Themba, somalo, ventidue anni, da sei in Italia
«Non sono più un fenomeno da monitorare. Io e i miei connazionali e fratelli africani ci sentiamo più liberi, ma anche un po’ trascurati dalle istituzioni. Causa covid e crisi, si parla sempre meno di noi immigrati. Arrivato a Lampedusa per inseguire un sogno, studiare e fare una vita serena»
«Non torno più a casa, resto in Italia dove sono arrivato sei anni fa; ma prima che scoppiasse il covid avevamo la sensazione che qualcuno si fosse dimenticato di noi: niente più interviste o domande nei bar, nei supermercati: gli immigrati non fanno più notizia».
Themba, somalo, ventidue anni, in Italia da sei, era minorenne quando è sbarcato a Lampedusa. «Ricordo perfettamente quel giorno – parla l’italiano con una certa proprietà di linguaggio, che fosse sveglio lo si capisce subito, che fosse intelligente e riflessivo anche – era come se fossi stato restituito a nuova vita, quella che avevo sempre sognato nel mio Paese, dove ho lasciato la mia famiglia, mamma e sei fratelli…».
C’è tempo per raccontare la storia, incuriosisce il suo atteggiamento disincantato a proposito dell’ascoltare o intervistare un africano «sempre più raramente». «Non so, ormai, se per me e i miei connazionali – dice Themba – fratelli africani, sia un bene essere più o meno ignorati, certamente rispetto a qualche anno fa non siamo più i “fenomeni” da intervistare, ai quali offrire un caffè – anche con un solo euro schiacciato sul palmo di una mano aperta – e poi, “arrivederci e grazie”; insomma, non facciamo più notizia, sarebbe bello chiedeste oggi agli italiani cosa rappresentiamo per loro: una risorsa, un peso, o peggio, qualcosa davanti alla quale restare indifferenti».
UN FENOMENO
Themba, lo sai che sei un fenomeno, vero? «Lo dicevano anche a casa mia – ricorda il ventiduenne somalo – capisco anche il senso della parola: fenomeno sta per sveglio, vispo, nel peggiore dei casi per rompiscatole, e io in effetti un po’ rompiscatole mi sento; ma non di quelli che importunano, no, ma di quelli che si fanno e pongono mille domande; personalmente vivo alla giornata, lavoro un po’ nelle campagne, un po’ al mercato: da una parte con un contratto saltuario, dall’altra a nero…».
Ride, Themba, noi con lui perché capiamo dove voglia andare a parare. «Nero, mi ha sempre fatto ridere questa cosa da quando l’ho sentita per la prima volta: intanto perché identifica con il colore della mia pelle e di tutti i miei fratelli, poi perché con quel colore si intende significare qualcosa di poco pulito, anzi talmente sporco da essere nero, appunto; ma non abbiamo mica la presunzione di cambiarvi il dizionario…».
E i connazionali, i fratelli, come li chiami tu, che fanno? «Quello che possono: la voglia di realizzare un sogno non è svanita, diciamo che si è affievolita, ma non vediamo l’ora che finisca la pandemia per poter tornare a vivere senza ostacoli, poter circolare senza problemi; nonostante qualcuno rinnovi il visto per restare in Italia, perché ha un contratto di lavoro – anche saltuario, poco importa – non manca occasione perché venga fermato per i controlli di routine; sacrosanti, se fossero rivolti anche ai “bianchi” che circolano senza mascherina, ma quando qualche anno fa eravamo più numerosi, questo non accadeva così di frequente, ma non voglio fare del vittimismo, altrimenti finisce che do ragione a qualche mio amico italiano, che dice “certe cose, The’, te le vai proprio a cercare!”: vero, ho la polemica in corpo, ma non vorrei essere frainteso…».
BOTTA E…RISBOTTA
In questo gioco di botta e risposta, sembra che lui stesso si rivolga interrogativi e li risolva a suo modo, perché ha maturato una sua idea in questi sei anni. «Sarò eternamente grato a questo Paese – puntualizza Themba, evita di essere frainteso – per avermi accolto a braccia aperte, avermi ospitato, ora però è crisi, crisi covid e crisi per tutto, poco lavoro, la gente è abbattuta, i problemi non si risolvono, ma si spostano: prima avevamo urgenza di conoscere il nostro futuro, che tipo di prospettiva potesse offrirci l’Europa, oggi dobbiamo accontentarci di quanto ci passa il quotidiano; la crisi, come fosse un virus, ha contagiato tutti, dall’Italia alla Francia, dalla Spagna alla Germania».
Meglio che in Somalia, però Themba. «Sono arrivato sbarcato sei anni fa a Lampedusa, con due miei amici, ospitato nel Centro di accoglienza dell’isola siciliana; lì, responsabili di “Save the children” mi hanno aiutato, fornendo per quanto possibile consulenza legale e servizi di mediazione culturale». Cosa ha raccontato quando ha messo piede in Italia. «Che in Somalia era estremamente pericoloso viverci; un mio vicino, uscito di casa per lavoro, quando è rientrato ha trovato la sua famiglia completamente distrutta: moglie e figli uccisi». Cosa si aspetta, oggi, dall’Italia. «Lo stesso sogno che avevo da ragazzo – conclude il ragazzo somalo – scappare da un Paese nel quale non si viveva più, anzi si finiva di finire morti ammazzati; resto in Italia perché voglio migliorare la mia posizione sociale, studiare, trovare un lavoro – anche saltuario – ma qualcosa su cui poter contare, rifarmi una vita, possibilmente serena».