezzatino”, partite tutti i giorni e a tutte le ore, perché la tv faccia cassa e spalmi il divertimento un tempo sostanziato nella schedina del Tototalcio, la domenica pomeriggio con tutte le gare alla stessa ora. Oggi, quella schedina del Totocalcio, che ti risolveva la vita, come suggeriva Fabrizi a Totò ne “I Tartassati” (“…un sistema ci sarebbe: tre fisse e dieci multiple”), non esiste più: cancellato. Dunque, Luigi Garlando. Giornalista e scrittore, centinaia di articoli e analisi delle gare della Nazionale azzurra e di punta di Champion’s e Campionato di serie A, trenta libri dati alle stampe.
Ultimo della serie, appena ristampato, “L’amore ai tempi di Pablito”. Un tributo a un grande del calcio, Paolo Rossi, nel quale l’autore racconta la vittoria degli azzurri ai Mondiali di calcio del 1982.
«Il motivo della ristampa: la scomparsa prematura di Paolo Rossi, per ricordare la figura, splendida, di un campione e i “ragazzi” che circa quarant’anni fa compirono quell’impresa».
Il tuo sentimento alla scomparsa di Pablito.
«Di grande dolore. Spesso ci siamo trovati in viaggio, lui in veste di commentatore della Nazionale: chiacchieravamo di calcio e altro, una persona deliziosa. Quel Mondiale credo debba essere ricordato in questa forma letteraria, con il codice del romanzo, un romanzo d’amore; in mezzo, la scommessa assurda, irrazionale, che fece l’allora allenatore della Nazionale, Enzo Bearzot, proprio su Rossi: non porti con te un giocatore che ha fatto tre partite e un solo gol nell’ultima stagione e lasci a casa il capocannoniere del campionato, Roberto Pruzzo. Non era mai successo e mai succederà: quella scommessa d’amore di Bearzot, fu poi ricambiata da Pablito che segnò sei gol regalandoci la Coppa del Mondo».Avevi vent’anni all’epoca, che ricordo hai?
«I vent’anni, l’entusiasmo e la spensieratezza dell’età, che coincidono con un Mondiale vinto è il massimo: lo seguivo in tv, da casa mia, ricordo in particolare il lunedì al Sarrià di Barcellona, Italia-Brasile 3-2; i “miei” avevano un negozio di generi alimentari e liquori, quel giorno andarono a fare la spesa nei magazzini all’ingrosso per rifornire l’attività; avrei dovuto aprire il negozio alle quattro del pomeriggio, ma non ebbi il coraggio di lasciare gli azzurri da soli: mi godetti la storica tripletta di Paolo Rossi, una delle più grandi emozioni calcistiche della mia vita. Quando tornarono dal loro giro di commissioni, papà e mamma trovarono una fila di persone imbufalite: papà, più comprensivo, capì che tenere chiuso il negozio per quella partita poteva starci, in realtà era stata la vera finale di quel Mondiale…».
Cosa è cambiato nel calcio in questi ultimi quarant’anni?
«Difficile farlo in breve. Intanto è cambiata l’immagine del calciatore, anche fisicamente: una volta i ragazzi avevano facce e fisici normali, Rossi stesso era gracile; per scrivere questo libro ho rifatto il viaggio dell’82: sono andato a dormire negli alberghi di Vigo e Madrid, dove alloggiarono gli azzurri dalla prima fase a gironi alla finale; un albergo del porto nella capitale spagnola, piccolo, dove normalmente alloggiano i rappresentanti in viaggio; impensabile oggi che una Nazionale prenoti un alberghetto del genere. Era un calcio moderno rispetto al passato, ma ancora a misura d’uomo, non ancora staccato dalla gente; anche per i giornalisti c’era occasione di avere un rapporto diretto con i giocatori, mentre oggi quel mondo è finito».
A proposito, calciatori e stampa al tempo dei social?
