IMG-20171019-WA0025«Che Dio ti benedica, fratello!». Ci vuole poco per guadagnarsi una sincera stretta di mano di Michael, nigeriano, ventinove anni. Da cinque mesi in Italia, parla inglese, ma già comprende qualcosa di italiano. Anche lui è fuggito da un Paese, la Nigeria, nel quale, comunque vada, fra militari, miliziani e bande armate, corri sempre il rischio di prenderle. Di brutto e senza una apparente giustificazione. Sfuggi alle intenzioni degli uni e ti ritrovi accerchiato da quelle degli altri. E quando non hai scampo, ti raggomitoli e invochi pietà, sperando che ti sentano. Calci e pugni, mentre gli altri aggressori tengono le armi puntate contro. E se non bastasse, anche colpi con il calcio di una pistola, di un fucile per provocarti ferite. Una mattanza. «Purtroppo non è diverso in altri Paesi africani – spiega davanti a un normale caffè, a dispetto di quanti dicono che la nostra “tazzina” sia forte per i loro gusti – spesso hai la sensazione che, come ti muovi, le buschi e nemmeno una sola volta: a me è successo in Libia, tre mesi prigioniero».

Non ha memoria del sorriso. Lo ha perso nel tempo. «Mio padre è stato ucciso durante la guerra civile – racconta Michael – a casa ho lasciato mamma e un fratello; il mio viaggio rispetto a quello di altri ragazzi africani è durato cinque mesi, tre dei quali li ho trascorsi in una prigione in Libia».Non esistevano giorno e notte, durante la prigionia i carcerieri ti svegliavano, spiega, e giù calci, ovunque capitasse. In faccia, sui fianchi, nelle parti basse, sulla schiena. «Ti svegliavano e, a modo loro, ti rinfrescavano la memoria: ti ricordavano che la tua vita apparteneva al grilletto della loro pistola; sveglia brusca e solita storia: “devi chiamare i tuoi familiari, farti mandare soldi, altrimenti ti ci rispediamo noi a casa, ma un pezzo per volta!” ».

Foto Michael

Un sorriso…

Non solo non sorride, Michael. Gli si riempiono gli occhi di lacrime quando gli chiediamo di ricordarci un episodio violento. «Non saprei da dove cominciare – dice, ci fa sentire a disagio, la domanda però è già partita – ci picchiavano a sangue, a qualcuno facevano saltare i denti, solo perché non capiva quello che dicevano: come se non gli riconoscessi il potere di vita o di morte su te; pensi ai chilometri che hai fatto scappando, agli affetti lasciati alle spalle senza voltarti indietro, perché tra gli stati d’animo che ti passano per la mente quello più forte è la paura».

Il ventinovenne nigeriano ha le braccia raccolte sul tavolino del bar. Nonostante i cinque mesi in Italia, comprende il senso delle domande, anche se a darci una mano c’è Alassane, operatore del Centro di assistenza straordinario “Cavallotti”. Si fa coraggio, Michael, alza la maglia su polsi e braccia. «Queste sono cicatrici – sembrano provocate da sigarette accese, coltelli – ognuna di queste ha un volto, l’espressione bestiale di un carceriere: non sai cosa gli stia passando per la testa e desideri una sola cosa, che quella lenta agonia finisca, in un modo o nell’altro; i soldi da casa non arrivano e non c’è alternativa alla morte sicura che non sia la fuga».

Per gli aguzzini la vita ha un costo, miserabile come i loro sentimenti. «Cinquecento dinari libici – dice – più o meno trecento euro, tanto vale la tua vita in quel momento, perché per loro sei già una spesa: un tozzo di pane e un po’ di acqua, talvolta sporca, ogni giorno; lo stomaco brontola, ti si chiude e se non hai la forza di risolvere in un modo o nell’altro, pagamento del riscatto o fuga, non hai altra scelta che una lenta agonia…».

Un pianto…

Piange, fissa dentro la tazzina, Michael. Giureremmo che è un accenno di sorriso quando parla di sogni. «Mi piacerebbe fare l’idraulico – confessa – un mestiere che facevo nel mio Paese, me la cavavo bene, non ho gli attrezzi, ma se un domani avessi risparmi sufficienti comprerei i primi attrezzi».

Non sa che in Italia la categoria degli idraulici è fra quelle più invidiate. «I soldi non contano – spiega – sono insignificanti rispetto al valore della vita, non sempre sono il tuo lasciapassare per la libertà: trovi un ragazzino con un fucile che un giorno ha deciso di esercitarsi al tiro al bersaglio, ti svuota le tasche e poi ti dice di correre…No, i soldi rispetto alla vita, alla libertà, sono meno che niente!».

L’Italia per Michael. «Questo Paese mi fa sentire un uomo libero, protetto, per questo dico che la libertà per noi è quella che in Italia chiamano lotteria». E Taranto. «Amo l’aria fresca, passeggiare sul Lungomare, guardare l’orizzonte e sognare interminabili bracciate a nuoto, io che il mare l’ho vissuto per giorni interminabili prima di sbarcare sulle vostre coste: il mare, per me, è il profumo della libertà!».