Il primo cittadino di Monfalcone dichiara “guerra” alle donne musulmane
«Il comportamento degli stranieri musulmani che entrano abitualmente in acqua con i loro vestiti è inaccettabile», scrive nel suo documento. Risponde una sociologa: «La sindaca dice addirittura che sarebbe una questione di igiene andare al mare in costume: quindi vuol dire che le donne musulmane sono sporche? Questo è razzismo. Eccoci quindi ancora allo stereotipo dello straniero cattivo, brutto e sporco»
Le donne musulmane al mare, vestite con abiti tradizionali piuttosto che in costume da bagno, non sono gradite alla sindaca di Monfalcone, Anna Maria Cisint. La “prima cittadina” del comune a breve distanza da Gorizia, pare sia intransigente. Secondo un intervento rivolto attraverso gli organi di informazione, il fatto che donne musulmane facciano il bagno nei lidi di Monfalcone non sarebbe in perfetta sintonia con “usi e costumi” locali.
Diciamo che la signora Cisint, forse, ha un po’ esagerato. Ci mettiamo anche di mezzo il lavoro di cronisti e giornalisti che l’estate, caldo a parte, non hanno lo stesso numero di argomenti leggeri ma di interesse generale con i quali aprire un giornale o un sito.
Si sa, l’estate i giornali più sfogliati – dire “letti” sarebbe un’offesa a chi ne fa una scorta o li adocchia dal parrucchiere – sono le riviste di gossip; uno strappo ai settimanali dalla grande tradizione e poi, i cruciverba a go-go, a cominciare dalla Settimana enigmistica, fra tutti – ma non vuole essere uno spot pubblicitario – il più sano di tutti e senza un briciolo di pubblicità.
Dunque, la sindaca chiama, l’opinione pubblica risponde. La Giunta di Monfalcone sostiene la massima espressione cittadina, il resto pone l’argomento al centro del dibattito. Di più, uno dei giornali più attenti e risoluti, “Donna Moderna”, va a fondo. Tanto che una delle sue redattrici, Barbara Rachetti, in un articolo pubblicato da “Donna Moderna News”, riprende e sostiene le riflessioni Sumaya Abdel Qader, una delle fondatrici dei Giovani Musulmani d’Italia, sociologa e ricercatrice, mamma di tre figli, speaker e scrittrice (“Quello che abbiamo in testa” il suo ultimo titolo in libreria).
SINDACA “SCONCERTATA”
Nel documento a firma di Anna Maria Cisint e raccolto dalle agenzie, fra queste l’AGI, leggiamo che «il comportamento degli stranieri musulmani che entrano abitualmente in acqua con i loro vestiti sarebbe inaccettabile: una pratica che sta determinando sconcerto nei tanti bagnanti e in coloro che affollano le spiagge di Marina Julia e Marina Nova e che crea insopportabili conseguenze dal punto di vista della salvaguardia del decoro di questi luoghi, apprezzati per la cura, l’attenzione e la pulizia che li caratterizzano».
E già qui, la sindaca dovrebbe spiegarci dove risiede il decoro in quanto non esisterebbe qualcosa corrispondente al “bon ton” licenziato a suo tempo da Lina Sotis. Vanno bene i due pezzi, il pezzo singolo, i bikini per le donne, gli slip o i pantaloncini per i maschietti desiderosi di mostrare i progressi della dieta primaverile? Fosse il contrario, forse, e sottolineiamo tanto così il “forse”, potremmo essere d’accordo: in spiaggia da un po’ osserviamo costumi da bagno che non sono proprio in linea con il decoro: uomini e donne, maschietti e femminucce, nonostante il numero elevato di bambini fra ombrelloni, battigie e acqua, indossano fili interdentali. Magari, quello fa più decoro di una donna con “vestiti musulmani”.
