Mario Incudine, cantautore, attore, regista

«I migranti portano sulle nostre coste nuovi linguaggi musicali. La nuova musica popolare ha intercettato nuove ondate migratorie regalandoci meraviglie. La mia rivoluzione con un tamburello al posto della chitarra elettrica. Abbiamo studiato, imparato la tradizione, gli stilemi, la grammatica, e poi riscritto il canto siciliano. Magna Grecia, Taranto, la Sicilia…». La taranta nel racconto di un artista che in venti anni ha trasformato una platea di trenta persone in trentamila.

«I flussi migratori che arrivano sulle nostre coste ci portano la musica, nuovi linguaggi musicali, nuove sonorità; la nuova musica popolare di oggi è riuscita ad intercettare queste nuove ondate migratorie con le meraviglie che questa ci porta…».

Cantautore, attore, regista, musicista e autore di colonne sonore, Mario Incudine è uno dei personaggi più rappresentativi della nuova world music italiana. Suona chitarra, mandolino, mandola e tammorra, ha collaborato, fra gli altri, con Moni Ovadia, Peppe Servillo, Eugenio Bennato, Ambrogio Sparagna, Mario Venuti, Tosca, Antonella Ruggiero e Kaballà, duettato con Francesco De Gregori, Lucio Dalla, Alessandro Haber e Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso. Numerose le sue partecipazioni a programmi televisivi sulle reti Rai e Mediaset.

Incudine, la tradizione torna ad essere un fenomeno popolare.

«Tutto comincia nel ’97, ai concerti c’erano trenta persone, pochissimi giovani; adesso, ventitré anni dopo, ai miei concerti incontro ventimila, trentamila persone; il fenomeno della Notte della taranta, poi, ha avuto un ruolo centrale in questo e fatto in modo che tantissimi giovani si avvicinassero alla musica popolare e, allo stesso tempo, agli strumenti popolari; chi collabora con me, il maestro Antonio Vasta, uno dei più grandi virtuosi di zampogna, è un insegnante che ha numerosi allievi proprio fra i giovani, qualcosa di impensabile fino a pochi anni fa».

La svolta, a un certo punto ha osato.

«Abbiamo modificato geneticamente il folk, rinnovandolo dal suo interno: prima abbiamo studiato, imparato la tradizione, gli stilemi, la grammatica, e poi riscritto la nuova musica popolare che canta siciliano, ma che suona con la musica del mondo. È la nuova world music che tiene conto delle stratificazioni culturali, quelle di ieri, ma soprattutto di oggi».

Quanto diamo, quanto apprendiamo da quanti arrivano sulle nostre coste?

«I flussi migratori, dicevo, e che arrivano sulle nostre coste portano musica, nuovi linguaggi musicali, nuove sonorità; questa è la nuova musica popolare che oggi è riuscita ad intercettare queste nuove ondate migratorie insieme con le quali sulle nostre rive arrivano cose delle quali non possiamo che meravigliarci…».

Cosa prendiamo, cosa diamo in cambio.

«Diamo l’humus, l’identità di un Mediterraneo da sempre culla di popoli e mare di pace: noi possediamo il sale, provate a pensare alla parola “isola”: “in salum”, “nel sale”, nel mare, nell’acqua, considerando che i latini indicavano mare e sale allo stesso modo, usavano un unico sostantivo; dunque, siamo nell’acqua, pieni di salsedine; i bambini nascono nel liquido amniotico, quelli siciliani nuotano nel liquido salmastro, come a dire che abbiamo nella nostra genetica il sale che ci rende particolarmente “saporiti”: diamo, insomma, questo sapore, una base di salinità importante, attraverso musica, parole, cultura: pensiamo, per esempio, a dove siamo adesso, Taranto, è Magna Grecia, lo stesso la Sicilia».

Dice “Viviamo di melopea”, cioè melodia, greca in questo caso.

«Viviamo anche nelle stesse parole dei latini, nel “cunto”; nei miei concerti propongo un misto, melopea greca e ictus percussivo latino, fra la tradizione del canto, alla “stisa”, e quella del canto “strofico”; dentro di noi c’è tutta questa letteratura; prendiamo il sapere ritmico dei popoli del Maghreb, la ritmica propria di quei popoli, i riti, l’esorcismo, la purificazione non solo dal morso della taranta, ma dell’uomo che attraverso la musica riesce a trascendere e a diventare altro, talmente di scopre diverso da se stesso. Ecco cosa prendiamo da quei popoli: una ritualità comune nei popoli del Mediterraneo con la quale, loro, quando arrivano da questo lato del mare, ci travolgono».

Lei è uno studioso, da giovane, fra le tante, a proposito degli inizi, si sarà posto una domanda, che risposta si è dato?

«Semplice. Quando si è scoperto tutto e non c’è più altro da scoprire, bisogna tornare indietro, andare alle radici, mi piace citare un ossimoro: “bisogna mettere radici nel futuro”, unico modo per sapere chi eravamo e dove andiamo. E i giovani, che hanno scoperto tutto, per sentirsi moderni, essere rivoluzionari, devono tornare indietro: chi è rivoluzionario ha il tamburello in mano, non più una chitarra elettrica».

Il motivo principale che l’ha spinta alla musica etnica.

«L’ho sentita come una missione: cantare in siciliano per salvare un’identità, ma soprattutto dare dignità a una terra».

Il richiamo più forte?

«Una frase di Ignazio Buttitta, grande poeta e filosofo siciliano: “Un populo diventa poviru e servu, quannu ci arrubbano a lingua addutata di patri: è perso pi sempri… mi n’addugno ora, mentri accordu la chitarra du dialetto ca perdi na corda lu jorno…”. Così la chitarra con cui suono ogni giorno la tengo ben stretta: un popolo che perde l’identità è un popolo cieco, muto e sordo».