Wahab, nigeriano, fuga da villaggio e sortilegi
«Avrebbero voluto facessi l’esorcista, mi rifiutai. In Libia, prigioniero per cinque mesi, botte all’alba e all’imbrunire. Poi un’altra fuga, un lavoretto, i soldi per imbarcarmi. In centoventotto su un gommone, arrivammo a Catania, poi a Taranto: fine dell’incubo»
«Pugni e calci, mattina e sera, per cinque mesi di seguito». Wahab, nigeriano di ventiquattro anni, cristiano, spiega la sua odissea in Libia. «Ero arrivato lì con buoni propositi, la voglia di lavorare e mettere da parte quel denaro che mi permettesse di staccare il biglietto per un nuovo mondo». Una nuova vita è l’obiettivo di Wahab, quello che ha passato ad Auchi, il suo villaggio, non lo augura a nessuno. «Più grande di cinque fratelli, morto mio padre per un male che nessuno ha mai capito in realtà cosa fosse, secondo tradizione del villaggio sarebbe toccato a me il suo “lavoro” di stregone: fino a qualche tempo prima era stato mio padre a preparare misture e sortilegi di qualsiasi tipo, così per successione avrei dovuto essere io ad occuparmi di qualsiasi richiesta da parte della mia gente».
Invece, nemmeno a parlarne. «Sono cristiano praticante, mi reco in chiesa a pregare almeno una volta a settimana, faccio il possibile per farlo ogni domenica, come vuole nostro Signore: come faccio a fare lo stregone? Sono vecchie tradizioni, ormai superate che insistono solo nei villaggi dove i mezzi di comunicazione scarseggiano; ci fossero tv e internet, sarebbe diverso, le nuove generazioni avrebbero spiegato a genitori e nonni che la vita non la cambiano erbe e infusi, ma lo studio».
«STREGONE? MAI!»
Ecco, lo studio. «Anche questo ha avuto un peso importante sulla mia scelta, il rifiuto di fare lo “stregone”: ho conseguito un titolo di studio al Politecnico, qualcosa che in realtà non so a cosa corrisponda rispetto ai gradi di istruzione in Italia; dunque, ho studiato, a scuola si dibatteva ogni giorno su quanto fossero primitivi i sortilegi: una “maledizione” a parole o con misture strane non può cambiare il senso di una vita».
Mettiamo alla prova il nostro amico Wahab. Una preghiera può cambiarlo? «Certamente sì, rivolgersi in preghiera al Signore, amare il prossimo aiuta a far bene e a stare bene: l’ho imparato sulla mia pelle, nei momenti di sconforto mi sono sempre rivolto a lui, al Signore, ed ho sempre avuto risposte incoraggianti; ero stato catturato in Libia da militari, comunque gente che indossava una divisa e impugnava armi, per essere gettato in un capannone insieme a miei connazionali e compagni di pelle che, come me, avevano un sogno: la libertà e un futuro dignitoso».
Quei “militari” e le richieste, insistevano sempre su un solo tasto: il denaro. «Non lavorando non avevo di che pagare la mia libertà, avrebbero voluto mi mettessi in contatto con i miei familiari in Nigeria, ma già loro vivevano in una situazione di profondo disagio; dunque, cinque mesi di pane e acqua, quando possibile, e botte: calci e pugni, come fossero colazione e cena. Picchiavano duro, smettevano solo quando ti provocavano ferite, ti usciva del sangue: vivevo un incubo, altro che sogno!». Non sapeva, Wahabi, quando quella tortura continua sarebbe finita. «I giorni erano tutti uguali, sveglia alle prime luci del mattino con calci e pugni, stesso trattamento all’imbrunire: in mezzo, il consiglio di trovare un modo di metterci in contatto con parenti o amici che avrebbero avuto a cuore la nostra vita, e io a spiegare ai miei carcerieri che venivo da un villaggio dove si sopravviveva a stento; niente: calci e pugni e, ancora, pugni e calci».
ANCORA UNA FUGA, UN GOMMONE
Poi un bel giorno, impossibile definire diversamente quella seconda fuga, il giovane studente nigeriano con in testa il sogno della libertà, scappa. «Riuscii ad eludere la sorveglianza, rischiai grosso – o forse i militari si disinteressarono volutamente di me, non so, magari diventavo una bocca in meno da sfamare – ma gambe in spalla, mi detti alla fuga, una corsa senza fine, fino a che avevo fiato: la paura di tornare fra le mani di quegli aguzzini era tanta, simile alla cattiveria e alle minacce che mi avevano costretto a lasciare il mio villaggio».
Un raggio di luce. «Non mi sono mai scoraggiato, ho sempre pregato il Signore, perché potesse indicarmi la strada: durante la mia fuga mi proponevo per fare pulizie, lustrare a modo case e locali di commercianti del luogo; uno di questi mi prese a benvolere, mi volle a fare le pulizie nella sua macelleria: guadagnavo e mettevo soldi da parte, spendevo lo stretto necessario per mangiare, fino a quando non raggiunsi la somma di duemila dinari, qualcosa vicino ai mille euro».
Una imbarcazione e via, l’ultima fuga verso la libertà. «Eravamo in centoventotto, stretti in una imbarcazione di fortuna, avevamo appena guadagnato il mare aperto quando ci venne incontro una nave, l’equipaggio ci tese una mano, ci fece salire a bordo. Arrivammo a Catania, poi un bus ci accompagnò a Taranto, fine della sofferenza».
Preghiera e sogno. «Studiare, imparare bene l’italiano e lavorare, per mettere da parte un po’ di denaro e mandare soldi a casa, perché mamma e i miei fratelli patiscano meno i morsi della fame: per chi, come me, ha vissuto alla giornata e conosciuto il dolore, sono le piccole cose della vita ti aiutano a vivere».