«Oggi i social filtrano i rapporti, i calciatori hanno un social-manager che gli cura la comunicazione, apparentemente un modo per stare vicino alla gente quando in realtà questa modalità tiene i tifosi a distanza. Non c’è più quel rapporto che il giornalista riusciva a trasmettere al lettore, al pubblico, guardando il calciatore in faccia, parlandogli di persona. E’ tutto più mediatico, più freddo e, dunque, costruito: hanno avuto la meglio strategie di comunicazione e marketing; una volta, nei bianco e nero televisivi, assistevamo a divertenti tavolate con un bel fiasco di vino fra Gianni Brera e Nereo Rocco; oggi, cose simili, non ci sono più…».
Un segnale, sintesi fra il calcio di ieri e oggi.
«Ieri si cercava l’autografo, oggi si cerca il selfie da postare sempre su questi “benedetti” social. Questa modalità, per giunta, è come se ti autorizzasse ad aggredire il campione per farti una foto, manifestando una confidenza esagerata, talvolta invadente; una volta avvicinare un foglio di carta a un campione per un autografo era qualcosa di rispettoso, quasi imbarazzante, ingenuo, ma sicuramente più bello».La scrittura del cronista sportivo, com’è cambiata rispetto al passato?
«Devi quasi rinunciare alla cronaca, dare per scontato che chi avrà il giornale fra le mani il giorno dopo sa già cosa è successo, ha visto in tv, sul tablet e sul cellulare mille volte le azioni della gara a cui è interessato; dunque a chi fa questo lavoro tocca andare in profondità, non dire cosa è successo, ma perché è successo: il grande salto è quello; il nostro compito è dare un motivo al lettore perché acquisti il giornale. Perché trovi una spiegazione più profonda, tattica, psicologica, in buona sostanza qualcosa di più rispetto a quello che ha visto il giorno prima: divertire con il racconto. Ricordo, da ragazzino, andavo a cercare il racconto di Brera: leggevo qualcosa di diverso rispetto a quello che avevo visto; così con Gianni Mura, affascinato nel leggere le sue cronache da inviato ai Tour de France…».
Un calciatore, un tecnico, un presidente con cui hai avuto un confronto in qualche modo chiarificatore a seguito di un tuo articolo, un voto in pagella?
«Diciamo che il confronto è nella normalità, tutto resta confinato nella dialettica, non è un grosso problema. Forse le critiche che mossi all’Inter del dopo-triplete: per come era stata gestita la ricostruzione, o meglio la “non ricostruzione”, la riconferma forse esagerata dei campioni di quell’impresa, una riconoscenza umanamente legittima. Moratti non gradì molto…».
Fra la trentina di titoli, uno degli ultimi libri, “Va all’inferno, Dante!”. A cosa è dovuta questa passione, considerando che collezioni la “Divina commedia” in tutte le lingue?
«Risale all’università, due anni di corso in cui mi sono dedicato e appassionato a Dante; credo, poi, ci sia un’affinità di spirito, nel mio mestiere nelle analisi di fine gara amo sottolineare il lato epico, è la mia indole: mandare all’inferno o in paradiso i protagonisti di quell’epica cui ho appena assistito mi trova in perfetta sintonia con il Poeta…».
Dante sollecita una domanda. Invece della lavagna con buoni e cattivi, proviamo a fare tre nomi secchi del nostro calcio candidandoli, sorridendo, fra paradiso, purgatorio e inferno.
«Mantenendoci nell’attualità, paradiso a Ilicic dell’Atalanta: la sua è una storia bellissima, ha incarnato la sofferenza della sua città, Bergamo, come se quel dolore lui lo avesse sconfitto uscendo dalla sua “selva oscura” per giocare la sua ultima partita (Benevento-Atalanta, ndc) da paradiso…
Purgatorio, Pirlo, tecnico della Juventus. Arrivato a sedere sulla panchina della Signora senza aver fatto gavetta, che considero purgatorio: le anime devono stare lì prima di andare in paradiso; Andrea, grande giocatore, penso abbia bisogno di tempo, fiducia, qualcosa di buono l’ha fatto già vedere, lo lasciamo un po’ lì a galleggiare, non chiamiamolo ancora “maestro”, poi vedremo se da allenatore guadagnerà in termini di valore quello che da calciatore ha ampiamente meritato…».All’inferno?
