Artigiano, un titolo di studio, Mbaye si racconta

«Fa brutti scherzi. Mio padre è rimasto a casa, io una volta in viaggio non mi sono più voltato. Sei mesi a piedi, poi un imbarco, finalmente l’Italia. Non ho corso pericoli, l’ho scampata bella»

«Mi sento artigiano a tempo pieno, ogni volta che mi viene richiesta dimostro la mia professionalità, nella speranza di trovare un impegno più costante». Mbaye, ventisette anni, arrivato in Italia poco più di due anni fa, ha le idee chiare sul suo futuro. «Ammesso che me lo facciano fare – dice sorridendo – perché, alla fine non sono così rigido: l’importante è trovare un buon lavoro; certo, il mio titolo di studio – diploma da artigiano – aiuterebbe, ma sono nelle mani di chiunque voglia darmi un’occasione».

Giunge dal Senegal, Mbaye, fede musulmana, un francese impeccabile, un italiano in via di perfezionamento. Racconta del suo viaggio, che non è stato proprio poi tutto questo incubo come quello raccontato da suoi connazionali o “fratelli” provenienti da altri Paesi africani. «Certo, anche io ho vissuto alla giornata, ma per fortuna non sono passato dalle mani di gente senza scrupoli». Il riferimento è a milizie e asma boys, giovani criminali che, secondo qualcuno, godono di una certa protezione. «Fanno il lavoro sporco al posto di altri – spiega Mbaye – tutti elementi poco raccomandabili, non hanno molte idee che gli frullano per la testa: tutto passa attraverso un modo di operare violento, di solito manifestato con un’arma puntata contro la faccia o un colpo rifilato ovunque capiti con il calcio di un fucile; non si accontentano degli spiccioli, vogliono soldi, tanti, altrimenti sono guai: io sono passato indenne da queste torture, ma molti amici e conoscenti con cui ho parlato, mi hanno raccontato cose da pazzi…».

PERICOLO SCAMPATO

Mbaye, pericolo scampato. «Parto dal mio Senegal: mio padre superati i settant’anni, aveva anticipato a me e al resto della famiglia, che lui sarebbe rimasto volentieri a casa; non gli andava di mettersi in viaggio per cercare un posto dove stare meglio; fosse venuto via, secondo me, avrebbe corso il rischio di rimetterci la pelle: la nostalgia fa brutti scherzi; anche io ne soffro, ma quando ho salutato lui, mamma e il resto della famiglia, me ne sono subito fatto una ragione: fossi venuto via, almeno per qualche anno, non mi sarei guardato indietro, proprio per non avere la tentazione di tornare sui miei passi; potevo ritenermi fortunato per come fosse andato il passaggio obbligato dal mio Senegal alla Libia, prima dell’imbarco per l’Italia».

E’ sincero il ventisettenne senegalese, non fa giri di parole quando confessa viaggio e ambizioni. «Non avevo una meta precisa, diciamo che non pensavo a fermarmi in Italia: nella testa avevo, comunque, l’Europa, il suo Nord, Francia, Germania, Inghilterra, non so; una volta attraversato il Mediterraneo mi sarei fermato dove avrei trovato il clima più ospitale, la possibilità di lavorare».

Il motivo che ha spinto Mabaye a lasciare il suo Paese. «Un diverbio più acceso con il mio capo, lui che organizzava il mio lavoro e quello degli altri; le ore di lavoro si moltiplicavano, i soldi diminuivano: chiedere il motivo di tutto questo e il perché ci facessero spezzare la schiena per pochi denari, non era bene accetto; non abbiamo chi tutela salute e posto di lavoro, non esiste democrazia in queste cose, vale la legge del più forte: “Mbaye, da domani trovati un altro lavoro, qui non ci servi più!”. Non abbiamo i sindacati, così dovetti raccogliere le mie cose e andare via e comunicare alla mia famiglia l’allontanamento dal posto in cui sgobbavo».

«TOGLI IL DISTURBO…»

Nonostante un titolo di studio, non c’era altra strada. «Quando manchi di rispetto a un capo, non ti resta che fartene una ragione: sei fuori dal mercato del lavoro, almeno nella tua città non ti prende più nessuno, è come se avessi una malattia contagiosa…Il mio diploma di artigiano serviva a ben poco, mi toccava andare a fabbricare sedie e tavolini, fare riparazione altrove, lì non c’era più spazio per me…».

«Tanto valeva andarsene dal Senegal – riprende Mbaye – quella non era più vita, vero che il mio Paese andava riprendendosi dalla crisi economica, ma i benefici il popolo proprio non li avvertiva, per noi il benessere restava sulla carta, ancora un miraggio; salutati i miei cari, gambe in spalle cominciai a camminare senza mai voltarmi, il mio obiettivo era la Libia, dove mi sarei imbarcato per l’Europa: mi fermavo in qualche villaggio, mi offrivo per fare lavoretti, aggiustare sedie, tavoli, armadi, divanetti, per un piatto di pasta e qualche spicciolo; poi riprendevo il viaggio, a piedi: un giorno eravamo una decina, disposti in fila indiana, uno dietro l’altro, un altro giorno una ventina; cambiavano i compagni di viaggio, ma l’obiettivo restava l’imbarco…».

Nessun contrattempo in un viaggio durato sei mesi, scongiurato il pericolo di milizie e ragazzi terribili. «Ci imbarcammo in più di novanta, un gommone piccolo, stavamo tutti raccolti in pochi metri, l’unica cosa che ci dava coraggio era la possibilità che avremmo incontrato qualche nave che ci avrebbe raccolti e accompagnati sulla terraferma, possibilmente non daccapo in Libia; in lontananza vedemmo una nave militare italiana, ci sbracciammo, ci avvistarono e vennero incontro: ci offrirono vestiti puliti e cibo, io che non vedevo il pane da giorni, fu il pranzo più bello della mia vita; arrivammo in Sicilia, io fui indirizzato a Taranto, Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”, da quel momento per me cominciò tutta un’altra vita, in meglio naturalmente».