Musa, ventitré anni, gambiano
«Mi manca l’attività, il Covid ha bloccato i campi; aspetto, impaziente, una telefonata dal mio datore. Da quattro anni in Italia, ho lavorato al mercato, giocato al pallone. Sento spesso i miei cari, mi assale la nostalgia, ma tornare indietro sarebbe un errore. Soccorso da una nave mercantile spagnola, arrivai a Taranto…»
Musa, ventitrè anni, gambiano, fede musulmana. Da quattro a Taranto. «Sono sbarcato direttamente in città – racconta – uno di quei viaggi dei quali sai quando parti e non sai quando e, soprattutto, come arrivi a destinazione. Proprio questo aspetto, il viaggio, che nasconde sempre gravi insidie, fin dal mio proposito di partire ha fatto preoccupare i miei genitori, papà 45 anni, mamma 44».
«“Sei proprio convinto del passo che stai per compiere ?” – dice Musa – mi ripetevano e io a rassicurarli, a dire loro che avrei fatto molta attenzione, e una volta fuori dal Gambia, al primo sospetto o alla prima occasione non del tutto chiara, sarei scappato via: di storie ne ho sentite a non finire, alcune a lieto fine, altre un po’ meno e, altre ancora, conclusesi in tragedia. E quando dico tragedia mi riferisco ai morti ammazzati di cui ancora oggi sentiamo parlare, di naufraghi che trovano la morte in mare, in quello che dovrebbe essere il viaggio della speranza: legittimo, dunque, il timore da parte di mamma e papà».
Ha gli occhi lucidi Musa, specie quando parla di genitori e comunicazione. Nonostante gli strumenti disponibili oggi, «ci sentiamo saltuariamente, spesso sì, ma non tutti i giorni». Le domande sarebbero sempre le stesse. «Mi chiedono come sto, se sto lavorando, se mi manca qualcosa: l’affetto della famiglia, per esempio. E ogni volta è una telefonata toccante, io che provo a farmi passare come possibile la nostalgia, loro che invece, e non volendo, me la fanno tornare in modo assai sostanzioso».
«TORNARE A CASA, IMPROBABILE»
A proposito di tornare, Musa non ci pensa. «Non sono nelle condizioni di partire e tornare – spiega – il viaggio per arrivare qui, a Taranto, mi è costato un anno di lavoro in Libia; ho dovuto mettere da parte duemila dinari, pari a 1.200 euro, una bella cifra per me e quelli come me che collezionano sacrifici da che sono nati; ci sono restrizioni nel mio Paese come altrove, intanto per il Covid, una sciagura: se oggi sono qui, seduto davanti a un bar, in attesa di una telefonata per tornare a lavorare nei campi, purtroppo lo devo proprio alla pandemia; non se l’aspettava nessuno, il lavoro nel bene e nel male filava liscio, avevo trovato un certo equilibrio, invece: capisco gli italiani quando invocano il Cielo perché i contagi finiscano e tutti possano riprendere la vita di tutti i giorni; detto del coronavirus, invece, passiamo al viaggio di andata nel mio Paese e quello del ritorno in Italia: complicato; oggi saprei, forse, quando partire, controlli medici compresi, ma non saprei come rientrare, perché a quel punto dovrei essere bravo intanto ad uscire dal mio Gambia e fra mille sentieri arrivare in Libia, scampando alle bande armate o persone prive di scrupoli; lavorare ancora e tanto, infine ripagarmi il viaggio per l’Italia: ma questa volta avrei la stessa accoglienza di quattro anni fa? No, i tempi non sono più quelli di allora…».
Dunque, salto indietro. «Una volta in mare – ricorda per noi Musa – il viaggio della speranza, non senza momenti di panico: in mare aperto può accadere di tutto, dal maltempo e, dunque, onde alte quanto un palazzo di venti piani che ti possono spazzare in un attimo, al vedere lontano una imbarcazione: non sai se sbracciarti o meno per attirare l’attenzione, potrebbero essere militari libici che ti riportano indietro, oppure pirati del mare che ti privano delle ultime cose che hai addosso; o, magari, navi militari o mercantili: a me e i miei amici, tanti, stretti in una bagnarola – chiamarla imbarcazione è un’offesa all’intelligenza – andò bene, una nave mercantile spagnola ci venne incontro, ci fece salire a bordo e accompagnò direttamente al porto di Taranto dove era attivo l’hotspot».
«FINALMENTE A TARANTO…»
Una volta a Taranto, fine dell’avventura. «Non proprio – ricorda il ventitreenne gambiano – la mia prima destinazione è stata Ostuni, un campo riservato a quanti, come me, fuggivano dalla miseria e dalle persecuzioni; vero è che in Gambia è stato rovesciato un governo militare, ma è anche vero che quello attuale dà l’impressione di fare poco per il popolo, sembra quasi mascherato: ne parliamo spesso fra noi, chi amministra il potere prima o poi si lascia tentare da politica e dinamiche che non sto qui a spiegare…».
Musa si è espresso perfettamente. «Chi va al mulino prima o poi si sporca di farina…», diciamo di solito in Italia. Compreso il senso, il ragazzone gambiano, treccioline appena pronunciate, sfodera un sorriso contagioso. Ma torniamo all’esperienza in quel campo ad Ostuni. «Non era il massimo stare lì – poche occasioni di lavoro, che però io ho colto al volo, e 75euro mensili di “pocket money”, non sempre puntuale; ho giocato anche al pallone in una squadra del posto che hanno chiamato “Banana”, ma non perché giocavano dei neri, era solo per divertimento e per partecipare a tornei stracittadini».
Uno dei lavori. «Uno dei primi – spiega Musa – è stato in un mercato, aiutavo un fruttivendolo di una certa età, mi trovavo bene con lui, ma non avendo chi seguisse il suo mestiere a un certo punto ha chiuso la sua attività». Poi a Taranto. «Insieme con un amico ho preso casa, un monolocale, ci cuciniamo da soli, un po’ speziato, ma soprattutto cucina italiana, tutto condito con pomodoro, dal riso agli spaghetti: la vostra tavola non si batte; lavoro nei campi, anche quattro mesi di seguito, ora sono in attesa che il Covid molli un po’ la presa e possa permettermi di tornare finalmente a lavorare…».
Ultimo pensiero rivolto a casa. «E’ complicato pensare a riabbracciare papà, mamma e le mie due sorelline, una di nove e l’altra di otto anni, che adoro: le ho lasciate quattro anni fa, cominciavano a diventare grandi, mi mancano. Ecco, ogni volta che sento i miei cari mi viene un nodo alla gola, una forte emozione: non so dove e non so quando ci vedremo. E questo è il pensiero che mi perseguita da quattro anni, nostalgia sì, ma anche paura di riabbracciarli fra un po’ di anni, sempre troppi…».