Ventuno anni, arriva dalla Guinea. In Libia, fermato, imprigionato, picchiato. Dimentica le cicatrici e sogna. «Commerciavo in tabacchi e dolciumi, un giorno vorrei aprire in negozietto in Italia».

WhatsApp Image 2017-11-23 at 15.05.21«Una pietra stretta in un pugno e giù botte, ovunque capitasse!».Mamadoudiao, spiega le sue prigioni. Un po’ con il suo italiano scolastico, un po’ a gesti. Mostra la testa, scava con le mani fra i capelli. Cicatrici impressionanti. Non è l’unico, non sarà nemmeno l’ultimo a farci vedere testimonianze di un dolore non solo fisico. Ma quando fuggi – lui ha lasciato la Guinea – e arrivi in Libia, c’è poco da fare. Non eviti la prigione, dura, tantomeno le botte. Pietra viva, tutta spigoli; e calci, non «carezze», sferrati con violenza, ora con la punta, ora con il tacco; così forti da farti uscire sangue e ricordarti che puoi già ritenerti fortunato. La tua vita vale meno di mille euro: se i tuoi familiari, bene, altrimenti meglio rassegnarti a ogni tipo di tortura.

«Non c’era orario, quando dovevano darti una “lezione”, perché prima o poi arrivava il tuo turno: non ti svegliavano nemmeno, te lo ricordavano in pieno sonno che avevi con loro avevi un debito: millecinquecento dinari, poco più dei vostri novecento euro, per noi già una piccola fortuna; a volte non comprendevi nemmeno se fosse realtà o, purtroppo, incubo: era un incubo…».

Mamadoudiao ci tiene al suo nome per esteso. Proviamo ad abbreviarlo, ma lui chiede gentilmente un attimo la penna e completa. Arriva da Frua, «una cittadina, non tanto grande, non tanto piccola», qualcosa che somiglia a uno di quei nostri comuni che per un pugno di abitanti non fa ancora provincia. «Lì ho lasciato una sorella più grande e un fratello più piccolo».

Piccoli risparmi investiti in una ricarica telefonica. L’unico filo che unisce Mamadoudiao al suo passato, il cellulare, le conversazioni con quello che resta della sua famiglia. «Ci sentiamo ogni tanto – spiega – per raccontarci come va la vita lì e come, a me, va qui». Quando parla dell’Italia, lo fa lentamente, vuole spiegarsi bene, ha solo parole di elogio. «Qui è un’altra cosa, non sto da molto in Italia, ma è come se ogni giorno vedessi il sole, anche quando piove». Anche per lui, ventuno anni, il sole è vita. Non disdegna la pioggia, però. Indossa un giubbotto impermeabile azzurro. Stringe un ombrello pieghevole. «Non appena vedo due gocce lo porto con me, mi tiene compagnia: la pioggia dalle mie parti è benessere, ne sanno qualcosa i raccolti che sfamano tutti noi…». Torniamo ai suoi fratelli. «Mia sorella è stanca della vita a Frua, anche lei vorrebbe andare via da lì, ma per le donne è più complicato: non voglio pensare cosa possa accadere al suo arrivo in Libia, passaggio obbligato per chi, come noi, per sognare la libertà deve attraversare Mali, Burkina Faso e Niger…».sfondo-storie-5-2

E Libia, uno spettro. Non solo per Mamadoudiao. «Sono stato un anno lì, non facevo in tempo a mettere insieme un po’ di soldi presi per mille lavori fatti, che subito mi toglievano quel piccolo, misero guadagno: mendicavo le pulizie, chiedevo se per qualche spicciolo potessi lavare una vetrina, un’auto; è così che ho messo insieme quei millecinquecento dinari libici per pagarmi il viaggio per l’Italia».

In Guinea, nonostante la sua giovane età, faceva il commerciante. «Non un vero locale con tanto di espositori per la merce, anche se la mia attività aveva il suo piccolo decoro: vendevo tabacchi e dolciumi, come, vedo, fanno in Italia: chi vende sigarette, vende anche dolciumi». Un desiderio. «Se non è vietato sognare, un giorno mi piacerebbe avere un negozietto tutto mio, aprirlo qui in Italia, a Taranto o altrove, non so, ma se un giorno riuscissi nell’impresa per me sarebbe qualcosa di magico: riuscire a ricostruire con sacrifici quello che  facevo nel mio Paese…».

Perché tabacchi e dolciumi. «Da piccolo amavo i dolciumi – conclude Mamadoudiao – sognavo scorpacciate di caramelle e liquirizia; mai abusato di una sola caramella, nemmeno da commerciante, ma penso che il profumo dei dolciumi mi abbia sempre dato l’idea del benessere, del superfluo: potresti farne a meno, perché è solo un capriccio, invece ne mangi per goderne; mi accontento di poco? Forse perché da noi il poco è così tanto…».