Flavio Oreglio, ospite di “Costruiamo Insieme”
Il popolare artista di Zelig racconta l’apertura della rassegna “Cabaret al Tarentum”. «In tv ho fatto qualcosa che somigliasse a quel genere di spettacolo. Fare il comico è un’altra cosa, ci sono artisti che vengono dal varietà. Provo a parlare alla testa della gente, non alla pancia».
Flavio Oreglio, noto al Derby quanto a Zelig, il programma televisivo che ha imposto le sue poesie catartiche. E’ stato il primo ospite della rassegna “Cabaret al Tarentum” sostenuta da “Costruiamo Insieme”. Otto artisti in tutto, una volta al mese, la domenica alle sette di sera, lontano dai fischi dei campi di calcio. Unico sistema perché le famiglie, tutte, possano fiondarsi nell’auditorium di via Regina Elena nel quale Renato Forte, direttore artistico del cartellone con l’associazione “Angela Casavola”, ha concentrato talenti collaudati e nuovi della risata.
Dunque, Flavio Oreglio, il Derby, Zelig.
«Ho avuto la possibilità di fare un provino al Derby, ai tempi in cui era ancora il locale del cabaret: fui scartato, davvero, ma non mi arresi. Dunque, debuttai, una sera, poco dopo il locale chiuse: problema cronologico, aveva evidentemente fatto il suo tempo, non un motivo causa-effetto».
Cabaret, vivo e vegeto?
«Il cabaret è vivo e vegeto, però bisogna sapere dove andare a vederlo. Il problema più grosso è confondere – come accade da quarant’anni a questa parte – il cabaret con la comicità: i comici non appartengono al mondo del cabaret; con il cabaret si ride, certo, ma è la dimostrazione che non bisogna essere comici per far ridere».
Come si sopravvive a una tv mordi e fuggi?
«Il cabaret non si può fare in tv, puoi fare qualcosa che gli assomigli: la sua caratteristica sta nell’essere libero di fare e dire ciò che ti passa per la testa e in questo la tv è un filtro».
Il cabarettista, dunque, non è un comico.
«Faccio un esempio, Giorgio Gaber: era esilarante, ma solo un idiota potrebbe affermare che Gaber fosse un comico; Stanlio e Ollio erano due comici, grandissimi; la cosa importante – quando si fanno questi ragionamenti – non è lo stabilire quale artista sia di serie A e quale di serie B: facciamo un distinguo fra varietà e cabaret. Sono due mondi differenti: i comici appartengono soprattutto a quello del varietà; nel cabaret si ride in maniera diversa: la risata come scopo e la risata come strumento. Esistono artisti che raccontano per far ridere e artisti che fanno ridere per raccontare».“L’Arte ribelle”, il libro sul “Derby” di Milano, duecentocinquanta pagine.
«Lavoro a questo progetto da più di venti anni. Ho scoperto che non esisteva uno studio sull’argomento. Dunque, “L’arte ribelle” nasce da una domanda fra amici che facevano lo stesso mestiere: “Cos’è il cabaret?”. La caratteristica che scaturiva da quelle discussioni era sistematicamente un’idea differente di cosa fosse il cabaret. Così per dare il senso di qualcosa di definito ho fatto ricerche, studiato, letto libri, consultato enciclopedie.
Mi sono informato su libri francesi, tedeschi, inglesi e altre pubblicazioni europee, poi ho sentito alcuni dei protagonisti di un’epoca straordinaria: ho scoperto cose nascoste da farne una documentazione imponente. Il bello di questa opera? E’ che non è la mia opinione su quel tipo di spettacolo, ma una storia legata all’archivio storico del cabaret che ha sede a Peschiera Borromeo, cittadina nella quale vivo: l’Amministrazione locale mi ha dato uno spazio nel quale esporre tutto il materiale raccolto fino ad oggi. Storia è oggettiva, basata su documenti: in un solo colpo abbiamo tolto di mezzo il tormentone “per me il cabaret è…”».
Duecentocinquanta pagine, una definizione secca del cabaret, allora.
«E’ poesia, satira, umorismo, canzone d’autore».
Cosa ci fa un biologo nel cabaret?
«Dovevo fare il biologo e poi ho scoperto che il monologo rendeva di più: ho dimezzato gli sforzi e raddoppiato i guadagni…».
Esiste un sistema per creare subito empatia con il pubblico?
«Dire che l’ho codificata, questo no. E’ una cosa venuta spontaneamente nel corso degli anni: salgo sul palco e al pubblico parlo alla testa, piuttosto che alla pancia; con l’esperienza penso di essere diventato più naturale e meno costruito. Più passano gli anni, più mi viene facile rapportarmi con la platea».
I Gufi simbolo di quel cabaret, sono celebrati da un quartetto di recente fondazione: Oreglio, Alberto Patrucco, Davide Riondino e, udite udite, Roberto Brivio.
«Non è un omaggio ai Gufi, ma il recupero di un materiale straordinario appartenuto al gruppo del quale facevano parte lo stesso Brivio, Nanni Svampa – cui ho dedicato “L’Arte ribelle” – Lino Patruno e Gianni Magni: le loro canzoni in italiano – loro hanno recuperato la tradizione milanese, lombarda… – hanno dato vita ad opere di un’attualità impressionante; cantare le canzoni dei Gufi, oggi, significa cantare il presente: hanno una potenza descrittiva del sociale, del politico e di argomenti vari della vita, davvero sorprendente».