Dramane, ivoriano, venti anni
«Preso continuamente a botte in Libia. Ho attraversato il deserto, pregato il Cielo perché morissi. Studiavo, ma per sopravvivere trasportavo tufi. Poi l’imbarco su un gommone, bucato, tutti in mare, finalmente una nave italiana…»
«Ho attraversato il deserto, pensavo di morire; mi avevano detto che una volta in Libia sarebbe stato meglio, macché… E poi, il gommone sul quale viaggiavamo in più di cento, bucato, poche ore dopo tutti in mare…». Così comincia la storia di Dramane, venti anni, nella sua Costa d’Avorio studente finché ha potuto e artigiano per necessità. Ha molte cose da raccontare. Quei giorni in pieno deserto, in compagnia di se stesso, che ne hanno fatto un uomo. Appare quasi più grande dei suoi vent’anni, Dramane, tanto è serio. Nemmeno un sorriso quando racconta di settimane, mesi, citando a memoria la grande sofferenza. Fronte corrugata, sguardo pensieroso, una persona “vissuta”.
Come fosse una spugna, Dramane ha assorbito e fatto sue diverse esperienze. «Non è stato il viaggio che qualche mio connazionale – spiega il ventenne ivoriano – in contatto saltuariamente con amici sbarcati in Italia, mi raccontava; diceva: pochi giorni di strada, qualche sacrificio e sarei arrivato finalmente in Libia, Paese di fronte alla tanto desiderata Italia: quando sei qui, e su questo dò ragione a quel mio amico, puoi davvero tirare un sospiro di sollievo; una volta sbarcato, che resti in questo Paese, molto accogliente, o vada altrove, avverti forte la sensazione di essere salvo. Finalmente salvo».
«Salvo», è una parola. Dramane riflette su questo concetto. Per molti mesi in fuga, anche quando pensava che il più era fatto, come al suo arrivo in Libia. Ma andiamo per ordine, cominciamo da una data che un ragazzo così profondo, come vedremo, tiene scolpita nella sua memoria: 10 ottobre del 2016. «Lascio la Costa d’Avorio con il dolore nel cuore – racconta – in famiglia il clima non era più quello di un tempo, tutto cambiato, da quando mio padre aveva deciso di sposarsi per la seconda volta: il mio rapporto con la mia matrigna era vissuto sull’orlo di una crisi continua; litigavamo per ogni cosa, quasi io fossi un corpo estraneo, un peso per la famiglia; furono queste continue frizioni, anche in presenza di mio padre, a convincermi che era giunto il momento di assumere una decisione, andare via».
GLI STUDI, LA FUGA DALLA COSTA D’AVORIO
Costa d’Avorio, situazione politica ed economica insostenibile. Specie per un ragazzo che ha davanti a sé tutta la vita. «Andavo a scuola, gli studi furono la prima cosa che la nuova compagna di mio padre mi impedì di proseguire; lasciai il mio genitore a malincuore, lo stesso i tre fratelli e soprattutto, mia madre con la quale mi vedevo spesso e oggi sento quando posso: non potevo più vivere in quel clima, non solo familiare, il mio Paese era diventato invivibile, specie per quanti vogliono crearsi un vero futuro».
La fuga, il deserto. «E’ stata dura talmente erano gli stenti, al mattino il sole picchiava; la sera il freddo congelava, entrava nella tua pelle, il rischio che il mattino dopo non ti svegliassi era più di una ipotesi; in quei giorni vegetavo, sopravvivevo, cercavo di allontanare la mia volontà, spossessarmi di anima e sentimenti: l’unico modo era non pensarci, ma non era facile; più di qualche volta ho invocato il Cielo perché morissi».
Poi, Dramane, supera l’ostacolo, ma arriva la prova più dura sostenuta fino ad oggi. «Vedrai, una volta in Libia tutto sarà più semplice», lo incoraggiavano gli amici. «E invece lì cominciano i dolori, non solo di pancia – perché si mangia poco, addirittura niente e per più di un giorno – ma anche fisici: più pericoloso che attraversare il deserto; il colore della pelle in qualche modo ci tradiva, neri come eravamo ci fermavano un istante: ci chiedevano cosa stessimo facendo lì e, senza una ragione, giù botte; lasciare la Costa d’Avorio per andare a morire in un altro Paese, è questo che poteva accadere, anzi – mi dicevano – era già accaduto a più di qualcuno; carri armati per strada, i soldati con le armi spianate addosso a noi: per un breve periodo, insieme con altri, sono stato segregato in una casa disabitata; ci facevano sfiancare, lavorare sodo, e non sempre ci davano da mangiare, ho saltato il pasto per tre giorni e, nonostante tutto, privo di forze ero costretto a trasportare tufi che sarebbero serviti a realizzare costruzioni».
GOMMONE BUCATO, TUTTI IN MARE!
Finito il lavoro, i pericoli continuano. «Ci avevano lasciato al nostro destino, ma se ci avessero rivisto per strada sarebbero stati altri dolori; uscivamo la sera, sul tardi, per comprare qualcosa da mangiare, poi di nuovo al chiuso, per non farci vedere in giro ed essere nuovamente picchiati, senza motivo». Poi lo spiraglio, dopo una serie di piccoli lavori, il gommone tanto sospirato per lasciarsi alle spalle la Libia, quel Paese ospitale almeno sulla carta.
«Eravamo in 105, lo ricordo perfettamente – prosegue Dramane nel suo racconto – come ricordo che non appena arrivammo al largo, in mare aperto, avvertimmo un grosso pericolo: il gommone era bucato; non so come fosse successo; potevamo restare a galla ancora qualche ora, poi saremmo finiti tutti in mare». Ma ecco la salvezza: una nave italiana, quattro giorni di viaggio, terra. «Adesso voglio pensare a riprendere gli studi – conclude Dramane – nel mio Paese facevo l’artigiano, specializzato nel sistemare mobili che dovevano essere riparati; non mi dispiacerebbe riprendere questo lavoro, impegnarmi da un rigattiere: sapete, quei commercianti che comprano o ritirano mobili usati o da buttare e li rimettono a nuovo? E’ un’idea: dopo aver passato disavventure nel deserto e in Libia, quasi per un debito di riconoscenza nei confronti della vita, sarei disposto a fare qualsiasi lavoro!».