«Mi duole, ma anche per motivi di affetto dico Mario Balotelli. Per avere sperperato il suo talento e non per le cose che fa fuori dal campo, liberissimo di farle; non aver mai avuto l’ambizione di valorizzare fino in fondo il suo talento, credo sia imperdonabile: ecco, questo spreco credo che, metaforicamente, meriti l’inferno. Una volta Adriano Galliani, ex amministratore delegato del Milan, disse che fra le prime dieci cose che ama Balotelli non c’è il calcio: credo non ci sia fotografia migliore. Mario, purtroppo, ha usato il calcio come fosse un bancomat, per spendere un milione di euro all’anno per i suoi divertimenti; avesse avuto la testa di Pippo Inzaghi, l’ambizione feroce di diventare Pallone d’oro, oggi avremmo ancora un gran centravanti».
Un breve giudizio sulle principali squadre del calcio italiano, Milan, Inter e Juventus.
«Il Milan è il Diavolo in paradiso, nel senso che ha azzeccato tutto: un allenatore con un progetto tattico eccezionale, una squadra riconoscibile per come gioca, i giovani e i “nuovi” che si sono inseriti in fretta; una società che ha sconfessato se stessa, dando dimostrazione di buon senso, cambiando idea e rinunciando a un nuovo tecnico, Ragnick, confermando Pioli: non è così semplice; Maldini sta facendo benissimo, sta andando tutto bene, con questo non voglio dire che vincerà lo scudetto, ma ha un entusiasmo che altre società non hanno.
L’Inter è deludente, non solo per i risultati e per essere uscita da due competizioni in un colpo solo, Champion’s ed Europa League; è stato un fallimento anche dal punto di vista economico, in un momento in cui la società sta avendo problemi di liquidità quei diritti televisivi milionari le avrebbero fatto comodo; deludente anche sul piano del gioco, fa fatica nel crescere, non le è riuscito l’innesto di Eriksen che avrebbe potuto dare qualcosa in più; consola la posizione in classifica trovandosi ancora in alto, però credo fosse legittimo aspettarsi qualcosa di più.
La Juventus è come il Pirlo di cui si diceva. E’ purgatorio, quest’anno per la prima volta ha vinto tre partite consecutive, ma non ha risolto tutti i problemi. A centrocampo concede ancora troppo agli avversari, gli equilibri non sono ancora a posto, dipende ancora troppo da Cristiano Ronaldo, anche lui in calo: quando non gira lui i bianconeri hanno sempre bisogno di un eroe. Nel Milan, uscito Ibrahimovic non se n’è accorto nessuno. La Juventus è ancora una squadra di individualità e le manca il gioco».
Per finire, quanto mancano piazze storiche come Taranto, Lecce, Brindisi, Bari, Foggia? Quanto manca la Puglia a chi scrive di sport?
«Tanto, egoisticamente anche per ragioni turistiche. Manca la Puglia, il Sud in genere, la Sicilia, per dire: una trasferta al Sud è sempre piacevole, però al di là del discorso egoistico personale, al calcio da copertina manca la passionalità, il calore del pubblico del Sud. Sento parlare da tempo di un progetto di un supercampionato europeo, una sorta di superchampions: al solo pensiero che questo tagli fuori la provincia italiana, inorridisco: il campionato deve restare quello dei campanili, coprire il più possibile tutta la Penisola; un torneo rappresentato più o meno da tutte le regioni per me resta il campionato ideale. Già vedere gli stadi vuoti è un incubo, ogni volta che assisto a una partita è una sofferenza. Spero si riesca presto a ritrovare questa cornice, che poi è la migliore che il calcio possa regalare a se stesso».