La Cisint promuove, e noi condividiamo, che «la spiaggia di Marina Julia in questi anni è diventata uno degli arenili più apprezzati della regione». Subito dopo la perdiamo dalle mani, scrive cose francamente indifendibili. State a sentire: «chi viene da realtà diverse dalla nostra ha l’obbligo di rispettare le regole e i costumi che vigono nel contesto italiano e locale. Non possono essere accettate forme di “islamizzazione” del nostro territorio, che estendono pratiche di dubbia valenza dal punto di vista del decoro e dell’igiene, generando il capovolgimento di ogni regola di convivenza sociale». Islamizzazione, pratiche di dubbia valenza, decoro, igiene, capovolgimento delle regole? Sindaca, nonostante il massimo impegno – ma sarà un nostro limite – non la seguiamo più.
DICASI “COSTUME DA BAGNO”
Siccome abbiamo il senso del rispetto, riportiamo anche il resto del suo intervento. Ne ha facoltà. «Per le evidenti ragioni di rispetto del decoro richiesto nei comportamenti di chi si reca in questi luoghi – conclude la sindaca – ritengo la pratica di accedere sull’arenile e in acqua con abbigliamenti diversi dai costumi da bagno debba cessare e intendo applicare questi principi con un apposito provvedimento a tutela dell’interesse generale della città e dei nostri concittadini».
Abbigliamenti diversi dai “costumi da bagno”. Ma lo sa che la definizione di costume da bagno, definito anche “vestiario acquatico”, consiste nella seguente spiegazione? Dunque, “Dicasi “costume da bagno”, un particolare capo d’abbigliamento, solitamente indossato per nuotare o per praticare degli sport acquatici: in commercio ne esistono numerosi modelli che differiscono anche in base al sesso e all’età della persona che li indossa”. Altre indicazioni, sulle dimensioni, sui centimetri o metri di stoffa da utilizzare, non sono riportati. Dunque? Riparliamone. Ma non prima di aver ospitato due battute raccolte da Barbara Rachetti, in un articolo pubblicato da “Donna Moderna News”. Si tratta, si diceva, delle riflessioni Sumaya Abdel Qader, una delle fondatrici dei Giovani Musulmani d’Italia, sociologa e ricercatrice.
Ma davvero stare vestite al mare è una questione di decoro? «Che regola lo dice? Chi lo decide? E si può imporre alle donne di spogliarsi? Sarebbe lo stesso che imporre loro di vestirsi», l’opinione di Sumaya Abdel Qader.
SALVAGUARDIA DELLA LIBERTA’ FEMMINILE?
«La sindaca ha dichiarato – riprende la sociologa – che il suo provvedimento sarebbe a salvaguardia della libertà femminile, ma su che basi sostiene che le donne musulmane in Italia sarebbero segregate? E poi attenzione: le scollature e gli abiti cortissimi secondo l’Occidente sono espressione di libertà, ma possono esserlo come possono essere sessualizzazione e oggettificazione del corpo femminile. Quando parliamo di libertà, perché si cerca di imporre sempre la visione occidentale?».
E poi. «Nella maggior parte del mondo donne e uomini vanno al mare vestiti. In Australia si vedono sempre più maniche lunghe per proteggersi dal sole, ma anche in America molte donne scelgono di non esibirsi. In Cina nessuna usa il costume, addirittura le donne asiatiche si coprono il viso con la “facekini”, una maschera anti sole per tutelare la chiarezza della pelle. Eppure nessuno dice niente. Invece le donne musulmane darebbero fastidio».
Vestiti al mare minaccerebbe l’igiene. «La sindaca dice addirittura che sarebbe una questione di igiene andare al mare in costume: quindi vuol dire che le donne musulmane sono sporche? Questo è razzismo. Eccoci quindi ancora allo stereotipo dello straniero cattivo, brutto e sporco».
«Oggi anche in Italia moltissime ragazze musulmane – conclude Sumaya Abdel Qader – studiano e si laureano: abbiamo chirurghe, primarie ospedaliere, ingegnere, psichiatre. E poi più dei coetanei maschi, si candidano in politica, proprio per cambiare la realtà. Molti centri e gruppi soprattutto di giovani si stanno occupando di lottare contro la segregazione femminile».