La vicenda della nave Aquarius e la decisione di chiudere i porti italiani partorita dal Ministro degli Interni ha tenuto banco in questi giorni innescando reazioni “morali” che, almeno per il momento, relegano nell’ombra considerazioni di natura “etica”.
I numeri sbandierati dai diversi Governi dei Paesi dell’Unione paiono smontare le posizioni del Governo italiano di fatto al di sotto delle quote previste dalla “redistribuzione” più volte rivista e ritoccata. E qui, una prima questione: i “numeri” sostituiscono le persone e questo è di per se “vomitevole” giusto per richiamare un termine usato dal portavoce del primo Ministro francese.
Sorvolando sulla questione dei campi di prigionia libici finanziati dal Governo italiano quanto del concetto di “migrante economico” dei quali abbiamo già ampiamente detto in questa rubrica e che rischiano di diventare uno squallido modello replicabile, al centro della discussione è posta la rivisitazione del Trattato di Dublino o, come piace dire ad alcuni, il suo superamento.
Ciò che inquieta è che alla base della discussione vi sia quale perno principale la questione delle “quote” all’interno di uno scenario che conferma e radicalizza la sostanza economica, e non socio-politica, delle radici dell’ Unione Europea.
Anche perché, se così fosse, sarebbe stato naturale un principio: le persone che sbarcano in Italia piuttosto che in un altro Paese dell’Unione mettono, di fatto, piede in Europa e, al momento dello sbarco, dovrebbero essere libere di esprimere l’intenzione, ovvero di dichiarare, quale Paese dell’Unione intendono raggiungere in maniera strutturata senza essere posti nelle condizioni di farlo in maniera illegale e spesso continuando a giocare con la morte.
Ma le ragioni economiche superano qualsiasi altro livello di ragionevolezza fino al punto di generare nefandezze come nel caso della nave Aquarius, carica di uomini, donne e bambini, non di merci.
Ma, proprio questa vicenda mi ha riportato alla mente una recente lettura che vi propongo seppure, per l’ambito di riferimento, possa sembrare scollegata dal discorso intrapreso ma che poggia sul concetto fondamentale che ogni vita ha lo stesso valore.
“Il principio fondamentale della medicina, da molti secoli a questa parte, è che tutte le vite hanno lo stesso valore. Non sempre noi che ci occupiamo di medicina teniamo fede a questo principio. Lo sforzo per colmare il divario tra aspirazione e realtà ha occupato l’intero corso della storia.
Ma quando questo divario viene messo in luce – quando si scopre che alcuni vengono curati peggio di altri, o non vengono curati affatto, perché non hanno i soldi o le conoscenze giuste, per la loro estrazione sociale, perché hanno la pelle scura o un cromosoma X in più – quanto meno ci vergogniamo. Al giorno d’oggi non è per niente facile sostenere che tutti siano ugualmente degni di rispetto. Eppure non è necessario provare simpatia o fiducia nei confronti di una persona per credere che la sua vita meriti di essere difesa. Pensare che tutte le vite abbiano lo stesso valore significa riconoscere che esiste un nucleo comune di umanità.
Se non si è aperti all’umanità delle persone, è impossibile curarle in modo adeguato. Per vedere la loro umanità occorre mettersi nei loro panni. Ciò richiede disponibilità a domandare alle persone come si trovano, in quei panni. Richiede curiosità nei confronti degli altri e del mondo.
Viviamo in un momento pericoloso, in cui ogni genere di curiosità – scientifica, giornalistica, artistica, culturale – è sotto attacco. Questo succede quando rabbia e paura diventano le emozioni prevalenti. Sotto la rabbia e la paura c’è spesso la fondata sensazione di essere ignorati e inascoltati, l’impressione diffusa che agli altri non importi come si sta nei nostri panni. E allora perché offrire la nostra curiosità a qualcun altro? Nel momento in cui perdiamo il desiderio di capire – di lasciarci sorprendere, di ascoltare e testimoniare – perdiamo la nostra umanità”.
Da un discorso di Atul Gawande, chirurgo statunitense, agli studenti di medicina pubblicato sul New Yorker il 2 giugno 2018. Traduzione di Silvia Pareschi.