Ali, pakistano, ventuno anni, aiuto cuoco con “Costruiamo Insieme”
«Devo tutto alla cooperativa, sfuggito da persecuzioni e vivo per miracolo, per nove mesi ho vagato fra Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia e Slovenia. Gli zingari serbi, il rifugio nei boschi, il lavoro, cosa significa “vivere”!»
«Rifugiarsi in un bosco per giorni per sfuggire a bande di zingari serbi senza scrupoli e, oggi, trovarmi con un lavoro, una casa in cui dormire sereno, è come avere incontrato il destino, avergli invocato aiuto e realizzato un sogno!».
Ali, ventuno anni, pakistano, in una sola battuta racconta la sua storia. Il passaggio avventuroso, pericoloso, attraverso Paesi, stranieri che ti tendevano la mano e altri che, per bene che ti andasse, ti svuotavano le tasche, ti davano sonore bastonate e ti lasciavano andare via. E’ una storia, triste, quella di Ali, che lui racconta solo perché a lieto fine. «Ne avrei fatto volentieri a meno, se invece non ci fosse stata “Costruiamo Insieme” nel mio destino, una sorte benevola rispetto a quello che mi è accaduto nei primi nove mesi di fuga dal mio Paese, il Pakistan».
Motivo della fuga. «Solito, uguale a quello di tanti altri: ci sono scontri fra gruppi etnici, nei conflitti senza esclusione di colpi vale tutto, ma davvero tutto: un esempio, se ti vogliono male la gente è capace in un solo attimo di produrre prove false, a denunciarti e, in nome di una giustizia che a certi livelli non esiste, di perseguitarti e farti male, non solo a parole».Non c’è giustizia. «Ci sarebbe, ma è lenta, magari ad amministrarla, quella giustizia, c’è l’amico dell’amico che ha il potere di rovinare chiunque; la giustizia vera, quella fatta di inchieste e di mettere in galera chi produce prove false, ti ricatta, ti picchia, credendo di essere impunito, ce n’è poca: e, allora, un bel giorno comprendi che non ne puoi davvero più e sfidando anche l’affetto dei tuoi familiari che non vorrebbero lasciarti andare via, segui l’esempio di tuo fratello: fuggi. Provi a lasciarti alle spalle tutto quello che c’è di marcio e corri; scappi il più possibile, lasci alle tue spalle migliaia di chilometri».
Meglio fuggire, senza prospettive, sfidare il pericolo, che non restare nel proprio Paese ad attendere che qualcuno si accorga di te e cominci a farti del male. «Proprio così, esiste gente così cattiva che pensa alla bella vita senza preoccuparsi che il suo benessere passi attraverso il dolore degli altri: un giorno qualcuno ti osserva una prima volta, la seconda volta che ti incontra, per lui diventi una risorsa, qualcuno da spremere se non vuoi passare i guai per il resto dei tuoi giorni».
Ali, una volta maggiorenne, comprende che la vita, il dono più grande che il suo dio può avergli dato, non è quella. «Non è fatta solo di sofferenza – dice – perché c’è anche quella, ma pure di momenti di serenità: quando esiste solo il dolore, quella che stai vivendo non è vita, è un’altra cosa; non conta più nemmeno che i tuoi familiari ti dicano di restare perché prima o poi tutto si aggiusterà: non ci sono alternative alla fuga, quando ti perseguitano, quasi si facessero beffe di te e di quella giustizia lenta, se non proprio amministrata da gente priva di scrupoli che aiuta il più ricco per ridurti a qualcosa che somigli più a un animale da soma, non ti resta che scappare».Quanto dura l’odissea di Ali. «Nove mesi. Ora, provate a pensarvi solo per un attimo, a piedi, uno zainetto in spalla, senza una meta precisa, a salire e scendere colline, scalare montagne, calpestare pietre e attraversare boschi infiniti, di giorno e di notte, al freddo e sotto la pioggia; e non un solo giorno, ma settimane, mesi. E io ho attraversato una decina di Paesi, con il pericolo, reale, che qualcuno si prendesse quello che era rimasto della mia vita: Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia, infine Italia…». Da un pericolo all’altro. «I serbi sono pericolosi: non mi riferisco ai militari, ma alle bande di zingari, quelli armati fino ai denti che se non gli garba come li stai guardando ti piantano quattro dita di coltello nel cuore: allora, che fai, davanti a loro ti svuoti servilmente le tasche di quei tuoi pochi averi e ringrazi anche questi malviventi per averti risparmiato la vita. Quando racconto a qualcuno questi episodi mi guarda come se stessi venendo da un altro pianeta».
Gli affetti, i familiari. «Ho un fratello e una sorella, papà, mamma e nonno, con cui mi tengo in costante contatto, anche con videochiamate: il mio obiettivo era quello di arrivare possibilmente in Italia e fare lo stesso percorso di mio fratello: lui ha cominciato a Milano, distribuiva volantini e lavorava nel retrobottega di un ristorante; nel tempo libero – quando cioè non dormiva – arrotondava con altri lavori. Una volta in Italia, dove risiedo da un anno, è andata meglio: ho fatto un corso, affiancato un cuoco che oggi aiuto in cucina nel preparare pasti per gli ospiti del nostro Centro di accoglienza; grazie al lavoro che mi ha dato la cooperativa oggi vivo in fitto, ho scacciato insonnia e tutti quei cattivi pensieri che mi hanno accompagnato per quei nove interminabili mesi. Non esagero se dico che da quando lavoro per “Costruiamo Insieme” è come se avessi cominciato una seconda vita». Ali, finalmente. «Finalmente sì, ogni giorno che passa provo ad allontanarmi da quei ricordi avvicinandomi a passi veloci all’idea che ho sempre avuto della vita: lavorare, spendersi per gli altri per vivere finalmente sereni, con il sorriso sulle labbra del quale non ne conoscevo l’esistenza».