Simba, trentadue anni e una fuga infinita
«I nostri carcerieri ci dicevano che eravamo liberi: ci facevano scappare e poi ci piantavano un colpo di arma da fuoco alla schiena. Con tre amici una corsa notturna fino in spiaggia, poi finalmente un gommone. Quattro fratelli e due sorelle rimasti in Guinea, un giorno spero di riabbracciarli»
«Vedere gente morire dal vero una dietro l’altra, come fosse un film di guerra o una delle guerriglie rappresentate in quei film sul narcotraffico, è l’esperienza peggiore che potessi vivere e, purtroppo, l’ho vissuta davvero». Simba, trentadue anni, guineano, ha una gran voglia di raccontarsi e raccontare una tragedia vissuta sulla sua pelle. Lui, testimone della cattiveria di militari che quasi scherzavano con esseri umani come fossero davanti a un tiro a segno, ha negli occhi, e mai lo dimenticherà, le scene di quei cecchini. «“Correte!”, urlavano a quei poveracci che non potevano riscattare la loro libertà e dopo poche decine di metri gli piantavano una, due, tre pallottole alla schiena: ti rendi conto? Immagina di correre verso la libertà, hai le ali ai piedi, pensi di essere fuori tiro o magari di averla scampata, che ecco, arriva il primo colpo forte, secco: vedi un uomo indifeso, inerme, in ginocchio perché sta perdendo le sue forze e a quel punto l’esplosione di un secondo colpo e un istante dopo, la testa di quel poveraccio che si apre in due, come una noce di cocco!».
«Ne avevo visti morire davvero tanti, anche a causa della guerra civile, perfino militari, ma in quel modo disumano mai». Prosegue nel suo racconto, Simba. «E la mamma, il papà, la moglie, i fratelli di quelle povere vittime, chi li avviserà? Venivano lasciati lì in campagna, senza un minimo di rispetto per la loro anima; c’erano anche quelli che facevano di peggio: urlavano “La volpe! La volpe!”, conoscendo uno degli sport praticati un tempo in Inghilterra: la caccia alla volpe; consisteva nel mettersi in uno dei mezzi di cui disponevano e andare alla caccia di quei due, al massimo tre che erano riusciti a sfuggire al tiro al bersaglio; il più delle volte li stanavano e ammazzavano, ce ne accorgevamo dai colpi di arma da fuoco e dalle facce sorridenti e soddisfatte dei nostri carcerieri, segno che quei poveracci non avevano avuto scampo».
ERA SOLO L’INIZIO
Non è finita, le sofferenze proseguono. «Ho perso – spiega il trentaduenne guineano – quando perdi i genitori, la guida sicura del tuo futuro; mamma e papà li persi uno dietro l’altro, a causa di malattie che difficilmente potevano essere debellate: non potevano curarsi, le cure costavano tanto, ciascuno di loro voleva che fosse l’altro a salvarsi, fino a quando venne a mancare papà, mentre la mamma entrò in un lungo mutismo, fino a farsi travolgere dalla sua malattia e “andarsene”, raggiungere papà».
Vorrebbe tornare in Guinea, Simba. Nel suo Paese ha lasciato quattro fratelli e due sorelle, tre di loro sposati. «Ho un desiderio grande: tornare da loro, riabbracciarli tutti insieme, ma anche loro non se la passano bene; qualche settimana fa in due momenti diversi ho sentito un fratello e una sorella, non avevano notizie dagli altri da giorni, ma spero sia solo un problema di comunicazione
QUEI RASTRELLAMENTI…
Torna sulle scene cui ha assistito suo malgrado. Scatta la ribellione, che viene soffocata non solo dai militari, ma anche da un esercito civile: non venivano pagati dal governo, ma si capiva che erano autorizzati a razziare qualsiasi cosa. «Ho visto rastrellamenti: armi in pugno entravano in casa sfondando la porta; ti prendevano per i capelli, uomini e donne non facevano distinzione, per trascinarti in una prigione per sottoporti a torture di varia natura: psicologica e fisica con un finale che il più delle volte era sempre lo stesso, con una sola rara eccezione: la fuga; se eri svelto e riuscivi ad eludere i tuoi carcerieri dandotela a gambe levate, era la tua salvezza, altrimenti colpo alla schiena…».
«Sparavano a ripetizione – riprende Simba che a stento articola le ultime frasi – il tiro al bersaglio di cui ti dicevo: non più le voci dei miei compagni, erano stesi a terra, in pozze di sangue, ormai privi di vita; la mattina alle cinque, spesso al cambio turno, ti svegliavano, non ti davano il tempo di realizzare cosa stesse accadendo: aprivano le baracche nelle quali ci avevano chiusi e ci dicevano di correre: “Oggi è il vostro giorno fortunato!”, ci urlava il più cattivo di tutti, perché “Vi diamo l’occasione di farla franca, andare via da qua: ma, badate bene, che o approfittate adesso o non approfittate più, perché non ci sarà una seconda occasione..”».
E l’occasione era sempre la stessa. «Un gioco sporco, tremendo, vigliacco – racconta con le lacrime agli occhi quel ragazzone di trentadue anni – ti dicevano che eri libero e tu li guardavi, poi facevi un passo, ti guardavi alle spalle e provavi a camminare, sempre più velocemente, non appena cominciavi a correre – una cosa che non dimenticherò mai – prima lunghe risate, poi colpi di arma da fuoco esplosi da quei fucili che imbracciavano con grande disprezzo nei nostri confronti».
SCENE DI DOLORE
Le scene a cui Simba ha assistito una volta fuggito in Libia. «Le armi in assoluto, cosa peggiore l’uomo non poteva inventarsi – spiega Simba – senza parlare dei più giovani, degni di quegli assassini più grandi privi di scrupoli: per loro imbracciare un fucile era un gioco, a volte avevano appena dieci, forse undici anni, con quelle armi in pugno si facevano rispettare; avevano già dimostrato che le nostre vite non contavano niente, sparando e ammazzando, così nessuno gli si avvicinava, nemmeno pensando di poterli disarmare: erano una intera tribù».
Finalmente un raggio di sole. «La vita, direi – conclude Simba – dopo essere fuggito di notte con altri tre miei compagni, verso una spiaggia da dove, sapevamo, sarebbero partiti dei gommoni: i nostri carcerieri ci avevano affidato per tre giorni a un signore, proprietario di una piantagione: riuscimmo ad aprire la baracca e a scappare, non sapendo in realtà da che parte andare: il rischio era che potessimo trovarci in campagna piuttosto che in spiaggia; uno di noi sapeva orientarsi con le stelle: fosse vero o meno, ci portò davvero in spiaggia; lì cominciammo ad avere paura che le nostre informazioni fossero sbagliate, quando in lontananza scorgemmo gruppi di decine e decine di persone: gli corremmo incontro, mettemmo insieme quello che avevamo e lo consegnammo a un tipo che ci fece accomodare su un gommone: poteva ospitare trenta, massimo quaranta passeggeri, salimmo in centoventi; una decina li perdemmo durante un viaggio lungo tre giorni, fino a quando non incrociammo una nave mercantile: l’equipaggio ci ospitò a bordo. L’Italia, la nostra salvezza…».