Moustafa, ivoriano, venti anni
«Un brutto incidente d’auto, muore il proprietario del mezzo sul quale lavoravo come fattorino, un’operazione non riuscita in un presidio sanitario pressoché inesistente, papà scomparso a causa di un tumore». In Italia dalla Costa d’Avorio, dopo un campo di prigionia in Libia, studiava da meccanico e carrozziere.
«Se sono stato picchiato appena arrivato in Libia? Certo, ma non stupitevi, essere oggetto di atti di violenza gratuita, lì, in quei posti, è la normalità».Moustafa, venti anni, arriva in Italia dalla Costa d’Avorio. «Avevo messo in conto che nel mio lungo viaggio verso la libertà – dice il giovane ivoriano – avrei potuto imbattermi in qualcuno che mi avrebbe picchiato, avrebbe potuto perfino mettere fine alla mia vita: era un rischio, però, che dovevo prendermi, le condizioni in cui vivevo erano sotto il livello di sopravvivenza».
Così, Moustafa, un giorno, bello o brutto che sia, lo stabiliranno le settimane, i mesi a seguire, fugge dalla Costa d’Avorio. «Alla fine me la sono cavata a buon mercato – confessa – certo, picchiato sono stato picchiato, pensavate che me la cavassi a buon mercato? Nei miei confronti c’è stata una certa comprensione, avevo problemi di salute e non infierivano tanto su di me, anche se il fatto che non stessi bene non mi risparmiava la quotidiana dose di spintoni e colpi ai fianchi con il calcio del fucile».
Furono i suoi occhi, ricorda Moustafa, a convincere i militari ad usare un trattamento diverso rispetto agli altri neri presi in ostaggio e sbattuti in “dentro”. «Non sono vere prigioni: sono capannoni, nella migliore delle ipotesi; nel mio caso, il posto in cui eravamo sorvegliati era un terreno con mura di cinta altissime che non avresti mai potuto scavalcare, nemmeno se fossi stato un campione di salto con l’asta». Oggi il ragazzo sorride, supera qualsiasi diffidenza. Si presta volentieri agli scatti di Paolo, l’autore delle foto a corredo del servizio. La sua storia, gli spieghiamo, sarà utile per raccontare la fuga di uno dei tanti ragazzi come lui verso la libertà.
Ospite del Centro di accoglienza straordinaria “Costruiamo Insieme”, Moustafa riprende a raccontarci la sua storia. «Ero debole a causa di un grave incidente di auto nel quale aveva perso la vita l’uomo per cui lavoravo in Costa d’Avorio; fui trasportato in un presidio sanitario nel quale fecero quanto nelle loro possibilità: non esistono attrezzature o professionalità nel campo della medicina; se hai soldi puoi permetterti il trasporto in un ospedale, una clinica e avere un’assistenza appropriata, anche se non è garantita la pronta guarigione; dunque, io ero abbandonato al mio destino, mi sottoposero a una operazione, non so nemmeno come, ma alla fine mi rimisero in sesto e dimisero dal presidio sanitario – chiamare “clinica” oppure “ospedale” le diverse strutture di fortuna esistenti, è una esagerazione – per loro andava già bene così: stavo meglio o comunque meno peggio di prima, pertanto secondo il loro punto di vista l’operazione era riuscita».
Non è dello stesso avviso Moustafa, che si muove in una sorta di moviola. Camminare, cammina. Ha dovuto, però, rinunciare a tirare due calci al pallone, come gran parte dei ragazzi della sua età. «Ma non mi importa, ciò che conta è la salute e, oggi, la libertà, il guardare al futuro con una buona dose di speranza; non avendo più un datore di lavoro con un mezzo proprio, è stato subito complicato trovare una nuova occupazione: facevo il fattorino, caricavo e scaricavo bagagli di gente che io e il conducente-proprietario del mezzo, accompagnavamo per centinaia di chilometri; persone interessate a viaggiare, per lavoro o intenzionate ad andare via, lontano dalla fame e da una politica che, per bene che potesse andargli, offriva solo svantaggi».
Moustafa ha l’aria matura. Accenna un sorriso. Raro vederlo ridere. Nemmeno quando accenni a un francese approssimativo, giusto per strappargli una risata. Niente, ti corregge con garbo, riprende a raccontarsi. «Oggi guardo alle mie spalle, ho un fratello più piccolo rimasto lì, in Costa, insieme con mia madre nel frattempo risposatasi: mio padre non c’è più, morto di tumore, anche lui scomparso a causa di un’assistenza sanitaria inesistente; provate a immaginare quanto possano costare cure e medicinali per un essere umano che ha scarse possibilità economiche: il suo destino è scritto, purtroppo».
Senza il sostegno economico del papà che si industriava come meglio poteva, il ragazzo ventenne ha dovuto anticipare la chiusura del suo ciclo di studi. «Studiavo la sera, volevo fare il meccanico, nel frattempo ho imparato anche l’arte del carrozziere – mostra sul cellulare un breve video di un’auto rimessa a nuovo – se dovessi restare qui, in Italia, non mi dispiacerebbe fare questo lavoro, ci sono tante auto qui; intanto ho preso una licenza media, un titolo di studio che possa aiutarmi a fare progressi nell’imparare a scrivere e leggere; prendo lezioni e appunti, studio e faccio corsi di alfabetizzazione presso il Centro di accoglienza straordinaria “Costruiamo Insieme”: imparo in fretta, voglio essere pronto a scrivere un nuovo capitolo della mia vita; se possibile trovare un lavoro, purché dignitoso, e mandare soldi a casa per fare studiare il mio fratellino rimasto in Costa d’Avorio».
Il viaggio per l’Italia, dalla Libia. «Non lo sapevo, potevo solo immaginarlo – conclude Moustafa – sarebbero potuti passare mesi, anni; nonostante problemi di salute facevo lo stesso lavoro degli altri: insieme con i miei compagni, alcuni anche connazionali, eravamo reclusi in un enorme recinto; tagliavamo erba per sfamare gli animali da cortile, di cui ci prendevamo cura; se non lavoravi come dicevano loro, i sorveglianti ti picchiavano: in cambio, un pasto al giorno, al mattino, e acqua salina, qualcosa di imbevibile. Per fortuna tutto è finito un bel giorno, evidentemente quei mesi di lavoro erano stati sufficienti a “pagarci” un viaggio di fortuna per l’Italia: imbarcato insieme ad altre decine di ragazzi sul solito gommone, in mare aperto siamo stati avvistati da una nave militare italiana; tutti a bordo per essere accompagnati a Trapani; da lì, viaggio a Taranto e fine della corsa. Adesso dipende solo da me riprendere a correre».