Adriano, asso del calcio, invita alla riflessione
«Ero un idolo, ho bruciato guadagni e amicizie. Quando penso all’Italia mi assalgono nostalgia e rimorso. Ai ragazzi suggerisco di essere modesti, è l’unico sistema per continuare a ragionare. Tornassi indietro, forse…»
«Oggi è il tuo giorno, stupirai tutti!». Quel giovanotto di un metro e novanta, un fascio di muscoli, ha un sorriso contagioso. Viene dalla sofferenza, e con un collega lo incontro a Lecce, due volte. Una volta a maggio, qualche mese dopo ad ottobre. Gioca al calcio, è diventato una star. In qualche modo gli portiamo bene, segna sempre, perfino una doppietta. «Sono in forma, sono felice: faccio il mestiere che ogni ragazzo brasiliano sogna, gioco al calcio; non solo ti pagano, ma ti fanno ricco, cosa posso volere di più dalla vita?!». E’ un ragazzo che ragiona con il cuore. Ci avesse messo anche la testa non staremmo a raccontare questa sua storia.
«Eppure è accaduto», dice. «Quando meno te lo aspetti, ti ubriachi di benessere, non solo di alcol; le amicizie, poi, quelle te le raccomando, tutte interessate: quando hanno bisogno ti cercano; quando vorresti un conforto, scappano». Mette insieme queste parole a malincuore. «Tornassi indietro – dice – non rifarei gli stessi errori; o li rifarei, avendo le stesse debolezze cui ero sottoposto a quei tempi». Aveva tutto: successo, danaro, l’affetto dei compagni, di un presidente, di un tecnico del capitano, che insieme coprivano le sue fragilità. Ma la parabola discendente è impietosa. Non rispetta i sorrisi. Quel ragazzo ha il papà che non sta bene, purtroppo viene a mancare nel momento di maggior successo del figliolo. E’ la svolta a perdere. Adriano alla notizia della scomparsa del papà, ribalta la sua vita.
ALCOL E “BAD COMPANY”
Finisce dall’altare alla polvere. Cosa saranno, toh, un paio di metri. Con un po’ di fortuna puoi cavartela. Qualche frattura, poi ti rimetti in piedi. Quando, invece, quella miscela velenosa si impossessa della tua mente e poi del tuo corpo, sono dolori. Gli amici, buoni quelli. Sanno dividere con te solo le scorribande, bevute, donne e coca “no limits”. Poi, quando il conto in banca è bello e prosciugato, tu cominci a riflettere un attimo, provi a riprenderti il tuo sogno, è ormai troppo tardi. Quei due metri di altezza fanno più male di qualsiasi caduta.
E’ la storia di Adriano, stella del calcio. Conosciuto personalmente, nessun tipo di frequentazione, se non la condivisione per il calcio. Non esiste altro sport che possa raccontarti meglio la parabola della vita; lui, un semidio, talvolta rimette in sesto una domenica cominciata male, con un gesto sportivo straordinario. Aveva folgorato tutti alla vigilia di un Ferragosto di venti anni fa, lui che all’epoca di anni ne aveva appena diciannove. Ultimo minuto di gara a Madrid. E’ il suo debutto in amichevole. E’ entrato qualche minuto prima, per fargli sentire il profumo della prateria del Bernabeu, campo del Real inviolato. I compagni, campioni, fra questi Seedorf e Vieri, nonostante l’esperienza, si fanno da parte. Manca una manciata di secondi dalla fine, risultato ancora sul pari (1-1). Lo avranno visto in allenamento, è un predestinato. Nel piede sinistro, quella sera, il ragazzo che viene dalle favelas brasiliane, ha il tritolo. Lunga rincorsa, cannonata e palla sotto la traversa: 1-2, è il gol-vittoria.
FORTE E FRAGILE
Forte fisicamente, debole psicologicamente. Fra le ultime esperienze, Miami. Non è calcio, è un baraccone. E così, Adriano, che avevano ribattezzato l’Imperatore, torna a casa. In Brasile, Rio de Janeiro. Forse non ha più soldi, La stampa locale dice che avrebbe vissuto nella favela “Vila Cruzeiro”, fra le più povere e pericolose di tutta la città.
«Gli anni passati a Milano – ricorda Adriano – ma anche Parma e Firenze, li porterò per sempre nel cuore, in quegli anni pochi sono stati fortunati come me. A Parma e Firenze giocai bene, a Milano, colpa, forse, di una città che imprime alla tua vita ritmi esagerati, mi persi un po’: venivo dal Brasile, da un contesto sociale particolare, povero, così soldi facili, donne e alcool ti complicano la ripresa».
Era diventato un asso della sua Nazionale, aveva vinto coppe e classifiche di marcatori. Poi quel bivio davanti al quale la debolezza sceglie per te. «Facevo il giro delle discoteche, bevevo in compagnia di gente fuori dall’ordinario che finiva all’alba con la polvere. L’ambiente calcistico mi proteggeva, sapevano che non ero cattivo, ma solo tanto confuso. Vivevo un sogno, che ho distrutto per colpa mia. L’Italia e il calcio italiano mi mancano, ma cerco di stare distante da quei ricordi, avverto troppi rimorsi».
Dovesse dare un suggerimento a qualsiasi ragazzo entrato non necessariamente nel mondo dello show-business, ma nel mondo del lavoro. «Massima umiltà. Fino a quando ho tenuto a mente questo insegnamento, le difese tremavano , le reti si gonfiavano, la gente mi rispettava e mi trattava da idolo. Perso per strada il senso di umiltà, è crollato tutto: dunque, ragazzi, testa sulle spalle e piedi ben piantati a terra, la vita è una sola e va vissuta con il cuore sicuramente, ma anche con la testa».