Yankouba, scappato dal Mali, intrappolato in Libia
«Picchiati senza motivo, costretti a lavorare in silenzio, anche per tre giorni di seguito senza toccare cibo. E poi i ragazzini, più crudeli di tutti, impugnavano fucili e sparavano alla schiena, come fosse un tiro al bersaglio!».
«Sei libero, puoi andare…». Un istante dopo, un colpo di fucile alla schiena, a distanza ravvicinata. Un poveretto giace steso, privo di vita, gli occhi rivolti al cielo. Yankouba, maliano, fede musulmana, così un giorno ci ha raccontato la sua storia. Senza tanti giri di parole. A che servono questi, se poi la sostanza è una sola: la vita appesa a un sottile filo, quello di un ragazzetto senza scrupoli che ha visto scene simili in un film violento, e d’improvviso ti pianta un proiettile in una spalla, senza pietà.
Tutto comincia con un incubo. «Zitto e lavora!». La manovalanza nei campi di raccolta è fatta di ragazzi di pelle nera rastrellati per strada, in Libia, per essere tradotti in uno stanzone di un edificio fatiscente. Porte enormi, solide, impossibile abbatterle. «Così robuste da scoraggiare a chiunque, sotto chiave – spiega Yan – venisse in mente l’idea di aprire uno di quei portoni e scappare ancora, come se la vita fosse una fuga continua».
Da un Paese all’altro. Quando pensi che possa tirare il fiato, ti tocca daccapo mettere gambe in spalla e correre. Fino a quando uno, due, dieci fucili non ti si spianano a un palmo dalla faccia.
La storia di Yankouba non è tanto diversa da quella di altri connazionali o amici per la pelle, nera, che i libici individuano con estrema facilità. Come fosse una mattanza, li accerchiano, li catturano, mai con le buone. Li spingono in spazi allo scoperto: cantine, edifici in disuso, masserie. Trascinati talvolta per i capelli, i ragazzi dormono in stalle, insieme alle bestie da accudire.
NON SOLO BOTTE…
«Ma è successo anche di peggio: non solo botte, anche intere giornate senza toccare cibo; c’era chi non reggeva questo ritmo, sveniva, pregava il Cielo che la tortura finisse, in un modo o nell’altro, che gli aguzzini si muovessero a compassione, gettando per strada i più deboli, oppure che mettessero fine a questa sofferenza, anche nel peggiore dei modi: un colpo di pistola o di fucile alla nuca».
Colpi di arma da fuoco. «Non sai mai da chi ti arriva – riprende il ragazzone maliano – militari o civili: girano tutti con armi in pugno; perfino i ragazzini, i più pericolosi di tutti, hanno in tasca una pistola: connazionali mi hanno raccontato di qualcosa come un gioco di società, “Se vuoi la libertà, scappa e non fermarti!”».
Trasformano degli esseri umani in bersagli, come fosse un tiro a segno, fatto di gare di precisione per il piacere di mettere fine a un cuore che batte. Miserabili assassini in erba che misurano le proprie capacità balistiche con la vita di coetanei che hanno la sola sfortuna di cercare una via di fuga dalle persecuzioni. Stabiliscono così una gerarchia: chi è il più bravo a colpire un bersaglio in movimento. Talvolta anche chi è il più crudele di tutti. «La Libia, non puoi evitarla, è la finestra che affaccia sul Mediterraneo e ci permette, a costo di rimetterci la pelle, di cominciare a pensare a una vita diversa, lontano da persecuzioni politiche e dalla fame».
Yankouba e un pezzetto della sua vita. «Agli italiani sarò grato a vita, riconoscente alla Marina italiana, che ha tratto in salvo me e decine di miei compagni in mare restituendoci di colpo alla vita!». Non è facile trovare le parole. Spiega a gesti, ingoia a vuoto, gli occhi lucidi. Gli fa male ricordare certi passaggi, ma ci prova, accetta di liberarsene, ma è come se avesse ancora un coltello piantato nel costato e qualcuno e lo torturasse ancora.
Alla fine Yankouba trova coraggio e parole. «Non ho potuto studiare nel mio Paese, non ne avevo le possibilità: mio padre è morto per malattia, dopo una lunga sofferenza, lasciando mamma, me e un fratellino; è anche per quest’ultimo che voglio trovare lavoro, qualsiasi esso sia, dopo la Libia sono disposto a enormi sacrifici: voglio guadagnare e spedire soldi a casa, questo voglio fare, perché il mio fratellino non passi attraverso la mia sofferenza».
ANCHE DOLORE E SOFFERENZA
Una malattia curabile, forse con una semplice vaccinazione e il papà di Yankouba non c’è più. Poche cure in Mali, ne sa qualcosa lo stesso “Yan”, vittima di una scarsa assistenza sanitaria. Ha una leggera zoppia. «I medici fanno quello che possono e chi non può pagarsi le cure, ha la vita segnata». Un episodio personale. «Anni fa sono stato vittima di un incidente: investito da un mezzo, mi hanno dato assistenza come potevano, poi mi hanno dimesso dall’ospedale nel quale ero stato trasportato; funziona così, ti rimettono in piedi come meglio possono, poi diventano affari tuoi. Zoppico un po’, forse con un secondo intervento riprenderei a camminare normalmente».
«Dovessi trovare un lavoro, uno qualsiasi, resterei volentieri qui: in Mali lavoravo nei campi, concimavo terreni, mi dedicavo al raccolto. Senza titolo di studio mi toccava fare qualsiasi cosa, ma non mi sono mai tirato indietro: vivere fra stenti e vessazioni, ho preferito andare via, magari crearmi un futuro, guadagnare poco, ma mettere da parte quel denaro da mandare a casa, per aiutare l’unico mio fratello, piccolo, a studiare: vorrei che la vita non fosse severa come è stata con me».
La Libia, un ritornello che torna in mente. «Dopo un viaggio fra difficoltà che non sto a ricordare, in quel Paese ho trascorso due mesi da dimenticare: fermato insieme a decine di fratelli neri, tutti al lavoro, a raccogliere olive, a spezzarci la schiena; poi, all’imbrunire, sorvegliati e reclusi in uno stanzone; un panino, nemmeno a parlarne, restavamo digiuni anche tre giorni di seguito; come se non fosse bastata la fuga dal mio Paese, due enormi porte ci impedivano di andare via, scappare; fino a quando un bel giorno ci siamo dati coraggio e abbiamo sfondato una delle due porte principali: non sapevamo neppure da che parte scappare, abbiamo solo seguito l’istinto».
Anche in Libia qualcuno dimostra di avere cuore. «Tre mesi di lavoro – spiega Yankouba – per ripagare un uomo che ci dava assistenza, ci sfamava e ci aveva promesso che avrebbe provveduto a trovare un gommone sul quale imbarcarci: così è stato, mare aperto, una nave italiana in lontananza, finalmente salvi!». Li raggiunge una nave Militare italiana che li conduce in porto, poi il viaggio verso il Centro di accoglienza.